Pagina on-line dal 19/05/2012

Tratto da RIVISTA EUROPEA, GIORNALE DI SCIENZE MORALI, LETTERATURA, ARTI E VARIETA’ – Nuova serie, anno I, semestre I, Milano, tipografia di Vincenzo Guglielmini. 1843, pp. 1 . 23

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GIUSEPPE BORRI, OVVERO UN SETTARIO DEL SECOLO XVII
Di Egidio De Magri (Con una nota bibliografica di Gottardo Calvi)


Ai comenti che varii e numerosi vanno tentando gli scrittori patrii sull’indole del secolo XVII, crediamo di aggiungere materia di non volgare considerazione ricordando la vita, se altra mai, fortunosissima del milanese Giuseppe Borri: del quale può dirsi che fu una singolare anomalia, così distinta ell’esce dagli uniformi, anzi monotoni caratteri de’ suoi contemporanei. Sortì egli i natali in Milano da Branda Borri, valoroso giureconsulto e alla sua volta disceso da antenati ragguardevoli per nobiltà e per cariche civili esercitate in patria. Giovinetto fu mandato a Roma sotto l’istituzione dei Padri Gesuiti che in lui dovevano crescere, vuoi un nobile sostegno dell’ordine, vuoi un ornamento alla romana o alla milanese curia. Quivi chiarì una mente fervida oltre il costume, tale da non rimanersi contenta alle poche e volgari cognizioni onde si pascevano allora gli intelletti giovanili: oltre a ciò un sentire acutissimo, diremmo anzi un’indole morbosa che si accende e si tramuta in passione sì tosto aderisce ad una apparenza che la fantasia scaldi, od affetti. Con tali disposizioni venne presto a dar di cozzo colle metodiche e calcolate abitudini del seminario in cui era educato.
Oggetto della vigilanza, o piuttosto dell’animadversione de’ suoi superiori, non tardò a romperla con essi spargendo mali umori, facendo sette fra i condiscepoli, turbando per mille versi le tranquille ragioni dell’ordine e della disciplina. E fu una fiata che il malcontento vestì il carattere della resistenza, e scoppiò in tale una ribellione che i chierici, guidati dal Borri e barricatisi dentro i chiostri del Collegio, quivi stettero tre giorni sulle difese respingendo ostinati non che le ammonizioni e i consigli della prudenza, ma gli stessi esperimenti della forza. A vincer quella guerra fu d’uopo aver ricorso a’ più ricisi espedienti, e il bargello coi fanti di giustizia, richiesto dall’autorità scolastica, dovette por mano all’armi, e non di meno travagliar molto prima di rompere, segregare quel nucleo di giovani deliberati ad ogni più fiero contrasto. Il Borri, capo della sedizione,
con più altri che avevano maggiormente aderito alla sua causa, venne sbandito dal seminario e gettato alla ventura sulla pubblica via. Il quale, provveduto di un gruzzolo di denaro, libero da ogni soggezione, guidato da una fantasia ardente e da un cuore avido di piaceri, non tardò ad ingolfarsi nei trasordini e nelle dissolutezze. Correndo l’anno 1653, accontatosi in qualità di segretario presso il marchese Mirogli residente dell’Arciduca d’Inspruch, non migliorò le condizioni del costume, e troviamo che l’anno seguente, impacciatosi in non so qual pratica scandalosa, dovette riparare all’asilo ecclesiastico per isfuggire le rappresaglie della opinione e della giustizia da lui sfacciatamente offese.
Da questo momento però cessano in Borri le qualità dell’uomo comune, e quelle appaiono dell’uomo che ad altra meta aspira che non è la volgare. Perché, datosi ad un vivere ritirato e solitario, fu tutto negli studi della teologia, della medicina e della filosofia naturale, in cui trovavan posto l’alchimia,
l’astrologia giudiziaria e più altre scienze, che dalla qualità del mistero onde erano circondate, pigliavano il nome di occulte. Per quale sottile elaborazione dell’ingegno da così fatti studi levasse poi l’animo tant’alto da credersi destinato ad una missione straordinaria, a quella di riformatore nelle cose della religione, riuscirebbe molto difficile a spiegare se per avventura non si facesse ragione di tutti gli elementi morali che di que’ giorni costituivano la pubblica opinione. La riforma religiosa, iniziata appena dagli scritti di Lutero, di Calvino, di Zuinglio, di Buvero, di Melantone e vigorosamente propugnata dall’armi, era stata riconosciuta dall’Europa cattolica siccome un fatto compiuto, al quale era omai impossibile di resistere, checché ne pensassero in contrario le coscienze timorate dei principi che l’avevano combattuta. Anche i costoro popoli, testimoni della guerra e della vittoria de’ protestanti, eransi accomodati a vedere nelle transazioni stipulate a favore della parte avversa piuttosto il trionfo della forza brutale, e perciò una necessità politica, che non l’effetto di un principio di ragione e di giustizia. Un santo orrore stimatizzava di empietà inespiabile quella specie di violenza fisica più che morale con cui si era imposto al sentimento religioso e strappato dall’ovile antico di Pietro tante pecorelle infelici. Per alcun tempo, viva ancora durando la memoria della brusca separazione, una fiera inimicizia teneva separare e l’una ell’altra infeste la parte cattolica e la protestante. Ma come avviene delle cose umane che dopo il fatto se ne pretesse anche il diritto, e l’amor proprio cerca di fingersi una maniera di giustificazione se non di apologia a quel sistema di accidenti in cui si è venuto componendo, i dottori delle comunità eretiche cominciarono ad istituire una specie di polemica morale, in cui mentre da un lato giustificavano e sviluppavano fino all’estreme conseguenze i principii della riforma, dall’altro assalivano la Chiesa cattolica ne’ suoi più validi ripari, così nel dogma così nella disciplina; pratiche, uomini e cose mettendo al flagello di una critica minuta, acre, ironica e beffarda. Le relazioni indotte dalla politica e dal commercio facevano omai facoltà di osservare più da presso la gerarchia sacerdotale, a Roma specialmente dove essa ha il centro delle sue vastissime diramazioni. Le lautezze pertanto della corte pontificia, gli sfoggi cardinaleschi, le brighe dei conclavi, le pompe lussureggianti del culto, indi i rigori della inquisizione, l’idiotismo di alcuni ordini religiosi, e per lo contrario la scaltrezza e l’ipocrisia di alcuni altri, le superstizioni popolari e gli aneddoti scandalosi, tutto ciò dava materia di libelli, di satire, di pasquinate, di scritture anonime, cercate e lette avidamente dagli spiriti forti, che pur di mezzo alla universale concordia delle coscienze si venivano educando al sindacato delle opinioni religiose. Sappiamo per le storie che i principii stessi cella Riformazione, comechè subito assopiti dalla vigilanza dell’autorità ecclesiastica e laicale, non si erano rimasti affatto oltre l’Alpi, ma penetrando furtivamente in Italia vi avevano sedotto qui e colà parecchie delle menti più riottose. Né questo era avvenimento che riguardasse i tempi immediatamente vicini alla Riformazione; chè il mal seme, favorito dalle cause più sopra discorse, dalla frequenza, cioè, de’ cattolici con protestanti e dalle costoro insidie, seguitava a maturar frutti, isolati è il vero, ma pur ripetuti anche nel secolo seguente. Ferrara, Bologna, Mantova, Bergamo, Venezia, Milano stessa videro a quando a quando pullulare così fatte ubbie religiose tolte di mezzo senza grave scandalo, sia dall’accortezza de’ vescovi, sia dall’esilio volontario degli innovatori che a fuggir carcere o peggio ripararono presso lo straniero. D’altronde, nè la storia deve tacerlo, Roma, riavutasi dalla tempesta che tanto l’aveva esagitata e scossa col terribile fantasma dell’eresia, aveva alquanto rimesso di quel fervore onde ne’ giorni del pericolo aveva dato mano a riformare gli abusi chiariti nel governo delle cose sacre.
