Pagina on-line dal 27/04/2012

Charles Homer Haskins, fonte Wikimedia commons

 

Charles Homer Haskins (Meadville, Pennsylvania, 1870 – Cambridge, Massachussets, 1937) viene considerato uno dei fondatori della storiografia medievale americana. Insegnò storia dapprima alla John Hopkins University, nel Wisconsin, fino al 1902, e, successivamente, a partire dal 1912 e dopo un pluriennale soggiorno di studio in Francia, ad Harward. Alcuni dei suoi lavori sono considerati dei capisaldi della storiografia medevale. Tra essi ricordiamo: The Normans in European History (1915), Norman Institutions (1918), Studies in medieval culture (1929). Particolare attenzione egli dedicò alla storia culturale del dodicesimo secolo, con due importanti opere: Studies in History of medieval science (1924) e The Renaissance of twelft century (1927), in cui contribuì a ridimensionare il mito storiografico dell’oscurità medievale in  contrapposizione allo splendore rinascimentale.
È noto il suo impegno politico, che lo portò ad essere tra i più stretti collaboratori del presidente americano Woodrow Wilson, ed a partecipare alla delegazione americana alla conferenza di pace di Parigi nel 1919. A questo proposito scrisse Some problems of the peace conference (1920).
La Wikipedia inglese dedica ad Haskins una pagina: http://en.wikipedia.org/wiki/Charles_Haskins

Una società di studi sul medioevo angioino, anglo sassone ed anglo-normanno porta oggi il suo nome.
http://www.haskins.cornell.edu/

 

Massimo Marra ©, tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine. 

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LA SCIENZA ARABA NELL’EUROPA OCCIDENTALE (1)
Charles Homer Haskins
Titolo originale Arabic science in western Europe. Apparso in Isis, anno 1925, n° 7, pp. 478-485.

Traduzione di Massimo Marra ©, tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine

