Nicolas Charles Coutan – La Grande Opera svelata in favore dei Figli della Luce, tradotta dal Caldaico da M. Coutan (1775) – introduzione e traduzione di Massimo Marra

On Line dal 30/06/2012

Dell’oscuro pamphlettista monsieur Nicolas Charles Coutan, tramandatoci dai dizionari bibliografici come maître-boutonnier, mastro bottonaio, e dunque borghese ed artigiano, lealista fin troppo zelante ed incline al soliloquio filosofico su argomenti non certo meschini e decisamente fuori dalla sua portata, non ci è rimasta praticamente nessuna notizia rilevante. Ignorato dai dizionari biografici, recensito dalle citate opere bibliografiche col solo e nudo elenco delle sue pubblicazioni, il nostro Coutan sembra essere sostanzialmente passato inosservato anche alle lettere dei suoi tempi. Recensioni alle sue opere sono rarissime, e, tra le poche pubblicate, se ne annovera una impietosa ed anonima (forse di mano di Raynal) datata 11 gennaio 1751, apparsa a proposito di una delle sue opere, l’Essai pour parvenir à la connoissance de l’homme; tale critica fu poi inclusa nel tome deuxième della Correspondance littéraire, philosophique et critique par Grimm, Diderot, Raynal, Meister etc. (Paris, 1877, pp. 17-18):

«È un trattato sulle virtù, sui vizi e sulle passioni umane abbastanza scadente. L’autore non è propriamente né misantropo né filosofo; è un uomo ordinario che dice cose comunissime, e che le dice in una maniera ancor più comune. Si stampano tutti i giorni a Parigi di questi libri di morale privi di spirito e di successo, che nascono e muoiono in una settimana».

Nessuna informazione ulteriore sull’autore, dunque, se non il durissimo apprezzamento sulle qualità filosofiche e letterarie dell’opera. Non si potrebbe, onestamente, dar torto al severo ma sincero recensore. Le Nouvelles littéraires potevano forse non aver in simpatia un lealista convinto come Coutan, ma rimane il fatto che, della già trascurabile produzione pamphlettistica del Coutan, l’Essai, è forse tra gli scritti più tediosi e banali.
Vediamo, anzitutto, il breve elenco cronologico delle opere apparse a firma del nostro maître-boutonnier:

– Epitre au Roy (Paris 1745), uno scritto apologetico in brutti versi, che utilizza una struttura in distici a rima baciata che testimonia con certezza l’assoluta mancanza di talento poetico e letterario dell’autore. L’Epitre, opera prima, per quel che sappiamo, è di soli tre fogli.

– Epitre au Roy sur son retour (Paris 1745), altro scritto apologetico, stavolta d’occasione, in brutti versi, in cui talvolta la rima cede all’assonanza. La struttura metrica è la stessa dello scritto precedente, ma, in questo caso, il principale vantaggio della prima Epître – ovvero l’estrema brevità – viene meno, dilungandosi, questa nuova e letale composizione, per ben cinque interminabili fogli. L’occasione per il panegirico è stavolta la vittoria conseguita la Luigi XV (ma in verità del suo abile generale Maurizio di Sassonia) sulle armate inglesi a Fontenoy (1745), nell’ambito della Guerra di successione austriaca seguita alla morte, nel 1740, di Carlo VI d’Asburgo.

– Essai pour parvenir à la connoissance de l’homme (Paris 1751), dedicato al duca d’Orleans, in cui il nostro autore liquida con tre o quattro paginette a testa un lungo elenco di vizi e virtù connaturate all’animo umano. L’homme è il principale oggetto di conoscenza per Coutan, e, già nella prefazione, l’autore spiega che è proprio il desiderio di conoscersi che lo ha spinto al suo studio. Tuttavia questo lodevole intento, non riesce, in mancanza di originalità e profondità, a nobilitare l’opera.

– L’homme consideré en lui même (Paris 1753), l’unica delle opere di Coutan che non siamo riusciti a reperire e consultare, riportata dai repertori bibliografici e, probabilmente, da considerarsi sulla falsariga dell’opera precedente. Quest’opera, per quanto abbiamo potuto indagare, è l’unica lungamente ed abbastanza lusinghieramente recensita l’anno stesso nella Suite de la clef ou journal historique sur les matieres du tems (tome LXXIV, Juillet 1753, pp. 251-256).

– Etude propre de l’Homme (Paris 1774), approfondisce ulteriormente l’argomento degli studi precedenti. Coutan sembra qui un po’ meno generico che nell’Essai: il connoître nous-même cui invita l’autore è un amour de la sagesse, un’inclinazione naturale dell’uomo che ha accomunato i sacerdoti d’Egitto, gli astrologi Caldei, i magi persiani, i bonzi giapponesi, i bramani indiani con i loro gimnosofisti, i Galli coi loro druidi e bardi, ed i saggi filosofi greci. Dichiaratamente influenzata dalle teorie filosofiche e metafisiche filo-cartesiane di Géraud de Cordemoy (1626-1684), la lunga trattazione dell’autore, anche in questo caso, non presenta originalità di sorta. Nella seconda parte, alle considerazione più propriamente filosofiche della prima parte su corpo e spirito, sulle operazioni dell’intelletto e dell’anima, si sostituiscono dissertazioni sul cosmo e sugli elementi, nozioni di fisiologia e medicina che Coutan eredita dalla letteratura antecedente e contemporanea, e che servono da preludio alla terza parte, rivolta invece al costume, alla morale ed alla politica.

– Le Grand Oeuvre dévoilé en faveur des enfans de la lumière (riporta come luogo di stampa Amsterdam, ma con ogni probabilità è Parigi, 1775).

– Abregé de l’Histoire de France, par ordre alphabetique (Paris 1775) poi ristampato nel 1778 col titolo di Dictionnaire de l’histoire de France.

– Le livre sans titre, à l’usage de ceux qui sont éveillés et de ceux qui sont endormi (Paris 1778). È forse, ad esclusione di Le Grand Oeuvre, l’opera meno noiosa di Coutan, in cui l’autore abbandona una forma poetica o saggistica in cui appare annegare con facilità, per utilizzare una prosa più libera, con una raccolta di aneddotica, racconti allegorici brevi e prolusioni grottesche di personaggi immaginari, in cui la critica di costume e la polemica morale si mescolano al gusto del racconto e di una moderata satira. Certamente, ancora una volta, nulla di originale, né tantomeno di particolarmente profondo, ma, se non altro, la piacevolezza di lettura appare affaticare meno il lettore.

Nella galleria aneddotica messa in scena dall’autore in quest’ultima opera, trova posto, al capitolo XXXIII (pp. 180-183) anche un gustoso incontro con un alchimista, che riportiamo interamente, e che testimonia dell’indubbia acrimonia e disistima per la genia dei soffiatori alla ricerca della trasmutazione materiale. L’autore della Grand Oeuvre devoilé vi tratteggia un ritratto dell’alchimista come fourbe ou dupe, furbastro o gonzo:

«Stamattina ho avuto la visita di un alchimista, che, avendo inteso dire che io non credevo alla grande opera, era appositamente venuto per convincermene.
– Andiamo! Signore – mi dice con stupore – credete dunque che la trasmutazione dei metalli in oro sia dunque impossibile?
– Si! – gli rispondo bruscamente per sbarazzarmi della sua visita, – e penso inoltre che tutti coloro che lavorano all’alchimia siano dei gonzi o bricconi.
– Credevo – replicò egli con dolcezza – di non avere che i nostri misteri da svelarvi, ma vedo che bisogna prima che cominci col discolpare me e i miei confratelli dall’idea sfavorevole che vi siete fatta di noi. Io non nego che vi siano tra noi dei gonzi, sono coloro che non ne sanno ancora abbastanza, e la cui avidità di guadagno ha spinto ad intraprendere le operazioni prima di aver appreso tutto. Il che succede allo stesso modo in tutte le arti e talenti, ogni volta che si vede eseguire qualcosa prima di esserne abbastanza istruito; si avrebbe dunque torto a guardarci tutti come gonzi. Non è forse ingiusto imputare ad un gruppo gli errori di qualche singolo? Ammetto francamente anche che si siano trovati dei bricconi che, per arricchirsi a spese degli ambiziosi, si sono vantati di possedere il nostro segreto, e con false operazioni hanno abbagliato gli occhi del volgo ignorante, il quale, così raggirato da questi maestri truffatori, ha poi inveito contro la nostra arte come se noi tutti dovessimo esser ritenuti responsabili delle frodi perpetrate ai suoi danni; ciò ancora una volta, sarebbe ingiusto. Vedete così che gli appellativi di gonzi e bricconi non ci convengono in alcun modo, e che è a torto che ce li attribuite.
Al riguardo della nostra pietra filosofale, essa è causa di tanti prodigi che essi sembrerebbero a prima vista incredibili. In effetti, con la nostra polvere di proiezione o nostro Elisir, il che è uguale, ed a scelta dell’artista, si trasmutano tutti i metalli in oro, si guariscono ogni sorta di malattie, si allunga la vita umana di diversi secoli; e ancor più di tutto ciò, si potrebbe fare un nuovo universo, se fosse possibile trovare un nuovo spazio.
– Esco subito a cercarvelo! – gli dissi, e lo lasciai.»