Molto, per verità, anzi moltissimo, si era fatto a rendere inopportune le vecchie querele sulla corruzione del clero, eterno pretesto agli indocili per passarsela dal riverirne l’autorità. Si avvicendavano sulla cattedra di san Pietro uomini virtuosi, o almeno di provati costumi, tali che dovevano il proprio innalzamento all’opinione dei loro meriti personali, piuttosto che alle mene dei partiti. Il nepotismo, piaga antica e per poco non insanabile, infrenato tra modesti confini: i redditi della Camera Apostolica erogati in opere di pubblica utilità: istituzioni molte, quali nuove all’intutto, quali restituite alla bontà di loro prima origine: maggiore castigatezza ne’ costumi: minore acerbità nelle opinioni religiose, e in vece tolleranza più che discreta nel maneggio delle relazioni con gente di contraria fede: insomma svigorito se non istremato di forza il principio che già faceva di Roma l’avversaria irreconciliabile di ogni novità comechè pur desiderata, sia dai bisogni del tempo, sia dalli incrementi della sana ragione. Tuttavia per quelle condizioni che governano le cose di quaggiù in cui gli abusi antichi mettono radici profonde e richieggono poi non che l’opera lenta del tempo, ma altresì la volontà costante dell’uomo a volerli ridurre a bene, rimanevano ancora di grossi difetti, segno alla censura non pure dei malevoli, ma eziandio dei più discreti.
Scrutatrice severa delle magagne stava la critica con cento occhi e cento orecchi, spiando materia di
scandalo per empirne poi le’ bocche della fama: notava le etichette della corte, i pettegolezzi; i pranzi e le cene imbanditi con tale uno sperpero da disgradare quelli di Lucullo e di Apicio; le delizie delle villeggiature cardinalizie le persecuzioni vuoi civili, vuoi religiose, pretesti a sfoghi di
risentimenti privati; lo sfarzo delle vesti e dei traini, specie di ludibrio contrapposto allo squallore e all’inopia de’ popolari; l’irreligione, anzi l’ateismo, recati in trionfo cosi nei discorsi come nelle pratiche da chi teneva obbligo di essere mansueto, caritatevole, pio; certi convegni dove la maldicenza e la calunnia aiutate dall’obliqua scurrilità facevan prova di offendere il pudore, la riputazione, la virtù; l’avidità insolente, insaziabile de’ Curiali; le tresche cortigiane; le adulazioni; l’importanza soverchia concessa a certe pratiche, a certi riti, intesi ad ingannare gli idioti e cavarne denaro. I quali peccati ed altri molti di così fatto genere (1), che, o non s’erano potuti togliere affatto, o sono la conseguenza inevitabile della passione che abusa di ogni cosa per santa e riverenda che ella sia, venivano, già s’intende, esagerati dallo spirito di parte; ma erano anche tali da sedurre una mente non abbastanza robusta per non rilevar scandalo dai disordini ond’è testimonio: disordini, aggiungeremo, di cui ogni età ha la parte sua, per quantunque sia ordinata alla bontà ed alla giustizia. A questo spettacolo, capace di condurre all’avvilimento o al dispetto un’anima della tempra di quella del Borri, s’aggiungeva un pregiudizio onde van presi anche gli intelletti più’ generosi, e a cui voglionsi per la massima parte riferire, siccome le origini delle sette religiose antiche e moderne, così anche gli errori dei sistemi teosofici spacciati in questi ultimi tempi in Germania ed in Francia. Intendo il pregiudizio di reputare il cristianesimo una dottrina flessibile ad ogni immutare di cose politiche o civili, una specie di istituzione non già nata perfetta, ma perfettibile nel tempo, secondo che volgono migliori e più larghe le condizioni dello spirito umano. Dimentichi della parola infallibile che il regno di Dio non è di questo modo, comechè possibile nel cuore dei buoni, che il giudizio delle figure transitorie è stato abbandonato alla disputa degli indiscreti, ed essere necessario che avvengano scandali sulla terra, (conciosiacché la perfezione venga solo iniziata nel presente e compiuta nel futuro secolo), mettono a riscontro la realtà coll’idea, e trovatala così discorde da quel sublime suo tipo, così piena di ingiustizie, di dolori e di imperfezioni, domandano a sè stessi dove sia codesta concordia dei pensieri e delle azioni, codesta fratellanza del genere umano, codesto regno della virtù e della felicità promesso agli adoratori del Vangelo. L’impazienza trova una risposta nella propria forza e ciechi di superbia, pongono mano con parole, con iscritti o con altre ragioni a rifare l’opera di Dio.
Il Borri dalle pratiche di una devozione spinta fino all’ascetismo, pigliò comodità e conforto d’incarnare il suo disegno. La perizia e la riputazione a cui era salito nell’arte salutare davagli accesso a molte famiglie di Roma, eziandio delle più cospicue. Teneva contegno umile e tuttavia di un’umiltà significativa, di quella che non nasce da povertà di spirito, ma sembra essere segno di un atterramento volontario della coscienza, frutto di una convinzione profonda. Parlava dei trasordini, della tanta corruzione ond’era pieno il pubblico ed il privato costume, e diceva mescendo lagrime e sospiri, la religione correre grandissimo pericolo; imminente un castigo del cielo, se non si preveniva: le infermità della Chiesa essere sì gravi da non potersi altrimenti guarire che con rimedi fortissimi, risolutivi. Quando vide l’opinione dare tacito o esplicito consentimento, così alle sue parole, come alla santità della sua vita, spinse più alto il volo ai desiderii.
Domandata e ottenuta confidenza, lasciò intendere lui avere coraggio e forze bastevoli per opporsi al torrente devastatore; poi senza ambagi rivelò tutto quanto il suo pensiero, e chiarì sè medesimo destinato dalla volontà divina alla missione di riformare la Chiesa di Cristo. Se e quanto egli medesimo andasse vinto da codesta persuasione, credesse, cioè, di sé quello che voleva ne credessero gli altri, non è facile determinare. Correndo allora tempi di molta freddezza, se non di scherno riguardo le cose della fede, non poteva il Borri augurarsi un successo qualunque coll’aver solamente ricorso a quelle frodi e a quelli artifici onde vediamo a quando a quando, comechè per breve ora, andar ciurmata la pubblica opinione. Il perché giova credere che l’istessa mente di lui fosse venuta in un fervore o, diremmo esaltamento febbrile, fenomeno che suole accadere nelle persone di, acuta sensibilità, le quali mettono esagerazione molta in ogni maniera del viver loro, sia che ai trasordini del senso trapassino, ovvero agli esercizi della pietà. In alcuna opera del Borri si legge com’egli avesse fede nelle potenze occulte della natura, e tenesse possibile di coglierne il segreto ed anco la signoria solo uom sapesse bene interrogarla e, a così dire, sorprenderla nelle sue arcane elaborazioni (2). Subiva pertanto esso pure le conseguenze de’ suoi aberramenti razionali, e riferendo alle cose della coscienza quelle stesse induzioni che traeva dallo studio della natura, finì per credersi veramente ispirato da sovrumane rivelazioni. Diceva adunque essere omai i tempi maturi per un cambiamento universale nella Chiesa romana: prossimo il regno dell’Altissimo sulla terra, in cui, giusta la profezia di Cristo, non vi sarebbe che un solo ovile ed un solo pastore: sé destinato dall’Eterno a prepararne le vie, capitano delle milizie, le quali sterminerebbero col ferro e col fuoco tutti coloro che non fossero per entrare nell’ovile. La conquista dover accadere tra poco; essergli stai mandati dal cielo una spada, il nome e l’uficio di Procristo a distruzione de’ peccatori che non avesser in fronte il segno della salute, e medesimamente il Pontefice ove si mostrasse nimico alle sante predicazioni. Dovergli venire soccorritrici al fianco schiere di angeli, e San Michele capo delle celesti squadre. Ogni notte l’anima sua trasmigrare alle beatifiche visioni di Dio, e venire iniziata ai segreti della volontà superna. Ben dover accadere persecuzioni e spargimenti di sangue molti, e morti e rovine; però beati quelli che non ne avrebbero rilevato scandalo e timori, perciocché la nuova Chiesa ingrandirebbe fra le stragi e, consumata la grande conquista, avrebbe pace per mille anni. A queste ed ad altre così fatte cose, dette con quell’impeto espansivo che dona entusiasmo nella sicurezza de’ confidenziali colloqui, mandava poi compagni l’ordinamento di una setta regolare e l’istituzione di una dottrina religiosa, i quali fossero movente e aiuto di più vasti fini. Imperciocchè alle religiose andavano pur congiunte idee politiche e almeno l’intenzione di vendicare in libertà l’Italia componendola in una teocrazia della quale ei medesimo saria stato il capo colla duplice potestà di pontefice e di sovrano (3). Raccolti pertanto alcuni proseliti già vinti dal fascino così dall’eloquio come delle lusinghe a cui ergeva l’animo loro, oltre a ciò edificati dalla bontà de’ suoi costumi, li venne ordinando in una corporazione d’uomini devoti a ogni incontro, deliberati a porre la vita pel trionfo della nuova religione. Prima che iniziati, e lo erano per gradi, alle pratiche dell’assemblea, sacramentavano di serbare inviolabile il segreto di tutto che veduto avessero e udito; sul qual accidente era così il Borri geloso che scomunicò dalla congregazione un tale della cui fede era entrato in qualche dubbio, né però grave, ma solo così per congetture. Rimordendo all’espulso il dolore del non meritato anatema, supplicò di essere restituito al sodalizio e l’ottenne, con questo però che dovesse purgarsi dal sospetto con una terribile espiazione. A piè nudi, con una fune al collo si prostrò prima, indi giacque supino a terra dove fu conculcato dagli astanti e maledetto con ogni maniera di imprecazioni, se mai la penitenza sua non fosse sincera, ma pretesto a nuovi tradimenti: dopo di che fu rialzato dal suolo e baciato in fronte, simbolo così del perdono come della fratellanza a cui era stato restituito. Giuravano altresì amistà fraterna, indestruttibile, la quale fosse vincolo di loro perpetua unione e distintivo a cui sarebbero riconosciuti i discepoli della nuova alleanza. Giuravano anche povertà e comunione di beni, zelo ardentissimo per la predicazione del regno di Dio, obbedienza a Cristo solo, e di spendere la vita in servizio della fede pur ora abbracciata.
A cotesti obblighi che le coscienze loro avvincevano, rispondeva la conformità delle pratiche in cui erano ordinati gli adepti. Senza tuttavolta rinunziare alle consuetudini del secolo col quale eran legati per tante e così forti relazioni da non si poter rompere né a prima giunta né tutte (il tempo e i più larghi incrementi della società avrebbero condotto l’intera emancipazione), dovevano i fratelli ne’ loro convegni indossare, unico vestimento, un robone di pelle bianca semplice e liscio, aggiuntovi un cappuccio nell’inverno, tenersi i capelli a mezzo il cranio rasi per modo che fingessero una croce, recarsi al collo un cerchio di ferro con incise le parole: Pecora schiava dell’Angelo Pastore. Quindi usare comune abitacolo, comuni suppellettili, d’argilla o di legno, così ne’ riti sacri come ne’ bisogni domestici; star paghi ad un cibo men che frugale; in ogni consuetudine della vita seguitare una ragione virtuosa, la povertà, la comunione delle cose, la eguaglianza, l’amor della fatica, la santità de’ costumi, l’universale benevolenza. Soprattutto richiedeva dagli animi loro un coraggio, una fermezza, una costanza a tutta prova, tali da durare imperterriti ad ogni spasimo del corpo, eziandio alla morte, se così richiesto avessero le contingenze dei tempi e gli incrementi della religione. A quest’effetto pingeva ad essi coi più terribili colori gli odii e le persecuzioni, le vendette onde sarebbero stati segno da parte degli uomini; e perché la parola rilevasse maggior efficacia dal fatto, conducevali a vedere le torture e le morti di cui allora dava frequentissimo spettacolo la giustizia criminale; poi, quando sazia di brividi e di orrore si fosse dileguata la moltitudine, calavano circospetti d’intorno il patibolo, e qui intingevano le mani nel sangue delle vittime, baciavano le scale, le funi, le tenaglie, le ruote, le mannaie, ogni stromento di dolore in che avessero potuto incontrarsi.