Nell’ultimo capitolo l’autore insegna il modo di passer pour savant sans l’être: la ricetta sembra consistere, essenzialmente, nel parlare con termini oscuri e non conosciuti, ornarsi di paroloni, e, soprattutto, non accompagnarsi mai ai veri sapienti, che potrebbero facilmente smascherarci. Tra i consigli sul comportamento da tenersi per meglio simulare una presunta sapienza, Coutan aggiunge:

«…Gloriatevi inoltre di possedere la Pietra filosofale e di conoscere la Grande Opera, e vedrete tutti adorare in voi la fortuna. E se qualche ambizioso volesse forzarvi ad operare in sua presenza, ditegli con tono imponente che voi non operate che davanti agli adepti, e lontano dai profani…» (pp. 202-203).

In questi due passi della sua ultima opera, non si fatica ad indovinare uno scorcio autobiografico. La pubblicazione, tre anni prima, di Le Grand Oeuvre devoilé doveva aver fatto balzare l’autore al centro dell’attenzione di quanti, in una maniera o nell’altra, nella Parigi di metà settecento, si occupavano a vario titolo di alchimia. E la schiera, a giudicare dalle pubblicazioni che in quegli anni si susseguono nella scena editoriale francese, non doveva certo essere esigua. Come abbiamo già avuto modo di specificare (3), questo è un periodo di grande effervescenza per l’editoria di tematica ermetica. Nel 1722 erano uscite, a Parigi, Les Clefs de la philosophie spagirique di Le Breton, tra il 1740 ed il 1754 escono, per i tipi di Caillet, i quattro volumi della Bibliothèque des Philosophes Chimiques di Jean Mangin de Richebourg, mentre nel 1753 era uscito a firma di un misterioso Cosmocole Philovite, indicando come improbabile luogo di stampa Londra, La verité sortant du puits hermetique, ou, La vraye quintessence solaire et lunaire, baume radical de tout estre, & origine de toute vie. Nel 1742 era uscita l’Histoire de la philosophie hermetique di Lenglet-Dufresnoy, nel 1751, anonima, per i tipi di Pierre Mortier, era uscita la Clavicule de la science hermetique. Tre anni dopo l’uscita di Le Grand Oeuvre devoilé, e lo stesso anno di Le livre sans titre, sarebbero usciti il Dictionnaire Mytho-hermétique e Les fables égyptiennes et grecques del Pernety. Nel 1772 esce presso l’editore Edme a Parigi la versione francese dell’Aurea Cathena Homeri (l’originale tedesco era uscito nel 1723), col titolo di La Nature devoilée ou théorie de la Nature. L’usci continua di trattati alchemici continuerà fino agli anni ’80 del secolo. Vi era dunque per la tematica alchemica, nella Francia di quegli anni, un pubblico, che, a fronte di una tale produzione editoriale, dobbiamo ragionevolmente considerare abbastanza folto ed interessato.
Ritornando ora a Coutan, ad esclusione di quelle sopra elencate, non sono note altre opere: la sua notorietà ai posteri si è tramandata quasi esclusivamente per il trattatello sulla grande opera che, tra le altre cose, come vedremo, è da porsi tra le fonti privilegiate dell’anonimo ottocentesco Hermès devoilé. Con il 1778 la produzione di Coutan si interrompe, non sappiamo se per la morte dell’autore o per l’abbandono delle velleità letterarie. Ed è certo che, comunque, non più di un decennio ancora avrebbero potuto durare le uscite pubbliche del lealista Coutan, poiché di lì a dieci anni le nubi tempestose della Rivoluzione francese difficilmente avrebbero potuto risparmiare l’autore delle accorate épîtres poetiche a Luigi XV.
Le Grand Oeuvre è, in buona sostanza, un trattato di alchimia che testimonia, se non altro, una frequentazione dell’autore con i concetti base della filosofia ermetica. Pur non affannandosi nel gioco tradizionale delle citazioni degli autori classici, Coutan parla coerentemente dell’argomento, e la sua operetta non sembra discostarsi grandemente dalla letteratura apologetica dell’alchimia tardo seicentesca. Tuttavia, se il trattato di Coutan è ricordato dagli ermetisti successivi, ciò si deve senz’altro all’ultimo capitolo, il settimo, in cui l’autore si abbandona ad uno stile narrativo e favolistico (che ritroveremo nel Livre sans titre) ed all’esposizione del songe, che costituisce buona parte dell’originalità dell’opera.
Il dragone che vedremo apparire nel testo di Coutan è lo stesso che Ercole sconfigge nel giardino delle Esperidi (anch’esse, nel mito, protagoniste di mirabolanti trasformazioni), lo stesso ucciso dall’antica iconografia dell’arcangelo Michele, ancora lo stesso trafitto e sottomesso alla guida della principessa Silene da San Giorgio nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine; è la lotta primordiale del dio solare Marduk contro la mostruosa Tiamat, la dea delle acque primordiali della mitologia babilonese. La lingua alchemica riprende e moltiplica il simbolismo della lotta col drago in un infinito gioco di specchi e varianti, di cui il testo di Coutan e quello di Cyliani non sono che tra gli esempi più tardi.
Le serpi, in parte rettili, fisse, ed in parte alate, volatili, che nascono dal sangue del dragone, i piccoli negri che si evolvono dai pezzi del corpo senza vita del drago filosofale, che col loro fantastico concerto segnalano la compiutezza della nigredo, sono divertenti affabulazioni oniriche che attingono in modo creativo ad un repertorio simbolico tradizionale che Coutan maneggia con una grazia e leggiadria di cui altrove (se si eccettua, forse, il Livre sans titre) non appare capace.
L’avventura alle prese con il quaternario dei contadini prima e dei briganti poi, l’intervento provvidenziale della bellissima virgo lactans armata di verga/lancia, quasi speculare alla finale incarnazione femminile, spietata quanto benefica, della vecchia ed orribile strega, la battaglia con i contadini trasformati in statue d’oro, il corpo filosofale del protagonista lavorato e rammollito dall’olio magico che gli fa perdere forma e fisionomia, sono altrettanti elementi di una narrazione immaginifica ed affascinante, che si ricollega in vario modo ad una tradizione letteraria e simbolica ben radicata tanto nell’alchimia quanto nella favolistica.
In particolare, vedremo in seguito ritornare la bella virgo iniziatrice nell’ottocentesco Hermes Devoilé.
L’apparizione della donna/dea dispensatrice di sapienza è un topos di sapore dantesco e stilnovistico che assurge ad ulteriore popolarità nei cicli della letteratura cavalleresca (4). Esso si ripete nelle apparizioni femminili che accompagnano il precorsi del protagonista dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499) di Francesco Colonna (1433-1527), il cui viaggio nel locus amoenus popolato da ninfe, culmina con l’incontro della Venere dispensatrice dell’iniziazione amorosa. Lo reincontriamo in vari punti del rosicruciano Le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616) di Johann Valentin Andreae. Qui è una «…donna stupenda, indossante una tunica blu delicatamente ornata, come il cielo, di stelle d’oro» che appare al protagonista, consegnandogli una lettera contenente le prime enigmatiche istruzioni. E, per tutta la durata del racconto, è una bellissima Vergine che scandisce le tappe dell’avanzamento lungo il viaggio iniziatico, dispensando enigmi, castighi, ammaestramenti e premi.
Tuttavia, per quel che ne sappiamo, l’apparizione della dea iniziatrice sotto le spoglie di una ninfa si manifesta, nella letteratura specificatamente alchemica, solo qualche anno dopo, nel 1619, in un trattato intitolato Abortus chimicus, sivè Valles arcanitatum divae sapientiae. Das ist ein philosophischer Discurs vom Stein der Weisen und seiner wunderbahren Geburt ad praxin Basilianam gerichtet. Und in offentlichen Druck vorfertiget per Philotechnum Tyronem Halolithium. Non sappiamo, ancora oggi, chi si nascondesse sotto il suggestivo pseudonimo di Philotechnum Tyronem Halolithium, tuttavia è in questo trattato che vediamo apparire per la prima volta una ninfa nuda e di abbagliante bellezza innanzi ad un protagonista paralizzato dal desiderio d’amore. La ninfa non tarda a rivelare che l’amore che agita il cuore ed i sensi di Philotechno è corrisposto, e, nel contempo, invita il protagonista a purificare i suoi intenti ferini, rendendosi così degno della celeste amistà che gli viene offerta. Dal seno destro della ninfa zampilla il lac sapientiae che bagnerà il volto di Philotechno (5).
Nel più tardo testo di Dom Belin, Les aventures du philosophe inconnu, en la recherche et en l’invention de la pierre philosophale (Paris, 1646), probabilmente debitore del racconto di Philotechno, la ninfa si trasforma in una generica “dama” – stavolta più pudicamente coperta – ed è tale la bellezza dell’apparizione che il protagonista si chiede se essa non possa essere una apparizione diabolica atta a tentarlo ed a fargli abbandonare la via della virtù. Ma la pudicizia, la modestia e la dolcezza dell’espressione della dama, lo rassicurano sull’origine della visione. L’apparizione è vestita con una veste argentata ornata da fiori d’oro, la testa ornata da pietre preziose che «faceva sparire senza difficoltà l’ombra del mio boschetto». Nella destra l’apparizione reca un libro, e nella sinistra una fiala piena di un liquore odoroso.