Nelle cose del domma non immutava, né tutto, né così radicalmente da proporre una rivelazione affatto nuova. Perciocché permettendo alla discrezione de’ suoi discepoli ogni altro principio di fede in che si risolve la religione cristiana, insegnava solamente che la Beatissima era anch’essa Dea; poiché il Verbo Eterno essendo Dio, era necessario ch’avesse avuto una madre la quale fosse Dea: che perciò la Vergine non era stata concepita con seme umano, ma per opera divina, avendo lo Spirito Santo preso carne nel ventre di sant’Anna madre di lei, che l’ebbe data in luce senza detrimento, né prima né dopo il parto, alle ragioni della verginità. La notizia di tale incarnazione averla rivelata san Paolo che la trovò nel terzo cielo a cui era stato rapito. Perciocché in tre, e non più, doversi dividere i cieli, e nel primo aver sua sede il Padre, nel secondo, il Figlio, nel terzo lo Spirito Santo autore delle due incarnazioni di Cristo e di Maria. Del resto la Chiesa stessa ripetere ogni giorno la propria condanna nella salutazione angelica dove chiama la Vergine piena di grazia: il qual motto latino doversi intendere altrimenti che se dicesse Spiritu Sanctu plena. Epperò chiamava la madre di Dio sagratissima Dea ed unigenita figlia dell’Altissimo; e nel canone della messa, espulsa ogni altra qualificazione, surrogò quella di uninspirata, e sotto questo nome voleva fosse da’ suoi aderenti invocata. Della sacra cantica, in cui si contengono le allegorie meglio esplicite sulla Vergine, insegnava parimenti ch’ell’era dettata dallo Spirito Santo. A dar ragione di questa dottrina faceva estrarre vari versetti da sacro libro e, datone uno a ciascuno sur una scheda, li veniva proponendo alla meditazione peculiare de’ congregati. Se la meditazione, ridotta a scrittura, corrispondeva al senso attribuito dagli interpreti al versetto, avevala per cosa ispirata dall’Angelo Custode e prova della divinità del libro: nel caso contrario respingeva l’interpretazione siccome opera umana, o sì veramente cercava di ridurla a senso il quale fosse col tema più concordante. Insegnava ancora trovarsi nell’Eucaristia non solo il corpo di Cristo, ma quello altresì della Vergine. La particella che il sacerdote stacca dall’ostia e immerge nel calice voler significare l’unione dei due corpi, il sangue di Cristo e la carne di Maria. Oltre l’inferno, il Purgatorio e il Limbo statuiti a ricevere le anime de’ morti giusta la condizione morale in cui passarono sulla terra, avervi una quarta sede, in cui trovano posto le anime degli infedeli e di tutti coloro che vissero fuori dal grembo della vera Chiesa. Dove si vede che, per rispetto del dogma del Limbo e dell’altro più sopra discorso della eccellenza della Vergine, il Borri, allargandola a più vasto senso, proponeva per assoluta l’opinione, del resto privata, di qualche dottore: argomento di aspre battaglie combattute fra alcuni ordini religiosi e delle quali pur allora viva e recente durava la memoria. Stimava che l’Ecclesiastico fosse da espungere dai libri canonici per questo che era opera dettata da Salomone in un tempo nel quale, schiavo di peccaminosi disordini, egli non poteva essere stato assistito dallo spirito di Dio; andar quindi pieno di errori e bisognoso di più corretta lezione: ufficio al quale sariasi egli stesso, il Borri, sobbarcato sì tosto che la nuova Chiesa troverebbe pace. Insegnava ancora non darsi trasmissione dello Spirito Santo senza l’imposizione della mani. Con quest’atto poter egli comunicare il dono della profezia, l’intelligenza dei sacri misteri e la facoltà di salvare anime anco non battezzate. Per le grazie ond’era stato insignito dall’alto conoscere egli non che il presente, il passato e il futuro, ma eziandio il mondo immateriale, il mondo degli enti incorporei, e più fiate aver avuto visioni di persone morte, dalle quali eragli conto il luogo di loro eterna destinazione. Del qual dono maraviglioso facendo applicazioni sensibili a’ suoi discepoli, si provava di rivelare gli accidenti che si passavano nel conclave de’ cardinali raccolti per la elezione del nuovo pontefice: come e dove meglio inclinassero i voti degli elettori; quale fosse il risultamento degli squitinii giornalieri, e quali le brighe de’ principi per favorire od escludere questo o quel candidato. E bisogna credere che alcuna volta le sue divinazioni cogliessero nel segno se a tali elementi non veniva mai meno la fede de’ suoi discepoli; i quali del resto concedevano al maestro non che questa delle profezie, ma la facoltà altresì di comporre al pietra filosofale. Di ciò aveva loro dato promessa il Borri come di altro segno al quale avrebbero conosciuto la verità di sua missione. Imperciocché a lui solo saria riserbato quello che era stato ed era da tanti secoli il sospiro più caro degli uomini, il segreto meraviglioso di trasmutare in oro qualunque metallo. Del qual oro avrebbero indi usato, non a vana ostentazione di grandezza, ma sì a tutela della repubblica e a sollievo de’ poverelli.
Queste sue dottrine con altre molte, di cui fora troppo lungo il tener discorso, dettava egli nelle congregazioni, e volendo che fossero norma di fede e fonte di autorità per ogni contingenza futura, comandava la distruzione di tutti i libri, così sacri come profani, i quali potessero contenere insegnamenti contrari. Dal che agevolmente si congettura com’egli aspirasse ad un intento a cui di solito non arrivano i desiderii dei capi-setta, l’intento, cioè, di rendere unica ed universale la sua dottrina. Poneva poi la nuova religione sotto il patrocinio della augusta Triade; dato agli adepti per segno di riconoscimento scambievole il bacio in fronte, per motto di riunione l’Umanità di Cristo, la Beatissima, con più altri nomi della celeste gerarchia.
Ma e le notturne conventicole, comeché segretissime, e le pratiche del proselitismo, comeché condotte con quella maggior cautela ch’era desiderata dal pericolo, non poterono passare tanto inosservate che l’autorità ecclesiastica non ne avesse qualche sentore. Cessato l’interregno e venuto alla sede pontificia Alessandro VII, uomo di coscienza alquanto rigorosa, eziandio quel fatto delle assemblee notturne fu meglio considerato dal Santo Offizio, e il Borri a fuggir persecuzione sfrattò celatamente da Roma e si ricondusse in patria. L’inquisizione intanto compilò dell’avvenuto un’istruttoria qualunque; ma, o le fallissero indizii opportuni, o l’informazione fosse condotta rimessamente, la cosa restò senza seguito e in manco d’ora cadde in una totale dimenticanza.
A Milano il Borri, come si vide inosservato e sicuro della persona, diede opera a rannodare i fili della sua congiura, e aiutato da molte maniere di mezzi poté raggranellare un buon numero di seguaci devoti alle medesime dottrine. Da qui estese poi le sue pratiche anche al di fuori, e fondò una loggia di credenti a Pavia, città in cui alternava con Milano le sue dimore. Ma dove più, prosperando le sue fatiche, gli venivano eziandio speranze di miglior fortuna era Milano, vasto e popoloso adunamento d’uomini in cui l’attrito di tante azioni e di tanti interessi e il malcontento che più facile ferve seducendo gli animi degli ambiziosi e degli infelici gli porgevano opportunità, non solo di guadagnare maggior numero di proseliti, ma anche di sottrarsi al sindacato delle magistrature così ecclesiastiche come civili. Infatti continuò alacremente i suoi notturni conciliaboli, a cui ogni dì aggregava qualche neofito, e dove veniva dettando alcun nuovo commento a d’amplificazione della sua dottrina religiosa. Licenziata l’assemblea, gli atti che v’erano stati scritti ei li ritirava presso di sé per farne deposito in un monastero di femmine dove teneva sicuro e segretissimo indirizzo.
Di tal guisa, tra per la natura de’ voti a cui erano obbligati i fratelli, e per la cautela del non lasciare documento alcuno di facile scoperta, sperava di aver provveduto abbastanza alla propria sicurezza e alla fortuna della setta. Così non vediamo ch’ei si turbasse molto alla notizia che l’Inquisizione aveva fatto sostenere nelle carceri dell’Arcivescovo uno de’ suoi (1659); perciocché è da sapere ancora come egli insegnasse potersi in caso di persecuzione accomodare alle necessità de’ tempi ed anco fare abbiure, purché restrittive, mentir cioè col labbro e salvare integre le ragioni della coscienza. Bene è da fare le maraviglie perché l’autorità ecclesiastica così di Pavia come di Milano, le quali di buon’ora erano venute in sentore delle eresie, adoperassero tanto rimessamente nel conoscere di un fatto così grave, permettendo che i rei usassero di un lungo intervallo di tempo a mettersi in salvo. Fu un momento che il Borri pensò ad un partito arrischiatissimo qual era quello di venire sulla piazza del Duomo… e là, aiutato da’ suoi, muovere il popolo a novità gridando contro Spagna, e correre indi all’arcivescovado per liberare il confratello di prigione; ma o gli fallisse il coraggio per un tentativo così ardito, o s’acquietasse nella speranza che la persecuzione contro il carcerato non avrebbe seguito, non ne fu nulla di quel pensiero, ed egli continuò, sicuro di sua persona, a vivere in Milano. L’inquisizione però procedeva nelle sue indagini, e alquanti giorni dopo citò il Borri a comparire innanzi al proprio tribunale nello spazio di nove giorni sotto le comminatorie più severe. Come il reo si era in questo mentre posto in salvo, quella compulsazione fu rinnovata e in forma anche più grave (2 ottobre 1660). Non comparso, fu condannato in contumacia. La sentenza portava, fosse e s’intendesse il Borri tolto alla Comunione cattolica, i suoi beni cadessero al fisco, abbruciati gli scritti per mano del boia, data intimazione ai principi ed ai vescovi che ne procurassero l’arresto, e che niuno sotto pena di scomunica da incorrere issofatto, ardisse aver relazione con lui. Appresso, essendo stati mandati a Roma gli atti risguardanti il processo e la condanna, rinverdita quivi la memoria del Borri e de’ suoi reati, fu da parte del santo Offizio restaurata la questione criminale contro il Borri, e medesimamente venne condannato in contumacia. A’ 3 di gennaio del 1661 il ritratto del Borri, portato prima per le vie di Roma dal carnefice, fu dalle costui mani arso sulla piazza di Campofiore unitamente agli scritti che di lui si eran potuti raccorre.
Trafugatosi da Milano passò il Borri primamente nella Svizzera, facendo capo per ospitalità ai membri più accreditati delle comunità protestanti. Faceva intendere, ed era anche il vero, lui esser segno alle persecuzioni de’ cattolici, vittima scampata alla vendetta del santo Offizio. Ben aver tentato anch’esso di vibrare un colpo alle superstizioni papistiche e cercato di abbattere il profano altare di Baal; ma l’idolatria essere stata più forte, ed egli dover ramingare povero, proscritto dalla patria, lontano per sempre da ogni cosa più caramente diletta, se gli giovi serbare incolume il capo, vuoi dalle fiamme, vuoi dal ferro de’ manigoldi. Questa sola alternativa, la morte o l’esilio, essere oggi rimasta in Italia agli uomini di retto sentire nelle cose della patria e della religione; perciocché la potestà de’ principi e quella del clero darsi mutuamente la mano congiurate a spegnere qualsivoglia altezza d’ingegno, ogni santo desiderio di meglio: questa dello spirito, quella tiranna de’ corpi: ambedue fatali alla causa della verità e della giustizia. La sincerità delle querele, la miseria dell’esule, e innanzitutto la somiglianza delle opinioni, trionfanti in loro, in lui perseguitate, maraviglisamente accendevano gli animi de’ protestanti a farsene protettori. Gli profferivano pertanto asilo sicuro e comodità di attendere ai prediletti studi, se volesse nell’Elvezia fermare sua stanza e seco loro dividere l’apostolato di convertire le genti alla vera Chiesa di Cristo. Ma l’indole inquieta del Borri lo portava ad altre venture, ad altri successi che per avventura non erano quelli di un ministro luterano. Adunque, accomiatatosi da loro, emigrò dalla Svizzera a Strasburgo, e via pel Reno giunse in Amsterdam dove fece sosta alle sue peregrinazioni, data voce di volervi esercitare alchimia e medicina, facoltà nelle quali era, siccome più sopra notammo, riuscito eccellentissimo.
Qui la fama venne seconda a’ suoi desiderii, e in manco d’ora gli piovvero clientele e compensi tali da disgradare qualsivoglia latra più ricca fortuna. A lui come ad oracolo di sapienza nell’arte medica facevano capo tutti i bisognosi di soccorso; tesori gli profondevano cavalieri e principi, ringraziamenti i poverelli a cui egli curava ogni maniera di infermità per amor di Dio. Lasciava intendere aver segreti per qualunque sorta di morbi, eziandio se ribelli alle dottrine più riputate; e o fosse combinazione di accidenti felici, o reale perizia, le cure tornavano prospere tutte quante: le ottenute guarigioni erano testimoni patenti del suo valore nell’arte salutare. Di che venirgli consolazioni d’ogni sorta: il senato lo presentò alla cittadinanza: ed egli poté metter casa da principe, e in tutte le dimostrazioni esterne della vita seguitarne le consuetudini del più ricco signore olandese: ciò erano servidorame, carrozze, cavalli, mense e sollazzi. Ma come la fortuna, capricciosa essendo, si piace di metter in fondo quel che dianzi aveva collocato in cima alla sua ruota, così in manco d’ora quelle sì splendide larghezze cessero in più modesta condizione: appresso scemarono anche affatto. Del che se ne vogliono ripetere le cagioni, prima della natura stessa di coteste cose le quali hanno alimento dalla novità e dalla moda seduttrici degli animi volgari, e durano solo quanto dura il prestigio, cioè un brevissimo tempo; quindi dalla guerra che si provarono di muovere a quella celebrità favolosa i medici, i venditori di farmachi, i dotti a cui mal sapeva di venir cotanto soverchiati nella riputazione e nella fortuna da uno straniero. Poi la condizione medesima del paese, dove, regnando quell’amore che pur oggi è massimo nelle industrie e nei traffici, le opere umane si misurano tutte dall’utile, ed hanno valore solo in quanto si possano tradurre in corrispettivi pecuniari, doveva presto ricondurre le menti alla realtà scemando al concorrenza ad un mercato in cui per denaro davansi amuleti e fantasie. Fatto sta che il Borri si trovò presto al verde, e dovette aver ricorso al credito e pigliar a prestanza per sopperire alle spese della disastrata economia. A questo modo si trovò eziandio aggravato da enormi debiti senza poterne pagare l’usura nonché il valsente: condizione che senza più mena dritta alla disfatta e alla rovina. Infatti un bel giorno svignò queto queto da Amsterdam, lasciando stordito uno sciame di creditori, barattieri, usurai, curiosi, ammiratori e maligni. Narra la storia che il fallimento non fosse privo di dolo, conciossiaché dan colpa al Borri d’aver sottratto all’abbandono del suo patrimonio meglio che dodicimila doppie d’oro. Di che darsi briga i gabbati, e affaccendarsi notai e giudici per mettergli addosso le mani, e mandarne in volta il ritratto perché i magistrati della provincia, richiesti di ciò, potessero più facilmente conseguire l’arresto del colpevole. Ma egli dalle