«… tutti questi miracoli facevano del mio deserto un piccolo paradiso, e mentre l’ammirazione mi rendeva assorto nella loro contemplazione, la dama mi toccò sulla fronte dolcemente col libretto, e mi disse:
– Vedo bene, figlio mio caro, che il tuo spirito è assorto; posso aiutarti in qualche cosa?
– Signora – gli dissi – sono indegno delle vostre grazie, ma sarei ancor più incivile se ne rifiutassi l’offerta.
– Dimmi dunque in cosa vuoi che ti assista.
– Signora, non avendo la fortuna di sapere chi voi siate, non posso sapere dove arriva il vostro potere per formulare una adeguata richiesta. Perciò, il primo favore che desidero dalla vostra cortesia è di rivelarmi il vostro nome.
– Come – riprese la Sapienza – non mi riconosci, tu che ti vanti di essere uno dei miei discepoli?
– Ah!, Signora, siete voi la Saggezza?
– Ancora non mi riconosci? Tutte la parti che compongono e che ornano questo corpo non ne sono forse segno?
– Perdonate la mia ignoranza; non avevo pensato di trovarvi nel deserto, ma solo nelle accademie.
– Una madre ricerca ovunque i suoi bambini per tendergli la mano nei passaggi pericolosi…».

Il protagonista comincia la narrazione delle sue deludenti peregrinazioni alla ricerca della pietra, la Sapienza, come la ninfa di Philotechno, scopre una delle sue mammelle ed il protagonista ne sugge il latte (6). La dama rivelerà poi all’iniziato, dignificato dal contatto con il Lac philosophorum, il segreto della pietra in tre discorsi successivi.
Coutan, dunque, nel suo settimo capitolo, attinge dunque ad un repertorio tradizionale già ricco, di cui, almeno in parte – sicuramente per quanto riguarda il testo di Belin – egli si sente padrone.
Il nostro maître-boutonnier, nel presentare nell’Avvertenza dell’Editore il suo divertissement “tradotto dal caldaico”, si schernisce, dichiarando la sua assoluta distanza dalle chimere filosofali.
Ma su tale distanza, monsieur Coutan, sia consentito al benevolo lettore un legittimo dubbio…

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata per qualsiasi fine e con qualsiasi mezzo.

NOTE:

(1) La qualifica compare per la prima volta, per quel che ci è noto, nel Supplément à la France litteraire de 1771-96 di Jean Samuel Ersch (Hambourg, 1802), a p. 132, dove, nel recensire l’Abregé de l’Histoire de France, accanto al patronimico dell’autore l’Ersch annota tra parentesi: peut-être le même que C. maître boutunnier à Paris.

(2) Di recente ristampato, con una breve introduzione di Jean Roudaut, ne La nouvelle Revue Française, n° 315, aprile 1979, pp. 183-192.

(3) Vedi su questo stesso sito la nostra introduzione a I Sette Colori dell’Opera Ermetica di Alliette (Etteilla).

(4) È in particolare Lancillotto che, nei cicli a lui dedicati – in particolare si veda a questo proposito l’esempio del Lancillotto in prosa – si confronta spesso con figure femminili ambivalenti (in genere associate alle acque), dalla chiara funzione iniziatica. Si veda sull’argomento il saggio di Anne Berthelot, Du lac a la fontaine: Lancelot et la fée-amante (Mediévales n° 6, 1984, pp. 3-17) e, più recentemente, il lavoro di Ana Sofia Laranjinha, La fontaine aux fées dans le Lancelot en prose, roman anonyme du XIII siècle (Revista de Faculdade de Letras – Linguas e Literatures, II série, vol XXI, Porto 2004, pp. 169-184).

(5) Una traduzione francese di un ampio brano dell’opera è riportata nell’introduzione di Bernard Husson ai Deux traité alchimiques du XIXe siècle: Cours de Philosophie Hermétique par L.-P.F. Cambriel et Hermès Dévoilé par Cyliani. Présentation et commentaire par Bernard Husson, (Omnium Littéraire, Paris 1964, ristampato per i tipi M.C.O.R. – La Table d’Émeraude nel 2003, . pp. 64-68). Il brano inerente l’incontro della ninfa con Philotechno è contenuto anche in Charles Flamand, Erotique de l’Alchimie, Le Courrier du Livre, Paris 1989, pp. 47-49.

(6) L’immagine ricorrente dell’allattamento al seno della Dea-Sapienza iniziatrice, si ricollega all’idea di un nutrirsi ad una sapienza “del cuore”, un abbeverarsi ad una fonte cardiaca, identificata come fons sapientiae per eccellenza. Cfr., in rapporto a ciò, le diverse declinazioni del tema della virgo lactans. La Dama de Les aventures di Belin, dopo aver allattato il nostro philosophe inconnu, gli dice: «… Figlio mio, le mie mammelle sono fontane di scienza, e nel tempo stesso in cui le si gusta, si diviene saggi… non credere dunque che le mie mammelle servano solo per ristorare col favore d’un delizioso latte. Esse servono ad istruire e trar fuori dall’errore gli spiriti…» (op. cit., pp. 186-187).

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LA GRANDE OPERA SVELATA IN FAVORE DEI FIGLI DELLA LUCE
Tradotta dal caldaico da M. Coutan

Ad Amsterdam, e si trova a Parigi presso Delalain, Libraio rue de la Comédie Françoise, e presso l’autore, rue de la Croix all’angolo di quella di Phélipeaux, casa del Candeliere. 1775.

Traduzione di Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata per qualsiasi fine e con qualsiasi mezzo.

AVVERTENZA DELL’EDITORE.

Sono ormai sette anni che trovai questo manoscritto nel mio gabinetto. Nonostante le indagini fatte, non ho potuto mai scoprire né la persona che ve l’ha furtivamente introdotto, né per quale motivo esso mi sia stato lasciato. I miei amici credono questa piccola opera assai antica, e fondano le loro congetture su due prove che, se non sono autentiche, sono almeno verosimili: la prima è che il manoscritto è in antico Caldaico; la seconda che nei libri moderni di questa scienza, vi sono molte cose che sono tratte da questo manoscritto.
L’ho tradotto, su preghiera dei miei amici, il più accuratamente che mi sia stato possibile. Ed ho fatto di più: ho volto tutte le frasi nel mio stile ordinario, senza tuttavia alterare alcuno dei pensieri dell’autore, ed oggi l’offro al pubblico più per gloriarmi della mia traduzione che per impegnarli ad aumentare la schiera dei soffiatori. Perché, a parlar con franchezza, ho sempre guardato alla Grande opera come ad una chimera; e qualunque cosa dicano tutti gli autori alchimisti per assicurarci della possibilità e della realtà della pietra filosofale, dell’antichità del suo segreto, io li considero comunque dei furbi impostori, incluso il loro Hermes, se è vero che questi abbia scritto su questo soggetto; io li considero tutti tanto furbi ed impostori quanto lo erano i sacerdoti del paganesimo.
Uno dei miei amici, uomo retto e giusto ma un po’ troppo credulo, sostiene che questo preteso segreto esiste, e dice di aver visto più volte fare, dell’oro. Ma come potrei mai credergli, visto che assicura anche di aver visto degli spettri?
L’epistola dedicatoria mi è parsa ingegnosa, nel suo genere una capolavoro. Credo inoltre di aver scoperto che l’autore, chiunque esso sia, non crede affatto alla trasmutazione dei metalli, ed ha fatto quest’opera più per divertirsi che per fare proseliti.

EPISTOLA DEDICATORIA ALLA POSTERITÀ.

O Posterità! È a te che mi indirizzo e dedico questa opera, piccola per volume ma grande per progetto. Ed a chi potevo meglio indirizzarmi ed offrire questa dedica, se non a te, che mai manchi di vendicare il merito oppresso e di rendere ad ognuno la giustizia che gli è dovuta?
Nel comporre questo trattato succinto ma sublime, non ho ignorato che avrei finito per farmi altrettanti nemici quanti sono i profani, e che sarei stato fatto segno ai dardi più velenosi della calunnia. Ma la fiducia che ho in te mi ha rassicurato contro il loro numero e contro la loro malizia.
Mi immagino già ascoltarti parlare in mio favore ai miei antagonisti e dirgli: o l’arte di far l’oro è vera, o è falsa. Se è vera, egli non ha dunque scritto menzogne, ed ha avuto ragione ad esprimersi nello stile dei filosofi e fuori dalla portata degli stupidi e degli ignoranti. Se è falsa, questi stessi stupidi ed ignoranti gli debbono riconoscenza, poiché, per le disposizioni d’animo che esige e che tanto rare sono oggi nel mondo, egli li avverte di non rischiare le ricchezze reali che essi posseggono per un bene immaginario che non è mai esistito che nell’opinione di qualche cervello caldo.
Ecco ciò che tu non mancherai di dire ai miei nemici.
Io trionferò della loro malizia e tu ne avrai ogni gloria.

LA GRANDE OPERA SVELATA IN FAVORE DEI FIGLI DELLA LUCE.