rive dell’Amstel toccò felicemente ad Amburgo dove a’ quei giorni stanziava la regina Cristina di Svezia, donna assai cercatrice e tenera di avventure bizzarre; la quale profferse al fuggitivo amicizia e protezione. Poco se ne valse il Borri, e passò a Copenaghen bene accolto, anzi festeggiato da quel re, che ponendo fede nella pietra filosofale aveva anche sprecato enormi somme per trovarla egli o farla trovare da altri. Gli entrò dunque nelle grazie, e ne ottenne somme rilevanti a che pur egli, il Borri, ponesse opera alla ricerca del maraviglioso composto. Fu allora che il nostro avventuriere scrisse la Chiave del Gabinetto, già per noi citata, nella quale in gergo più o meno aperto alla comprensibilità comune insegna di molti e curiosi procedimenti per cogliere i segreti della natura, non escluso pur questo della pietra filosofale, e produrre di molti e vari fenomeni, quali a dilettazione degli occhi, quali ancora a fini più importanti. Però leggiamo come il Borri non si stesse contento alla riputazione di alchimista e di filosofo speculativo, ma aspirando a più larga meta tentasse di penetrare nella gelosa ragion di Stato. Di fatti il libro che in quella occasione scrisse e dedicò al mecenate suo, il Re di Danimarca (4), se non fa mostra di quella sapienza profonda e sicura che in Machiavelli e negli altri pubblicisti di primo ordine riduce a canoni fissi gli accidenti della politica, rivela però nell’autor nostro un ingegno sagace, addottrinato, investigatore paziente delle cause che nel governo dei popoli producono effetti utili o dannosi alla pubblica prosperità. Imperciocché facendo puntello alle sue considerazioni con esempi giudiziosamente raccolti dalla storia, si prova ad insegnare: «Che il principe per regnar bene deve dissimulare secondo il bisogno; aver un libro segreto nel quale egli stesso registri tutto che di più importante accade nel suo regno, uomini, opinioni e cose ad acquistare esperienza di ogni caso più difficile; essere osservatore zelante della sua parola: che è bene alcuna volta differire i castighi, e dar tempo a quelli che errano di pentirsi: che ove la moltitudine commetta un fallo, egli è bene farglielo toccar con mano affinché possa conoscere d’aver errato: che nel saper distinguere gli uomini consiste la vera sapienza del principe: che non bisogna permettere che un principe divenga tanto potente da poter opprimere gli altri: che chi assale uno più forte di sé procura la propria rovina: che un principe non deve lasciar cedere la giustizia al favore, ned i meriti ricompensare con i demeriti: che la nobiltà antica degli Stati deve essere conservata e favorita dal principe per gloria ed onore proprio: che il mormorare del popolo non deve tanto accorare il principe ch’ei si rimanga dal seguitare alcun retto proponimento: poter egli possedere molti mezzi per aumentare le entrate; far più coll’esempio verso i soggetti che con le pene; dover egli conservare la dignità reale in qualsiasi fortuna; e squittinare esattamente le proposizioni che gli vengon fatte; in ogni cosa comodarsi al tempo: che il principe, il quale vuole opporsi a’ secoli corrotti ed aver la gloria di esser grande, deve impiegare una stessa costanza, e sovra tutto essere sempre uguale in tutte le sue azioni: che il principe che può procedere colle leggi, non deve mai usar la forza; né apparentarsi male ed indegnamente per non dispiacere a’ soggetti, né far tutto a suo capriccio; che il nome solo di principe negli affari del mondo importa molto: tutto negli esordi, e innanzi acquisti il principe reputazione, qualità da cui gli verranno obbedienti le cose in avvenire, o certo meno resistenti gli ostacoli». Davvero che gli incrementi a cui de’ nostri giorni si è venuta educando l’arte di governare gli uomini ne dispensano dall’apprezzare gran fatto codesti principi, de’ quali alcuni non si levano dalla mediocrità, altri ancora stanno più presto nei confini del triviale che del mediocre; tuttavolta non sia chi sorrida di compassione, ricordando come in quell’età erano ancor molte le offese cui la ragion di stato recava al senso comune ed alla giustizia. Epperò quei favori onde il Borri si vedeva segno da parte del principe mossero, come pur di solito avviene, in invidia de’ grandi; conciossiachè, a tacere della sua condizione di straniero, anzi avventuriero ei non avesse qualità altre da quelle che procedono da virtù personale. Non andò molto adunque che la congiura cortigianesca riuscì al fine desiderato, ciò era di rendere il Borri mal accetto se non odioso al principe. Per tal guisa dovè egli un’altra volta emigrare da luogo a luogo, incerto del suo fato, in pericolo della vita, sia che toccasse ai confini de’ protestanti, sia che si rifuggisse in paesi obbedienti alla religione romana. Aggiungi l’ansia tormentatrice che nasce dal non poter compiere quel destino di cui si ha l’interna consapevolezza, ansia la quale divora gli uomini di alto sentire, gettati sur una via che non è la propria, non la prestabilita allo sviluppo delle facoltà che hanno sortito da natura. Fra queste persecuzioni, parte morali, parte che gli erano mosse dagli accidenti esterni, il nostro Borri emigrò a Costantinopoli e di là, tratto forse dall’amore di rivedere quando che fosse il suol natìo, per la Moldavia, la Servia e la Transilvania, si condusse ai confini dell’Ungheria. Ardeva allora ferocissima una guerra fra’ Turcheschi e Imperiali pel possesso di quel paese. Le armi forestiere venivano in aiuto delle armi civili; conciossiachè alcuni de’ principi ungheresi si fossero tolta la grave responsabilità di chiamare i barbari dell’oriente in un regno cristiano. Ho detto grave responsabilità, mentre la storia non potrà non commuovere ad altissima indegnazione i lettori narrando come non istesse per costoro che l’Europa un’altra volta corresse pericolo di diventare musulmana. Gl’ultimi sforzi della possanza di Maometto sulla cristianità erano aiutati da codesti ambiziosi che posponevano gli incrementi della civiltà comune a non so qual ubbia di independenza in un paese destinato ad essere l’autumerale della barbarie e, per la natura de’ tempi, bisognoso di reggimento unico e forte. Ben provvidero alle necessità dell’Europa cristiana le esortazioni dei pontefici e il valore de’ Veneti e delle genti polonesi e tedesche, ricacciando quella fierissima peste oltre i mal usurpati confini della Drava, dell’Isonzo e del Ionio: gloria altissima del secolo XVII, e a cui per essere immortale non sarian mancate che una perseveranza maggiore e una maggiore unità di sforzi. Rimosso il pericolo, le potenze cristiane voltarono nuovamente le armi a guerreggiarsi fra loro, e il Turco, tornando alla riscossa, si fu presto rifatto dei danni riportati: la Morea, la Candia, Negroponte e le altre isole dell’arcipelago greco, indarno conquistate dal sangue e dalla bravura dei Veneti, cessero un’altra volta nel dominio della Mezza Luna. All’epoca, onde muovono le nostre osservazioni, i conti Sdrino, Nadasti e Frangipane, famiglie principalissime d’Ungheria, odiatori dei Tedeschi, avevano macchinato di sollevare la maggior parte del regno, sì tosto che il primo bascià turco avesse mosso le armi contro la potenza austriaca. Ma svelato il segreto da qualche complice, la mano regia si aggravò contro i delinquenti. Sdrino, Nadasti, Frangipane, Techeli padre, pagarono col sangue il fio dell’aver anteposto una pericolosa congiura ad una quiete, che era però senza disonore.
Il Borri giunse a Goldinghen, villaggio d’Ungheria, giusto appunto in quel torno di tempo che, sentendosi scoperta la congiura e dato mano alle carcerazioni, ogni cosa era piena di sospetto e di timori. La qualità sua di forestiero, senza alcun plausibile indirizzo, in quelle circostanze di luogo e di tempo, non andava all’intutto scevera da sospetto: perché il conte di Goldinghen, il quale teneva per l’imperatore, gli fece porre tostamente addosso le mani, e qual presunto complice della macchinazione lo mandò a Vienna. L’incertezza, l’ansia, la bramosia, anzi l’avidità in che si era alla corte rispetto alle cose d’Ungheria, tolsero alle lettere del conte il carattere d’ogni riserbo e il nome del Borri così come la qualità del suo delitto vennero aperti anche alla cognizione dell’inviato di Roma. Il quale, udito quel nome, e postasi a mente la storia dei traviamenti del Borri, di che tuttavia erano freschi i registri della Inquisizione romana, disse all’Imperatore, farebbe cosa gratissima al Pontefice se un eretico, un reo di quella posta, a lui sotto buona custodia mandasse.
Il Borri fu messo nelle mani del nunzio, con malleveria però non sarebbe stato per qual si fosse pretesto condannato a morte. Giunto che fu a Roma, il santo Offizio si affrettò di riassumere le questioni antiche a pregiudizio del Borri e, ridotta la cosa alle confessioni del reo, dannollo al rogo con surrogato della pubblica abbjura e del carcere a vita. La solennità della ritrattazione fu intimata per l’ultima domenica di ottobre dell’anno 1672 nella chiesa della Minerva in Roma. L’Inquisizione aveva provveduto a che la ritrattazione fosse quanto più si potesse clamorosa e imponente, siccome ad espiazione della colpa, così a maggior edificazione delle coscienze che avesser rilevato scandalo dall’empietà del Borrio. Cinque ore durò al cerimonia la quale convennero gente d’ogni sesso, età e condizione, principi, baroni, ambasciatori, cardinali, vescovi preti, frati, popolo volgo. Il reo, vestito degli abiti dell’Inquisizione, ciò era una tunica di tela nera senza collare scendente fino al calcagno, sul petto e sul dorso dipinta da due enormi croci rosse, avvinto da catene le mani e i piedi, ginocchioni sur un palco da patibolo, con un cereo nella destra, si confessò primamente de’ suoi peccati; appresso ritrattò ogni parola, opinione e fatto onde avesse recato oltraggio alla integrità della fede; quindi recitato il Simbolo apostolico, giurò di credere e di morire nella comunione cattolica, in cui supplicava di essere riammesso quantunque indegnissimo peccatore. Visibile era la commozione degli astanti, spettatori di un apparecchio così tremendo, di un’umiliazione così dolorosa alla coscienza: maggiore quella del paziente che due volte allibì e misvenne, e due volte fu rialzato in ginocchio dai famigliari dell’Inquisizione. Presiedevano al truce rito e pigliavano atto dell’abbjura i due inquisitori Casamatta e Pozzobonelli; quest’ultimo concittadino del reo, che aveva conosciuto personalmente il Borri e adesso ne piangeva la disavventura. Dalla chiesa della Minerva fu restituito nelle carceri dell’Inquisizione, e poco dopo condotto a nostra Donna di Loreto perché attendesse a mortificare il senso della carne e a ristorare quello della fede con frequenti esercizi spirituali. Indossava tuttavia, e nol dismise che colla vita, l’abito del santo Offzio a documento di perenne umiliazione, e recitava alla presenza di più astanti ogni giorno il Credo, ogni settimana quelli dei salmi di Davide che la Chiesa appella penitenziali. Cotal genere di vita, fatto ancor più grave da molte altre maniere di mortificazioni, di austerità e di patimenti, osservò poi anche nella sua prigione di Castel sant’Angelo a cui vene ricondotto. Quivi, ricordevole delle umane miserie, ond’era egli stesso tanta parte continuò a giovare della sua perizia nell’arte medica molti che potevano aver indirizzo infino a lui; ed è fama che per simil guisa riavesse la salute il duca d’Etrée ambasciatore del re di Francia presso la corte di Roma, consigliatosi indarno coi più savi medici d’Italia e d’Oltremonti. Di che poi venne all’infelice qualche rallentamento nei vincoli della sua cattività, e principalmente quest’uno e grandissimo di poter uscire a quando a quando per le vie della città a confortare gli occhi e le membra di quel bellissimo sole d’Italia. Certo, scrive un contemporaneo d’aver veduto il Borri passeggiare le strade di Roma, sorretto dalle guardie del santo Offizio. Rifinito adunque dalle mortificazioni, così del corpo come dell’anima e stanco di patire, espiato e non perdonato innanzi a quella di Dio, chiuse i suoi giorni in Castel sant’Angelo nel 1693 in età di 79 anni.


POSTILLA BIBLIOGRAFICA AL PRECEDENTE ARTICOLO.
Di Gottardo Calvi


Il cavalier Giuseppe Francesco Borri, nato nel 1616 secondo, alcuni, o il 4 di maggio 1627 secondo altri (V. Biographie Universelle), da una famiglia che egli pretendeva discendente da Afranio Burro, governatore di Nerone, fu chiamato dal compianto e benemerito barone Custodi nella sua Continuazione alla Storia del Verri (p. 201), «un milanese d’altissimo ingegno e meritevole di compassione più pe’ suoi deliri che per le sue tristi vicende». E pare ch’egli abbia veramente goduta molta fama e considerazione fra’ suoi contemporanei; tuttoché oggidì il nome di lui sia quasi affatto caduto in dimenticanza. Settario, avventuriero, eretico, visionario, impostore, alchimista, medico – egli fu il Cagliostro (5) del secolo XVII. La sua storia è tema accomodato ed acconcio per dipingere i tempi nei quali visse; e a questi sono in gran parte da imputarsi le colpe cui egli si abbandonò, le aberrazioni che traviarono la di lui mente, cupidissima di sapere ed avida investigatrice degli arcani della natura. Il Brusoni nella sua Historia d’Italia dall’anno 1625 al 1679 (6) espone assai diffusamente le strane dottrine religiose del Borri, adducendo come motivo della sua prolissità che per lo corso di molti anni si è parlato e scritto di lui in tutte le corti d’Europa, laonde opina l’autore che sia di convenienza all’Historia e d’utilità a i Leggenti il toccar brevemente le qualità di costui e le Eresie inventate dal suo capriccio, o dalla sua ambizione, perché veramente di nessun altro Eresiarca si leggono tante e così stravaganti follie nelle materie della Fede.