CAPITOLO PRIMO.
Lungi da qui, profani, ciò che sto per dire non è fatto per voi. È in favore dei degni discepoli del grande Hermes che io svelerò il nec plus ultra delle scienze, l’arte di fare la pietra. Senza dubbio state per gridare contro di me; poco importa. Non farò la minima attenzione alle vostre insipide parole, poiché è molto tempo che sono abituato allo starnazzo delle oche e al gracidare dei corvi.
Leggete la mia opera se volete, non ne sarete più istruiti; non vi sono che i Figli della Luce che possano intendermi; ve lo ripeto nuovamente: non è per voi che scrivo.
O voi, il cui desiderio sincero e disinteressato porta a lavorare alla Grande Opera, voi, che non avete altro scopo, nelle vostre dotte ricerche, che quello di rendervi utili all’indigente merito ed all’oppressa virtù, venite a ricevere dalle mie mani il salario della vostra laboriosa perseveranza e la corona filosofica che vi è legittimamente dovuta.
Cominciate, cari Figli, a ben preparare il nostro mercurio, e l’opera sarà per metà compiuta. Non vi nego che avrete delle difficoltà da superare per pervenire a questa prima preparazione la quale, senza dubbio, è la parte più difficile della nostra opera filosofica; ma ricordatevi, e non lo dimenticate mai, che un grande coraggio non si lascia abbattere dagli ostacoli che incontra, e che, al contrario, esso si fa un dovere ineludibile di superarli. Seguendo scrupolosamente le strade della natura, incontrerete gli stessi ostacoli che questa incontra nel corso delle sue operazioni, e li supererete come anch’essa li supera: post laborem scientiam.
Allorché avrete compiuto questa prima operazione dimenticate la pena che vi avrà causato, poiché ciò che rimane da fare è così poca cosa che si perfezionerà col tempo e quasi senza lavoro. È come per un albero che, dopo essersi sforzato di produrre i frutti, attende con pazienza che il sole li maturi; nell’attendere questa maturazione, esso non fa che conservare nei frutti quell’umido radicale che gli è tanto necessario dal momento che, se venisse a mancare, il sole li brucerebbe invece di maturarli.
Per quanto difficile sia questa prima sgrossatura, nondimeno vi si riesce quando ci si comporta con attenzione, prudenza, e circospezione. Colui che si allontana dalle strade della natura e che non vuole che aiutarla, è un saggio che riesce in tutti i suoi propositi, poiché non ne formula alcuno che possa eccedere le sue forze; al contrario, colui che pretende costringere la natura, è un folle che fallirà in tutti i suoi progetti, poiché egli li concepisce tutti al di sopra del suo potere.
O voi che siete abbastanza discreti da non domandare alla natura ciò che ella non è in grado di darvi, meritate di aver parte ai suoi doni, siete degni della sua liberalità. Ascoltate le mie parole, studiate le mei lezioni, approfittate dei miei consigli, e sarete felici.
Prendete del mercurio crudo, fatelo cuocere secondo l’arte, ovvero fissate ciò che ha di volatile e volatilizzate ciò che ha di fisso; rendete liquido ciò che è secco e secco ciò che è liquido; allora avrete in vostro potere il vero mercurio filosofico. Ma, soprattutto, non lavorate precipitosamente, affrettatevi lentamente; ci vuol del tempo per tutte le cose. La nostra comune madre, la natura, regola tutte le sue produzioni sul corso annuale del sole, che ne è il vero padre. Prendete tutte le precauzioni necessarie, e nulla di più.
L’arte di fare la pietra ha più della semplicità della natura che della premura dell’Artista.
Siate spesso oziosi spettatori, e non occupatevi, in questi momenti d’inattività, che di considerare la compiacenza che la natura ha per l’arte ed ammirare il suo assoggettamento alla volontà dei figli della scienza.
Quanto al regime del fuoco, abbiate cura di proporzionare il calore alla resistenza del mercurio; se esso è troppo debole, imputridirà invece di cuocere; se è troppo forte, ciò che vi è di volatile evaporerà, in modo che, nell’uno o nell’altro caso, mancherete il vostro obiettivo ed avrete lavorato in pura perdita. Studiate dunque la natura; penetrate i segreti più occulti al fine di pervenire alla conoscenza del suo fuoco centrale; perché è quella la parte più difficile dell’arte. E quando il grado del nostro fuoco sarà conosciuto, lavorate arditamente e senza timore di sbagliarvi. Tuttavia, per vostra maggiore sicurezza, chi vi impedisce di piazzare un termometro nel vostro laboratorio? Chiunque prenda tutte le precauzioni possibili, si assicura di non fallire mai.
Riconoscerete la perfetta cottura della pietra quando il mercurio, dopo essersi annerito e dopo imbiancato, diverrà infine di colore arancio. Ne farete una polvere che conserverete fin quando vorrete, senza tema che si corrompa, si dissolva o evapori; e questa meravigliosa polvere vi sarà utile a tutto ciò che intraprenderete.

CAPITOLO II.

Chiunque vuol divenire sublime nella nostra arte, deve di buon ora apprendere a contare, valutare e calcolare. Ora, per pervenire e compiere grandi progressi nella nostra scienza numerica, bisogna cominciare con il considerare l’uno, che è il primo numero, che comunemente si definisce numero generativo perché è da lui che si generano tutti gli altri.
A questo primo numero aggiungetene un secondo, che si ottiene per addizione, e questo sarà il due. Da questi due ne nascerà un terzo, se vi servite correttamente della moltiplicazione.
Da questi tre toglietene uno per mezzo della sottrazione, e ne resteranno due, che per divisione potrete ridurre a uno. In seguito, a questo uno che resta, ne addizionerete un altro, e reiterate per nove volte questa operazione; troverete col vostro calcolo il numero dieci. Aggiungetevi tre volte lo stesso numero e troverete il quaranta, che è il numero favorito della nostra arte.
Il numero di dieci è il più perfetto, perché è il termine cui ogni altro numero tende; quando si è pervenuti a questo numero, si ricomincia a contare. Dunque il numero dieci è il numero della perfezione, così come il sette è il più fortunato; il tre è il più maestoso ed il quattro il più misterioso.
Risulta da ciò che l’unità si sviluppa in due, si compie al suo interno in tre per produrre al di fuori di sé un quattro, da cui si compie una propagazione ed una rivoluzione simile fino all’infinito.
Per quanto oscuro possa sembrare questo principio, esso è tuttavia chiaro per colui che è dotato di tutte le disposizioni necessarie per pervenire alla scienza universale, ed il cui cuore è pieno di tutte le qualità indispensabili per raggiungere questo scopo. Questo principio così saggio, così salutare e misterioso, deve servirgli di guida in tutte le operazioni, e, se non si allontanerà mai da esso, riuscirà in tutte le sue imprese; il cielo rischiarerà le sue intenzioni, favorirà i suoi progetti e farà fruttare il suo lavoro. Colui che non lavora che per acquisire delle ricchezze col disegno di portar sollievo alla virtù indigente, non può mancare di pervenire al suo fine, poiché segue esattamente il volere divino. Il sole matura ugualmente ed indifferentemente i frutti che ci sono salutari e quelli che ci sono perniciosi, perché non è dotato di alcuna intelligenza. Ma noi, cui Dio ha donato la facoltà di riconoscere il bene e il male, di discernere la virtù dal vizio, dobbiamo occuparci senza cessa di proteggere l’uno e detestare l’altro. Sarebbe un errore assai dannoso alla società umana, farsi scrupolo di non voler punire il vizio rifiutandogli gli ausili che non sono dovuti che alla virtù. Tendere senza sosta una mano benefattrice all’innocenza oppressa, alla virtù indigente, e non avere per il vizioso – e soprattutto per l’ingrato che, per così dire, è il vizioso tra i viziosi – non avere, dicevo, per questi distruttori di ogni società, che dell’indifferenza e del disprezzo, è un nostro dovere, ed è dovere ineludibile.
O voi, cari poppanti della saggezza, sappiate che da che manifestiamo la volontà di soccorrere il virtuoso indigente, il cielo non manca mani di procurarcene i mezzi. Sappiate anche che se si trovano pochi uomini che siano istruiti del nostro segreto, è perché ve ne sono pochi la cui volontà sia pura e retta.
Vi sono due sorti di natura, la materiale e l’immateriale; l’una e l’altra hanno ciascuna la loro voce: quella della natura materiale è ben conosciuta dal mondo con il nome di voce del sangue, quella della natura immateriale è designata come voce della ragione.
Felice colui che non accorda al sangue che quanto non ripugna alla ragione. Ed è per lui che il nostro segreto è riservato, è a lui che è dato comprendere la scienza dei numeri ed il mistero della loro combinazione.