E non solo parlarono del Borri quasi tutti gli italiani scrittori che trattarono di cose storiche e letterarie del secolo XVI; ma molti anche degli stranieri: nei più riputati giornali di quell’epoca si trovano articoli sulle sue opere: in tutte le raccolte enciclopediche o dizionari di biografie e di storia sono mentovate le vicende e le dottrine del Borri. Fino dall’anno 1683, Le journal des sçavans, che allora già pubblicavasi da più cospicui scienziati di Parigi e che continuando tuttavia può vantare in vero una singolare longevità, nell’annunciare la di lui opera: La chiave del Gabinetto (7) (Lundy, 19 aoust 1683) edita a Colonia colla biografia dell’autore scritta da un anonimo poco amico del cavalier Borri soggiunge, che la di lui vita, comme tout le monde sçait, à eté melée de tant de bons et de funestes évenenmens. Anche alcuni anni avanti, nel 1689, vale a dire tre anni prima di quella solenne ritrattazione fatta da Borri a Roma (non sappiamo se per convinzione del cuore e per pentimento, ovvero per una nuova impostura da cui avrebbe però ricavato ben misero frutto) il giornale stesso (Lundy 9 septembre 1689) ragionava con lode del Borri a proposito di due lettere scritte a m. Bartholin intorno a diverse questioni di fisica e di medicina (Francisci Josephi Burrhi Epistolaee duae ad Thomam Bartholinum, Hafnioe, in 4°). Nella prima delle quali lettere l’autore parla della formazione, della struttura e della sostanza del cervello, e del sottilissimo liquore che ivi si produce, e nel quale, secondo lui, risiede l’anima ragionevole. Il modo con cui egli spiega la respirazione (così il succitato giornale) merita particolarmente d’essere osservato. – E poco dopo: La seconda lettera tratta della maniera di guarire parecchie malattie degli occhi, e particolarmente di alcune mirabili cure fatte dal signor Borri. Indi prosegue coll’esposizione delle sue dottrine medico-oculistiche; le quali tuttoché oggi abbiano per avventura a sembrare vecchie e di lieve momento, pure a que’ dì erano tenute in gran conto ed avevano procacciato al Borri, quando trovavasi ad Amsterdam, il titolo di Medico Universale. – Oltre le opere già mentovate, la Biographie Universelle, ancienne et moderne T. V, (Paris, Michaud, 1812) attribuisce al Borri anche le due seguenti scritture:
1° – Gentis Burrorum notitia, opera anonima, Strasburgo 1660,. In 4° (v. anche l’Argelati);
2° – De vini generatione in acetum, decisio experimentalis.
E poiché si è cominciata questa postilla, che ci siamo permessi di aggiungere quasi a comento del dotto e brillante lavoro del signor De Magri, col paragonare il milanese Borri al siciliano avventuriero Giuseppe Balsamo, che si rese famoso nello scorso secolo sotto il nome di conte di Cagliostro, così la chiuderemo col giusto parallelo che ne fa la succitata biografia.
«Cagliostro ebbe molti rapporti col suo antecessore Borri. Ambidue italiani, ambidue chimici, ambidue entusiasti, percorsero l’Europa, abbagliando tutti con un fasto poco comune, coll’irresistibile prestigio d’impetuosa eloquenza. È fatto da notarsi che entrambi ebbero nella città di Strasburgo gli onori di una specie di trionfo; finalmente la loro caduta fu la stessa»; e noi aggiungeremo: morirono entrambi nelle carceri di Castel Sant’Angelo, il Borri nel 1695 e Cagliostro nel 1795.
Imprigionato il Borri, i di lui seguaci, ai quali egli dava i nomi di Ragionevoli, e di Evangelici, «dopo lunghi esami (dice il contemporaneo Brusoni già citato), convinti di complicità nelle sue heresie, furono pubblicamente abiurati in Milano, e rimessi a tempi determinati e ad arbitrio nelle carceri dell’Inquisizione, con altre penitenze ancora e con obbligazione di portare per contrassegno de’ loro falli una mantelletta gialla sopra le spalle».


NOTE

(1) L’ambasciata di Romolo a’ Romani, nella quale vi sono annessi tutti i Trattati, Negotiati, satire, Pasquinate, Relazioni, Apologie, Canzone, Sonetti, Ritratti et altre scritture sopra gli interessi di Roma durante la sede vacante, cominciando dal giorno della morte di Clemente nono fino al giorno della creatione di Clemente decimo, Bruselles 1671.
(2) La Chiave del Gabinetto del Cavagliere Gioseppe Francesco Borri milanese: Colonia 1681 – Secondo il Bayle quest’opera fu stampata a Genova colla data apocrifa di Colonia.
(3) Breve relatione della vita del Cavagliere Gioseppe Francesco Borri milanese, stampata a Genova colla data di Colonia 1681. – Vita, processo et sentenza di Francesco Borri milanese, Bruselles 1671 – Amenitates Litterariae, tomus V, Francofurti et Lipsiae 1726, pag. 141. Analecta ad Historiam Francisci Josephi Burrhi – Vedi inoltre Bayle, Dictionnaire historique, Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium; Tiraboschi, Storia della letteratura italiana; Mazzucchelli, Scrittori d’Italia; Brusoni, Storia d’Italia.
(4) Istruzioni politiche del Cavagliere Gioseppe Francesco Borri milanese date al re di Danimarca. Colonia, e secondo il Bayle Genova, 1681.
(5) Custodi: opera citata
(6) Torino, Zappata 1680.
(7) Ecco il titolo intero di quest’opera pubblicata durante la cattività dell’autore, e pare, senza il suo consenso: La Chiave del Gabinetto del cavagliere G. F. Borri, col favor della quale si vedono varie lettere scientifiche, chimiche e curiosissime, con varie istruzioni politiche, ed altre cose degne di curiosità e molti segreti bellissimi. Cologne, Marteau 1681, petit en 12°. Quest’opera però si ritiene generalmente che fosse stampata a Genova; è seguita dalle Istruzioni politiche al re di Danimarca già pubblicate prima separatamente. Alcuni bibliografi pretendono che la sunnotata edizione della Chiave sia al seconda; ma nessuno conosce ed ha veduto la prima. Il Brunet (Manuel du libraire et de l’Amateur de livres) sembra credere apocrifo il libro stesso, poiché lo chiama: una raccolta di dieci lettere che si suppone essere state scritte da Borri. Le prime due di queste lettere trattano degli spiriti elementari, e l’abbate de Villars ne diede un sunto nel suo Comte de Gabalis.