CAPITOLO III

La materia è una, e dalla sua unità sortiscono i tre regni: il minerale, il vegetale e l’animale. È questo che ha fatto dire a Platone quelle parole misteriose: tutto viene dall’unità e tutto vi ritorna.
I veri Filosofi, i degni Figli del tre volte grande Hermes, conoscono perfettamente questa materia, unica nel suo principio e trina nelle sue produzioni. Sanno che essa si trova ovunque, e che non possono fare un passo senza trovarla sul loro cammino. Così, quando ne hanno bisogno per il loro lavoro filosofico, essi sono certi di trovarla, per così dire, a portata di mano. Ma, per quanto riguarda il resto degli uomini, essi la vogliono senza saperla riconoscere e la toccano senza sentirla. Quanto è grande il numero di coloro che la cercano! E quanto piccolo è il numero di quelli che la trovano!
La cupidigia delle ricchezze, l’avidità delle grandezze, e, in generale, tutte le mire puramente umane, sono come altrettante fiaccole che abbagliano gli uomini, impedendogli di scorgere la verità, o come spessi veli che rubano ai loro occhi le perle ed i diamanti che li circondano, e che continuamente calpestano.
Ciechi mortali, volete pervenire alla conoscenza della nostra filosofia? Volete essere iniziati ai nostri sacri misteri? Cominciate con lo spogliarvi di questi interessi sordidi e mercenari che vi tiranneggiano senza sosta; calpestate quell’orgoglio che vi rode e prendete la ferma risoluzione di giammai appropriarvi, voi o la vostra sola famiglia, dei vantaggi che la natura o la fortuna vi presentano. Allora noi vi tenderemo una mano soccorritrice, vi ammetteremo alla nostra compagnia e vi riconosceremo per nostri fratelli. Non vi è che un Dio, che è padre comune di tutti gli uomini. Dunque, non vi deve essere che una sola famiglia sulla terra, e tutti gli uomini devono vivere come fratelli. Poiché non sono che i vizi ad impedire questa bella unione, non è dunque che ai soli viziosi, per i quali non proviamo alcuna pietà, che chiudiamo l’entrata del nostro santuario.
Quanto a voi, cari poppanti della sana filosofia, imitateci; non possedete nulla di proprio, e possedete tutto in comune. È l’unico mezzo di conquistare i favori del grande Hermes. Ma a che scopo incitarvi alla virtù quando voi non marciate che sotto i suoi stendardi? Essendo la vostra condotta irreprensibile, meritate di essere iniziati ai nostri misteri. Dunque, ascoltate ciò che sto per dirvi e profittatene; voi sarete felici, ed io sarò soddisfatto.
Dei tre regni lasciate l’animale ed il vegetale al volgo ignorante, e non dedicatevi che al minerale. Tra i tanti minerali che produce la natura, ve n’è uno unico, nel quale è racchiuso il gran segreto. Non esitate a forargli i fianchi, a cercare nel più profondo delle sue viscere quella fontana nascosta che custodisce un’acqua che è il nostro vero mercurio filosofico. Quest’acqua è il bagno degli elementi; è in essa che essi sono uniti, mescolati dalla natura ed assegnati al genere minerale.
Riconoscerete quest’acqua misteriosa dalle sue qualità: essa non è né calda, né fredda, né secca, né umida; o, piuttosto, essa è tutto ciò insieme, calda, fredda, secca ed umida. Si, miei cari emuli, essa racchiude in sé quelle quattro qualità contrarie: scalda senza bruciare, raffredda senza ghiacciare, umetta senza bagnare e dissecca senza alterare. Infine, quest’acqua è l’acqua del mare filosofico, sulla quale i Figli della Luce vogano senza temerne alcun pericolo, e su cui i profani non mettono mai piede senza farvi naufragio: degno castigo della loro temerarietà!
Avendo quest’acqua, che è il nostro mercurio, unico principio della nostra Opera come lo è dei sette metalli, avete tutto ciò che vi occorre; non vi resta più nulla da cercare. Ma prima che la possediate, bisogna avere quel sale che è la nostra miniera. Ma qual è mai questo sale, se non quel minerale che racchiude in se quest’acqua di cui vi ho parlato, e che per questo noi chiamiamo nei nostri libri Venere ermafrodita, vale a dire maschio e femmina insieme? In effetti essa e maschio, poiché e zolfo, e femmina perché è mercurio. Come zolfo, essa è calda e secca, cose che convengono al genere maschile; ed è, nel contempo, fredda ed umida, il che si rapporta al genere femminile.
Degni Infanti della Luce, non dimenticate mai queste parole misteriose di Platone: tutto viene dall’unità e tutto vi ritorna. Tali parole racchiudono tutto il nostro segreto: e poiché la materia si divide in tre generi, il minerale, il vegetale e l’animale, anche la nostra acqua misteriosa è composta di tre parti, ovvero d’un corpo, di un’anima e di uno spirito. Ora, la composizione della nostra pietra filosofale consiste unicamente nel fatto che, essendo i suoi principi ben preparati, il corpo si assottiglia nello spirito e lo spirito si fissa nel corpo, unendogli interamente la sua anima; ciò si ottiene rendendo questo corpo robusto, questo spirito sottile e penetrante, e quest’anima potente. A seguito di questa preparazione – semplice per il suo effetto, ma tripla quanto al soggetto, dal momento che si tratta di preparare il corpo, l’anima e lo spirito – siccome la natura non rimane mai in ozio sino a quando non sia giunta ai suoi fini, la nostra materia non tarda a corrompersi col fine di nuovamente rigenerarsi. La corruzione si distingue dal colore nero e la generazione da quello bianco, e perciò esse si nominano, per allusione a questi due colori, il corvo e la colomba.
Con ancora un po’ di pazienza e di lavoro, il colore bianco si cambia in rosso o arancio, ed allora voi possedete tutto ciò che la nostra arte ha di più prezioso. Non mi gingillerò in questa sede ad esortarvi a fare un uso conveniente dei vantaggi del nostro segreto, perché sono assai persuaso che esso sarà sempre impenetrabile a coloro la cui intenzione non è retta. Dico di più, e cioè che, se per la più grande sventura che possa colpirmi, la mia stessa intenzione dovesse cambiare, ed io volessi usare per me o in rapporto a me ciò di cui non debbo usare che per favorire gli altri, divenuto profano per queste mire puramente umane, la materia si rifiuterebbe al mio lavoro e la natura ai miei intendimenti.

CAPITOLO IV.

Uno scrittore del secolo passato ha immaginato che la parola latina planeta, che nella nostra lingua significa pianeta, fosse il nome misterioso che racchiude il mistero del nostro magistero, dando per motivo che questa parola conviene ai sette metalli come alle sette stelle che comunemente si designano col nome di pianeti; perché, egli dice, Saturno, Giove, Marte, il Sole, Venere, Mercurio, la Luna, che sono dei pianeti, sono anche metalli, e la parola planeta è composta di sette lettere.
Ora, benché gli astrologi abbiano attribuito ai sette pianeti non solo i medesimi nomi di cui si sono serviti i Filosofi per designare i sette metalli, ma anche gli stessi caratteri che questi avevano inventati per distinguerli, ne segue, nondimeno, che è comunque ridicolo asserire da ciò che lo stagno, ad esempio, sia un pianeta, ovvero una cosa vagabonda ed errante, che è ciò che la parola latina planeta significa. Piuttosto si dovrà solo dire che Giove è una parola di cui sia i Filosofi che gli Astrologi si servono indifferentemente: i Filosofi per indicare il metallo che ordinariamente si chiama stagno, e gli Astrologi per indicare il pianeta o stella errante che è tra quello chiamato Saturno e quello che chiamano Marte. Lo stesso si dica per gli altri nomi che sono comuni ai metalli e ai pianeti, di modo che Planeta, non è ciò che indica la vera ed unica cosa necessaria alla nostra opera filosofica, benché le due lettere greche Alfa e Eta si trovino anche nella nostra vera parola.
Accorrete profani, voi che siete amatori non delle scienze, ma delle ricchezze, accorrete! Sto per pronunciare questa parola misteriosa. Ricordatela bene, questa sacra parola; se non vi fa affatto acquisire nuove ricchezze, almeno non vi porterà a dissipare quelle che già possedete, e forse vi inciterà per il futuro a rendervi degni d’essere iniziati ai nostri misteri. Se siamo troppo giusti per ricompensare coloro che non meritano alcuna ricompensa, siamo anche troppo equi per rifiutare il soccorso a coloro che sono degni della nostra attenzione. Ascoltate dunque, sto per pronunciarla questa grande parola, eccola: saggezza.
Bene, profani, la parola è detta: ne siete ora più istruiti?
No, senza dubbio. Non così per coloro che, per la rettitudine delle loro intenzioni e la purezza dei costumi, hanno già acquisito qualche conoscenza della nostra arte; per loro, al contrario, questa parola fortunata disvela il resto. Si, è essa che indica loro di non cercare il nostro azoth o sperma filosofico che nel regno minerale in cui esso si trova, e non in quello animale o vegetale, in cui è impossibile trovarlo. Andate dunque a nascondervi nelle tenebre, profani, e lasciateci lavorare tranquillamente nella luce.
E voi, cari infanti della scienza, se non farete mai nulla di indegno di questa parola, sarete sempre felici, e non avrete più bisogno delle mie lezioni; voi stessi sarete in condizione di farne agli altri.

CAPITOLO V.

La vita è breve, si dice comunemente nel mondo, ed io la trovo estremamente lunga per molta gente. Quante persone vi sono che si sono lamentate della brevità della vita, e nondimeno si sono annoiate per tre quarti del loro tempo? La vita è troppo corta per gli uomini che pensano, ed è troppo lunga per quelli che non pensano. Il tempo passa rapidamente quando si è occupati, e lentamente quando non si fa nulla. La vita consiste unicamente nell’azione: senza azione, la vita non differisce in nulla dalla morte. Il vivere ozioso non è vivere, è vegetare. Non occuparsi che di sé, non è che vivere a metà. Interessarsi della felicità universale degli uomini ed agire di conseguenza, è vivere veramente e sentire che si sta vivendo. Vi sono pochi uomini che, nel mondo, vivono, e ve ne sono molti che, in luogo di vivere, non fanno che vegetare! I ricchi troppo inorgogliti della propria opulenza e troppo avvolti negli incensi che gli adulatori non cessano di prodigargli, non sentono cos’è il vivere. I poveri, prostrati dalla loro miseria ed umiliati dal disprezzo che si ha per essi, anch’essi non lo sentono. E coloro che si trovano tra i grandi e i piccoli, tra i ricchi e i poveri, non occupandosi, il più delle volte, che di ciò che gli concerne, non sentono di più. Chi, dunque, vive senza vegetare?
I Filosofi.
Si, non vi sono che i Filosofi che sentano cos’è il vivere, che conoscano tutti i vantaggi della vita e ne sappiano approfittare. Non contenti di vivere per se stessi, essi vivono anche per gli altri e, sull’esempio del grande Hermes, di cui hanno la gloria di essere e dirsi discepoli, essi non vivono che per far del bene all’umana società. Che le potenze della terra li adulino o li minaccino, che i loro parenti li blandiscano o li perseguitino, che i loro amici li sostengano o li abbandonino, essi non sono, per questo, meno Filosofi, ovvero amanti della Saggezza. La vita ha tante più attrattive, per loro, quanto più gli dà il tempo di fare del bene a coloro che meritano che gliene si faccia; la loro benevolenza giammai cade se non su coloro che non vivono che per lavorare, e non su coloro che non lavorano che per vivere.

CAPITOLO VI.

Se avessimo voluto divulgare il segreto della nostra Grande Opera, ci saremmo spiegati in termini conosciuti da tutti. Ma poiché il vantaggio della società è l’unico fine cui tendiamo, abbiamo preso tutte le precauzioni necessarie per nascondere al pubblico questo segreto dei segreti; e ciò che ne abbiamo scritto è per coloro che si sono resi degni di partecipare ai nostri doni. Qual grande disordine potremmo causare nel mondo se insegnassimo chiaramente l’arte di fare tutto l’oro che la cupidigia potrebbe desiderare.
Sarebbe stato desiderabile per la pace e la tranquillità degli uomini o che l’oro gli fosse sempre stato sconosciuto, o che almeno gli fosse risultato inutile, poiché questo metallo, per la necessità che se ne ha e per l’uso cattivo che se ne fa, è la causa di quasi tutti i mali che arrivano fra gli uomini. È ad esso che si debbono ormai tutte le distinzioni che tra le condizioni umane, è esso che fa la differenza tra ricchi e poveri, tra maestri e valletti, tra grandi e piccoli, tra magistrati e popolo, e che è, in definitiva, il motivo della fortuna e l’idolo di questo mondo.
Il rendere così comune l’oro che li mantiene e li fa sussistere col suo commercio, significherebbe distruggere assolutamente la società che è stabilita da tanti secoli tra gli uomini dalle leggi divine ed umane, sarebbe rovesciare tutti gli stati. In effetti, una abbondanza così grande e generale, renderebbe tutti gli uomini ugualmente ricchi, o, piuttosto, ugualmente poveri. Ognuno vorrebbe comandare, nessuno vorrebbe obbedire e non vi sarebbe più subordinazione. Ciascuno sarebbe obbligato a coltivare la terra per la sua personale sopravvivenza, e sarebbe costretto a fare diversi mestieri per vivere. Questa costrizione e necessità sarebbe ancora più grande nel clima in cui viviamo, data l’intemperanza delle stagioni; si potrebbe dire che l’uomo non può vivere di solo pane, e che i vestiti e gli altri aiuti che egli riceve dalle arti meccaniche, non gli sono meno necessari per la vita che il nutrimento. D’altronde, poiché il numero dei malvagi e dei fannulloni sarà sempre più grande di quello dei virtuosi che non vivono che del lavoro delle loro mani e della loro industria, i più forti opprimerebbero i più deboli di modo che, rendendo gli altri infelici, diverrebbero essi stessi miserabili, e così tutto piomberebbe nella confusione. Invece, nello stato in cui sono ora le cose, attraverso il commercio dell’oro, ciascuno, non facendo che un solo mestiere ed una sola professione, può avere facilmente tutte le cose necessarie alla vita ed un sol uomo gode, in questo modo, del lavoro di tutti gli altri come se egli stesso facesse tutti i mestieri e le professioni. Ciò fa sì che ciascuno possa vivere contento ed in riposo nella propria famiglia, secondo la sua condizione. Dunque, si deve considerare il nostro misterioso silenzio e la nostra filosofica oscurità come di grande vantaggio per il riposo e la tranquillità comune di tutti gli uomini, e, nondimeno, è questa oscurità che ci attira il disprezzo, l’odio e la calunnia di quasi tutti gli uomini. Infatti, poiché gli uomini nulla desiderano tanto quanto il vivere sulla terra felici e a lungo, ed identificano la pietra filosofale come il solo modo infallibile per procurarsi una tale felicità, considerando, nello stesso tempo, questa oscurità come un ostacolo invincibile che gli toglie il possesso di un bene così grande, essi inveiscono ed imprecano contro questa oscurità, e si arrabbiano rivolgendo mille ingiurie e mille imprecazioni contro noi che ne siamo gli autori; essi ci chiamano furbi, mentitori, ignoranti e figli delle tenebre. Dicono che ci serviamo di questa oscurità come di un velo ed un pretesto per coprire la nostra ignoranza e la nostra impostura.
Se avessimo scritto oscuramente della nostra scienza, con l’intento di insegnarla a chiunque, è certo che essi avrebbero ragione a farci questi rimproveri. Ma noi siamo ben lontani dal promettere un tal grande chiarimento delle nostre dottrine; al contrario diciamo ed avvertiamo assai sinceramente che giammai avemmo intenzione di scrivere, se non per i soli figli della scienza, ovvero per coloro che, attraverso la loro virtù, hanno acquisito la conoscenza del nostro primo Mercurio, mentre, al riguardo di tutti gli altri, non avremmo voluto né dovuto scrivere diversamente, né meno oscuramente di quanto abbiamo fatto. Che motivo c’è, dunque, di biasimarci per la nostra oscurità, dal momento che non sono che coloro che non ci intendono a biasimarci, e non è affatto per coloro che non ci possono intendere che noi abbiamo scritto? Si potrebbe con giustizia trovare a ridire con un uomo che, grazie alla benedizione di Dio sulla sua industria e sul suo lavoro, avendo legittimamente ammassato grandissime ricchezze che egli tiene accuratamente nascoste, lasciasse tutte queste ricchezze ai suoi soli figli, gli unici a conoscere il luogo in cui tali ricchezze erano state conservate; chi potrebbe mai sapere se essi ne farebbero buon uso? Ma si potrebbe biasimare quest’uomo per il fatto di lasciare, col suo testamento, questo tesoro ai suoi figli, escludendo tutti gli altri uomini?
Ecco quali sono stati il nostro spirito e la nostra condotta nello scrivere della nostra scienza per insegnarla e comunicarla agli uomini. Non avendola appresa che attraverso la benedizione che il Cielo ha donato ai nostri studi, non vogliamo così farne parte che a coloro che, nella stessa maniera, ne hanno scoperto abbastanza da poterci intendere. Così, ciò che è oscurità e tenebre per gli altri, ciò che li acceca, ciò che li fa smarrire e li spinge alla disperazione, questa stessa cosa è, per i figli della scienza, una luce che dissipa tutte le nubi e gli rivela tutti i misteri più nascosti, ed è per essi soggetto di consolazione e di gioia particolare e straordinaria; infatti essi hanno, tutta in una volta, la soddisfazione di conoscere una scienza che è la più utile, la più eccellente, ma anche la più nascosta e sconosciuta che lo spirito umano abbia mai potuto inventare, e che gli dà nel contempo delle ricchezze immense insieme con la volontà di ben usarne ed una lunga e felice vita, e questi sono i beni più grandi che si possano desiderare a questo mondo. Allo stesso tempo essi hanno la soddisfazione di vedersi esenti dall’accecamento e dall’errore in cui sono generalmente tutti gli altri uomini, che, tutti, o non conoscono, o disprezzano una scienza così rara e preziosa, oppure la cercano invano per mille vie errate e per mille mezzi inutili e contrari alla saggezza, che è il vero ed unico fanale che ci consente di scorgerla.

CAPITOLO VII.

Non posso meglio concludere questo trattato che mettendo a parte i miei lettori d’una visione che ebbi di qui a qualche tempo. Essa è misteriosa, e, di conseguenza, degna di tutta la nostra attenzione.
Ero da qualche tempo in campagna, per godere dei piaceri campestri che si gustano nella bella stagione. Le persone presso cui ero erano gente onesta, ma d’uno spirito sì greve che, al di fuori che a tavola, non vi era alcuna conversazione da sperare. Poiché li conoscevo da non poco tempo, non ero affatto stupito del loro carattere. Nell’andare da loro, del resto, non avevo altro disegno che quello di procurarmi il piacere della solitudine, che gustai durante tutti gli otto giorni in cui rimasi presso queste persone totalmente materiali.
Non lontano dalla loro abitazione, che era sul pendio d’una collina, c’era un folto boschetto, costeggiato da un piccolo ruscello, il cui mormorio delle acque sembrava agire di concerto con l’ombra regnante tra le fronde per eccitare al sonno. È in questo luogo incantevole che io andavo mattino e sera a godere del fresco. L’ultima volta che mi ci recai, mi addormentai, e fu durante questo sonno che ebbi la seguente visione.
Vidi ai miei piedi una massa informe che non mi parve né terra né ciottolo, né pietra, né legno; non potevo definire né ciò che fosse, né ciò che avrebbe potuto essere. Questa massa raggiungeva un volume della grandezza, all’incirca, d’un uovo. La spinsi con un piede e la feci rotolare a qualche passo innanzi a me. Attento a voler scoprire cosa potesse essere, mi misi ad esaminarla da tutti i lati; i miei occhi si affaticarono e si abbacinarono; me li stropicciai e mi misi di nuovo a guardare. Questa massa che, al suo primo aspetto, mi era sembrata di un colore indefinibile, mi parve allora nera come l’ebano. Sorpreso di un cambiamento tanto subitaneo, guardai attentamente per scoprire cosa potesse essere. Mi azzardai a prenderla in mano per contemplarla a mio piacimento. Mio Dio! quale fu il mio spavento quando, improvvisamente, vidi questo piccolo bolo nero lanciarsi a terra e trasformarsi in un orribile dragone. Avrei voluto fuggire, ma la paura mi immobilizzava. Tuttavia il dragone si ingrossava a vista d’occhio, e sembrava volersi lanciare su di me; e l’avrebbe fatto senza dubbio se una giovane dama non fosse sopraggiunta e non glielo avesse impedito, dandogli sulla testa un colpo con una verga che doveva essere di ferro lucido o acciaio, dal momento che era estremamente brillante. Questo colpo rese il dragone immobile come se fosse stato di marmo o bronzo. Un tale insperato soccorso mi rassicurò, e mi gettai ai piedi della mia liberatrice.
Dio! come mi parve bella. Ella aveva dei grandi occhi blu ed uno sguardo tenero, una piccola bocca, le labbra vermiglie ed i denti estremamente bianchi e piccoli; i suoi capelli erano d’un biondo dorato, ed ondeggiavano in boccoli sul suo seno a metà scoperto; il suo vestito era leggero e d’un bianco abbagliante. Trasportato, nel contempo, dal rispetto e dall’amore, dall’ammirazione e dalla riconoscenza per una persona così coraggiosa e caritatevole, così bella e giovane, poiché ella non sembrava avere più di quindici anni, io volevo testimoniarle la mia gratitudine dicendole tutto ciò che il mio cuore mi dettava al suo riguardo; ma la lingua non poteva pronunciare alcuna parola.
Infine ella mi risollevò con una bontà d’animo che è più facile sentire che esprimere, e mi disse con dolcezza di smettere di temere, perché mi avrebbe reso invulnerabile ai colpi di tali nemici; e finendo queste parole mi porse una delle sue mammelle e mi fece succhiare un latte cento volte più dolce del nettare, che mi rese tanto coraggioso che, in quel momento, io non avrei avuto paura nemmeno del più temibile dei dragoni.
In seguito ella mi donò la sua spada tagliente, che, all’inizio, avevo preso per una verga di ferro (1), e mi comandò di andare a colpire la testa del dragone e di non sorprendermi delle sue differenti metamorfosi; infine disparve. Incoraggiato dalle sue ultime parole, corsi verso il dragone, e gli mozzai d’un colpo la testa col mio acciaio tagliente. A misura che il suo sangue colava giù, si formavano dei serpenti, gli uni striscianti, gli altri volanti, i quali, al solo guardarmi, si allontanavano da me e parevano impauriti di vedermi. Se avanzavo di un passo verso di loro, il che io feci a più riprese, essi ne arretravano due.
Improvvisamente fui incantato dal suono d’una zampogna che si fece sentire alle mie spalle. Mi girai subito per vedere chi suonasse tanto melodiosamente. Era il corpo del dragone che si stava trasformando in un piccolo negro di circa tre piedi di altezza. A questa meraviglia ne successe un’altra, e poi altre ancora, come vi racconterò.
La testa del dragone era restata a terra: essa prese ai miei occhi la forma d’un altro piccolo negro della stessa statura del primo, che si mise a suonare il tamburello. Mi faceva piacere ascoltarli, quando, tutto ad un tratto, mi ricordai dei serpenti, poiché la sinfonia me li aveva fatti dimenticare. Girai dunque la testa per vedere cosa fossero diventati, e li vidi nel medesimo stato in cui li avevo lasciati. Essi attendevano senza dubbio il mio sguardo per cangiarsi in piccole marionette, al più d’un piede di altezza. Questo nuovo spettacolo mi fece sorridere, e risi il doppio quando li vidi saltare e caprioleggiare al suono degli strumenti cui ho accennato, che, nel frattempo, non avevano interrotto il concerto. Incantato da questo gradevole passatempo, mi girai verso i due musicisti con l’intento di incoraggiarli, ma essi non me ne diedero il tempo. Mi si avvicinarono e mi esalarono addosso dalla loro bocca un vapore spesso e nero che mi circondò, ed il cui odore insopportabile colpì a tal punto il mio cervello, che non potetti evitare di starnutire; starnutendo, dal mio naso uscì una fiamma blu che, in un istante, consumò e ridusse in cenere sia i musicisti, che i danzatori.
Questo starnutire rimise nel suo primo stato il mio cervello, il che fece sì che io potessi continuare ad esaminare tutti questi fenomeni che vedevo tanto rapidamente succedersi.
Ecco ora, dissi tra me e me, un mucchio di cenere: in cosa si trasformerà?
Mi misi a sparpagliarla con la mia spada tagliente, e, gettandone qua e là, ne vidi uscire una colomba d’una bianchezza accecante. Senza dubbio dovevo averla ferita col mio acciaio, perchè perdeva sangue; quel che mi parve più sorprendente è che, a misura che il suo sangue colava, essa si rimpiccioliva di modo che presto si trasformò tutta in sangue. La cenere che se ne inzuppava, ne divenne d’un colore arancio, e l’erba su cui era la cenere fu cambiata in erba d’oro, il che potei riconoscere sia dal colore che dal peso.
Sorpreso e rapito, nel contempo, da quest’ultimo prodigio, raccolsi accuratamente tutta questa preziosa polvere, di cui mi riempii le tasche. Tagliai anche l’erba trasmutata in oro, e la misi nel mio cappello che quasi si riempì, e divenne conseguentemente assai pesante da trasportare. Così carico, o piuttosto oberato da tante ricchezze, presi la strada di casa mia al fine di depositarvi tutta la mia fortuna.
Cammin facendo incontrai quattro contadini che, vedendomi portare a fatica il mio cappello, tanto esso era estremamente pesante, mi si avvicinarono per vedere cosa potessi portare di tanto grave. Non appena ebbero gettato uno sguardo sul mio raccolto, si misero a gridare con tutte le loro forze: al soccorso! al ladro! ecco uno stregone!
Vi sbagliate, gli dissi freddamente, non sono né ladro né stregone.
Come, replicò uno di loro mettendo tanto rudemente la mano sul cappello da farlo cadere, tu non sei uno stregone?
Il vedere la mia messe così rovesciata, mi mise in una collera così furiosa che, senza fare attenzione al fatto che erano in quattro contro di me, fui io l’aggressore, e diedi un ceffone a quello che aveva fatto cadere il cappello.
La mia mano, ancora impregnata da quella meravigliosa polvere che avevo raccolto con cura, ebbe la virtù di trasformare, in un istante, il corpo del povero villano in vero oro, e di farlo rimanere lì come un ceppo. I suoi compagni, impauriti da questo incidente, corsero via a gambe levate a dare la notizia e spandere l’allarme in tutto il villaggio. Io restai solo col mio uomo d’oro. Mi avvicinai, l’esaminai e gli ruppi anche il mignolo, il che valse a convincermi della sua metamorfosi e della proprietà della mia polvere.
Feci mille riflessioni su questo avvenimento così straordinario ed incredibile, ed ero ancora a riflettere quando tutti gli abitanti del villaggio vennero tutti insieme per attaccarmi. Non ebbi che il tempo di prendere la mia polvere e gettargliela negli occhi. Quelli che ne furono colpiti, da contadini che erano, divennero uomini d’oro. Questa nuova metamorfosi fece arretrare gli altri, ma solo per assalirmi con maggior accanimento. Essi presero delle pietre e me ne gettarono una quantità così prodigiosa che io credetti di non aver ancora un’ora da vivere, e ciò mi gettò in una disperazione così forte da spingermi verso di essi con l’intento di gettargli la mia polvere in faccia. Ero così furioso e fuori di me che non pensavo a risparmiare la mia polvere, di modo che, ben presto, la esaurii. Dovevo immancabilmente soccombere sotto i colpi dei contadini, quando, per mia fortuna, un terrore panico si impadronì di loro proprio nel momento in cui non potevo più difendermi, facendoli correre come pecore avanti al lupo. Anch’io mi misi a correre, ma per allontanarmi dal villaggio, ben risoluto a mai più mettervi piede. Il sole stava per tramontare e la notte si disponeva ad essere oscura, il che rese più facile la mia evasione e la mia ritirata. Marciai dunque, o piuttosto corsi, fino a che non fossi abbastanza lontano da non temere più i miei nemici. Allora sedetti nei presi di un campo di grano per riposarmi un po’, poiché ero estremamente affaticato. Per colmo di disgrazia ero affamato e non avevo nulla da mangiare, ero assetato e non avevo nulla da bere; tutto ciò che potevo fare era pazientare e continuare il mio cammino, il che feci.
Non mi ero messo in marcia da molto che fui bloccato da quattro banditi che si impadronirono di me prima che io li vedessi. Mi spogliarono dei miei vestiti e mi tolsero perfino la camicia. Due briccone, che erano in loro compagnia, si presero compiacentemente cura di piegare accuratamente i miei abiti mano a mano che gli altri me li sfilavano di dosso. Per conto mio, ero così impaurito che li lasciavo fare, senza osare profferire una sola parola.
Perbacco, disse una delle donne alla sua compagna, questo giovane mi apre abbastanza tranquillo, bisogna che tu mi aiuti a mettere alla prova la sua pazienza.
D’accordo! Rispose l’altra; sarà un divertimento che daremo ai nostri quattro amici, se lo gradiscono.
Volentieri! Dissero questi, ciò ci divertirà, d’altronde non abbiamo nulla da fare per tutto il resto della notte.
Subito esse mi strofinarono tutto il corpo con un non so qual olio nero e di cattivo odore, la cui virtù era di rammollire le ossa e renderle morbide come la carne. In seguito mi arrotolarono tanto strettamente che non occupavo un volume maggiore d’un pallone. Ed in questo stato esse giocavano con me proprio come se fossi veramente un pallone. L’una mi gettava in aria, e l’altra, dopo avermi fatto rimbalzare a terra, mi reinviava alla sua compagna. Gli uomini, che fino al quel momento erano stati spettatori passivi, iniziarono a giocare, e, poiché erano forti e robusti, mi gettavano con tanta forza che io rimbalzavo più volte a terra, e rotolavo lontanissimo. Infine, stanchi di palleggiarmi, tennero consiglio per decidere cosa dovessero farsene di me.
Bene, disse uno di loro, lo lasceremo là.
No, disse un altro, bisogna gettarlo nella prima cisterna che incontreremo.
Fu ciò che fecero di lì a cento passi.
Una vecchia mi prese nelle sue braccia, mi tirò a secco e mi posò dolcemente sulla verbena; mi strofinò con un olio chiaro e dall’odore gradevole, che ridiede alle mia ossa la loro consistenza originaria ed al mio corpo il suo precedente vigore.
Il mio primo pensiero fu di voler ringraziare la mia benefattrice, ma l’orrore che mi causava la sua figura me lo impediva. Mai vidi nulla di tanto orrido. Era una donna alta circa cinque piedi e mezzo, la cui pelle disseccata ed incollata sulle ossa, rappresentava perfettamente uno scheletro. Un crine bianco, un tempo rosso, ornava la sua testa per metà calva; i suoi occhi scuri ed incavati, avevano uno sguardo truce; il suo naso adunco ed il suo mento ricurvo, sembravano non congiungersi che per difendere l’entrata della sua bocca, che era larga, profonda e completamente sguarnita da denti. Ella era così occupata a vendicarmi che non si accorse dell’orrore che mi causava la sua figura. Con qualche parola magica che pronunciò biascicando, in un momento fece ritornare i miei quattro ladri e le loro due compagne. Con una bacchetta di nocciolo che teneva con la mano sinistra, li toccò uno dopo l’altro, e li fece entrare in un grande cerchio che in precedenza aveva preparato; poi gli comandò di spogliarsi interamente, il che essi fecero prontamente. Si mise di nuovo a balbettare qualche parola magica, tra le quali ne intesi una che era composta di sette lettere e che pronunciava più chiaramente delle altre. Subito apparvero dodici Mori le cui braccia nerborute erano armate di una bacchetta di agrifoglio con la quale essi andarono a solleticare le spalle ed i posteriori dei sei corpi nudi. I colpi erano così fortemente vibrati e tanto reiterati, che la pelle non tardò a strapparsi ed il sangue a colare a fiotti.
È abbastanza, gridai alla vecchia, perdonateli, ve ne prego, mi fanno pietà!
Ma come! Disse la strega stupita, essi ti fanno pietà? Non conosci dunque il piacere della vendetta?
No, gli risposi, né giammai vorrò conoscerlo. Chiunque prenda piacere nel far soffrire gli altri è un mostro ai miei occhi.
Continuate! Disse ella ai ministri della vendetta, e raddoppiate, anche; voglio che costoro spirino sotto i vostri colpi.
Poi, girandosi verso di me ed accorgendosi che la guardavo con orrore, ella gridò con voce roca: avrei forse favorito un ingrato?
Queste parole mi colpirono così fortemente che mi svegliai, ma tanto impaurito che, quando ci penso, ancora rabbrividisco.

TAVOLA DEI CAPITOLI E DELLE COSE PRINCIPALI CHE VI SONO CONTENUTE

CAPITOLO PRIMO

L’autore è così giudizioso che, dal principio del suo libro, avverte i profani che non è per loro che scrive, ma unicamente per Figli della Luce, vale a dire per coloro che conoscono già i principi di cui la natura si serve nel formare i metalli.
In effetti, un uomo stupido ed ignorante, che nulla può concepire non potendo compiere alcuna ricerca, è incapace di fare alcun progresso in questa scienza sublime. Supponiamolo pure d’uno spirito suscettibile di comprendere: se è troppo ostinato nelle sue risoluzioni egli non riuscirà mai. Lo stesso avverrà se è di spirito debole e cangiante ad ogni intenzione. O se è dominato dalla cupidigia delle ricchezze.
Al contrario, un uomo già istruito dei principi della filosofia naturale, è in condizione di comprendere assai distintamente la differenza complessiva dei tre regni, il minerale, il vegetale e l’animale. E se è dotato di spirito vivo e penetrante per l’indagine, di sano giudizio per non errare, di volontà pura ed esente da ogni cupidigia, è sicuro di riuscire in tutte le imprese, di qualunque natura esse siano, perché egli non ne intraprenderà mai di eccedenti le sue forze né di contrarie ai suoi doveri. La prima preparazione del nostro mercurio è la metà dell’opera che dobbiamo compiere per realizzare la Grande Opera.
L’Artista deve essere il ministro della natura, non il suo pedagogo. La conoscenza della gradazione del fuoco centrale è la più difficile della nostra arte.

CAPITOLO II

La scienza dei numeri è poca cosa per il volgo ignorante; ma è d’una grande utilità per i sapienti di prim’ordine. Pitagora ne conosceva bene tutta l’importanza, e ne ha fatto per tutta la vita il suo studio preferito.
Avrei molte cose da rimarcare su questo capitolo, ma non posso farlo senza mettere in pericolo di scoprire agli stupidi ed agli ignoranti ciò che è riservato ai veri amatori della scienza e della saggezza.

CAPITOLO III.

Non è possibile spiegare il nostro segreto meglio di quanto abbia fatto il filosofo Platone, il quale, per eccellenza, si definisce Divino, quando pronuncia queste misteriose parole: tutto viene dall’Unità, tutto ritorna all’Unità. In effetti, tutta l’estensione della nostra scienza ermetica si trova racchiusa in queste poche parole.
La materia di cui abbiamo bisogno per compiere le nostre operazioni, si trova ovunque, e gli uomini non possono vederla solo per via della cupidigia che li acceca. Non è che nel solo regno minerale, nel luogo ove essa si trova, che dobbiamo cercarla.

CAPITOLO IV.

La parola misteriosa che racchiude il segreto del nostro magistero e che è composta da sette lettere, si traduce in francese con Saggezza. Ora, tutto ciò che non è saggezza è follia, dalla follia non può derivare alcun bene, l’effetto non potendo essere più nobile della causa.

CAPITOLO V.

È di vantaggio alla società che il segreto di fare l’oro non sia divulgato agli occhi del pubblico. Ciascuno ne produrrebbe tanto quanto ne potrebbe desiderare la sua cupidigia, e, volendo perseguire la propria felicità, si renderebbe tuttavia miserabile. Perché, come un tempo, non si dovrebbe vivere che per sé, si sarebbe obbligati a coltivare la terra per la propria personale sussistenza e costretti a svolgere diversi mestieri per vestirsi ed alloggiarsi. Divenendo tutti gli uomini ugualmente ricchi, ciascuno vorrebbe comandare e nessuno vorrebbe obbedire, e non vi sarebbe più subordinazione, e, di conseguenza, non vi sarebbe nemmeno più società.

CAPITOLO VII.

L’autore finisce il suo libro con un sogno misterioso che racchiude non solo il segreto della grande opera, ma anche ciò che succede sovente a coloro che vi si applicano.

Nota:
(1) La confusione del protagonista tra verga e spada, in questo caso, serve a definire meglio il carattere simbolico dell’apparizione femminile. La verga d’oro è l’attributo tradizionale di Hermes (il caduceo), con cui il Dio ha il potere di mettere pace, di calmare, incantare o addormentare i mortali ( cfr. Iliade, XXIV, 343-344).