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«L’introduzione dei testi arabi nella cultura occidentale» dice Renan «divide la storia della scienza e della filosofia medievale in due periodi perfettamente distinti: Nel primo la mente umana, per soddisfare la sua curiosità, ha solo i magri frammenti delle scuole romane accumulati insieme nelle compilazioni di Marziano Capella, Beda, Isidoro, e certi trattati tecnici salvati all’oblio in virtù della loro larga circolazione. Nel secondo periodo la scienza antica tornò nuovamente all’occidente, ma questa volta più precisamente nei commentari arabi degli originali scritti greci, una scienza cui i romani avevano sostituito i loro compendi.» (2). Si tratta qui di Ippocrate e Galeno, dell’intero corpus degli scritti di Aristotele, della matematica e dell’astronomia arabe.
Le parti rispettivamente provenienti dagli Arabi e dai Greci, nel contenuto del sapere che, di conseguenza, arrivò in Europa, rimane ancora da determinare. Il contributo più importante viene dai Greci, ai quali lo spirito umano rimane perpetuamente debitore per l’inizio del pensiero critico e per una parte sostanziale del suo corpo fondamentale di fatti e concetti. Il dubbio riguarda solo ciò che gli Arabi aggiunsero alla scienza greca, e la piena risposta a questa domanda attende l’ulteriore esplorazione degli scritti scientifici arabi conservati, ed una ricerca comparativa con gli scritti greci. In generale si può dire tuttavia che questo contributo fu considerevole.
Le ricerche sono giunte più lontano in campi come la medicina, la matematica e l’astronomia  dove in trattati greci sono facilmente accessibili ed in cui certi scrittori arabi sono stati accuratamente studiati in monografie come quella dedicata ad Al-Battani da Nallino (3). Dobbiamo agli Arabi osservazioni di malattie sufficientemente accurate da permetterne l’identificazione; ad essi si devono inoltre grandi progressi in aritmetica, algebra e trigonometria, in cui possiamo anche rinvenire delle contribuzioni indiane, e le tavole astronomiche universalmente diffuse nel Medio Evo. Per quanto concerne l’astrologia la catalogazione dei manoscritti astrologici greci ha gettato le fondamenta, ma per quanto riguarda il periodo arabo molto lavoro rimane da fare. Lo studio Sphaera di Franz Boll e l’esame della geomanzia araba e bizantina di Tannery sono un buon esempio di studi scientifici in questo campo. Sull’alchimia, i pionieristici studi di Berthelot hanno bisogno di revisione e di approfondimento, sia dal lato degli originali greci, per i quali l’Union Académique Internationale ha cominciato un catalogo (4), sia, in special modo, dal lato arabo dove studi più approfonditi sono stati affrontati da Wiedelmann, Holmyard, e Ruska; così il punto di vista di Berthelot, che riteneva di scarsa importanza l’alchimia araba, può essere considerato, in ogni caso, prematuro (5). La scienza araba rimane un significativo e fruttuoso campo di esplorazione in sé, oltre che il necessario fondamento per ogni studio approfondito delle sue influenze sull’Europa cristiana. Nello stesso tempo la ricezione della scienza araba nel mondo latino rimane più o meno sospesa a mezz’aria; ciò nonostante può valere la pena nel frattempo tentare una specie di bilancio di prova con un quadro provvisorio di questo processo e dei suoi risultati per la cultura europea.
Esso può essere meglio studiato in Spagna, il punto di contatto più continuo tra civilizzazione cristiana ed araba. Qui, per forse un secolo e mezzo, da circa il 1123 a circa il 1280, possiamo tracciare una successione di attivi traduttori che si occuparono di diversi aspetti della conoscenza saracena; cosicché la parte di gran lunga più considerevole di questa scienza che raggiunse l’Europa, vi arrivò attraverso il canale spagnolo. Non possiamo dire quanto o quando cominciò il movimento, né possiamo tracciare i primi passi di coloro che apparvero improvvisamente impegnati in questi lavori di traduzione nella penisola iberica. Essi venivano da varie parti d’Europa, specialmente dall’Inghilterra, dall’Italia e dalla Spagna, e i loro dati biografici sono tratti anzitutto dai nomi  e, meno frequentemente,  dalle date annesse alle loro diverse versioni dei trattati arabi.  
Nessuno, tra coloro che venivano di là dei Pirenei, sembra aver conosciuto al suo arrivo in Spagna l’arabo, ed alcuni non lo conoscevano quando ne partirono; pertanto i loro lavori si svolgevano per forza attraverso degli interpreti, generalmente giudei convertiti. Così, mentre Gerardo da Cremona utilizzava un Mozarabico chiamato Galipus, Michele Scoto, traduttore del Trattato sugli Animali di Aristotele e del trattato Sulla Sfera di Al-Bitrogi, è detto dovere molto ad un ebreo chiamato Andrea, che è probabilmente lo stesso Maestro Andrea canonico di Palencia che il papa elogia nel 1225 per la sua conoscenza di Arabo, Ebraico, Caldeo e Latino, così come delle sette arti liberali (6). Talvolta traduttori ed interpreti trovano un punto di incontro nello spagnolo vernacolare, e così un lavoro arabo poteva essere tradotto prima in Spagnolo e dopo in Latino. Per loro stessa natura, tali traduzioni non potevano essere totalmente accurate, ma esse almeno erano pedissequamente letterali, perfino nel tentativo di riportare l’articolo arabo.
Questi traduttori in Spagna, alla cui testa c’era Gerardo da Cremona, lavoravano in ogni campo del sapere saraceno. Ad essi dobbiamo i testi di Aristotele, Tolomeo, Euclide ed i fisici greci, Avicenna, Averroe, e gli astronomi e matematici arabi, oltre che una gran massa di studi di astrologia ed, apparentemente, un certo numero di testi di alchimia.
Il movimento spagnolo fluì oltre i Pirenei nel sud della Francia, in centri come Narbonne, Béziers, Tolosa, Montpellier e Marsiglia, dove la nuova astronomia apparve a partire dal 1139, e tracce nell’astrologia, della filosofia e della medicina degli arabi sono rinvenibili fino al quattordicesimo secolo. In tale movimento il ruolo dei traduttori ebrei fu ampio, forse perfino relativamente più largo che in Spagna; molte delle versioni furono fatte a mezzo di Ebrei.
L’Italia e la Sicilia ebbero un’importanza vicina a quella della Spagna, sommando in sé una popolazioen  araba residente (in Sicilia), con le strette relazioni commerciali tra le città italiane e le terre islamiche del nord Africa e della Siria. Qui il problema, comunque, è complicato dalla trasmissione diretta dalla Grecia, sia attraverso l’intermediazione del sud della Grecia che attraverso le relazioni commerciali e diplomatiche con Costantinopoli, ed il rispettivo insieme di fatti non è stato profondamente vagliato ed esplorato. Sul versante arabo Costantino l’Africano, nell’undicesimo secolo, sembra aver portato le sue traduzioni mediche dal nord dell’Africa, dove quel pioniere della nuova matematica che fu Leonardo da Pisa, trascorse la sua giovinezza poco prima del 1200. All’incirca nel 1130 spiccano in Sicilia la grande mappa ed il relativo commento di Edrisi, ed una traduzione dell’Ottica di Tolomeo, mentre nel secolo successivo Federico II e Manfredi continueranno un attivo interscambio culturale con gli studiosi musulmani di nord Africa e Siria, i cui risultati letterari sono solo parzialmente conosciuti. Le principali traduzioni redatte in Siria possono essere attribuite ad italiani, come ad esempio, le opere mediche di Aliben-Abras voltate in latino da Stefano di Pisa, e la popolarissima versione dello pseudo-aristotelico Secretum Secretorum eseguita da Filippo da Foligno, chierico di Tripoli. Le crociate in quanto tali ebbero un ruolo sorprendentemente piccolo nella trasmissione della scienza araba all’Europa cristiana, e neanche possiamo ascrivere molta importanza ai lavori arabi, principalmente astrologici, che arrivarono attraverso i Greci di Bisanzio – e che erano in netto contrasto con gli scritti greci che arrivavano a mezzo degli arabi. Accanto a questi lavori conosciuti in diverse terre del Mediterraneo, un posto va attribuito alle numerose traduzioni di cui rimangono sconosciuti sia gli autori che il luogo di esecuzione. A queste possiamo associare non solo molte materiale sparso di importanza minore, specie in campo astrologico, ma anche certe opere fondamentali come la “Fisica”, la “Metafisica” e diverse opere minori di Aristotele sulle scienze naturali, anch’esse apparse per la prima volta in occidente all’incirca nel 1200. C’è almeno una versione anonima dall’arabo dell’Almagesto e del Quadripartitum di Tolomeo. Con poche eccezioni, alla letteratura alchemica latina che vuol passare per araba, come gli scritti del cosiddetto Geber, non sono associati i nomi dei traduttori.
Se proviamo a ricapitolare i contributi ricevuti in diverse branche della scienza, notiamo come in medicina, l’Europa occidentale ha ricevuto dagli arabi i testi di Galeno ed Ippocrate. In matematica, accanto ai lavori arabi di aritmetica, algebra e geometria, c’era la diffusa versione degli Elementa  di Euclide. In campo astronomico c’era la corrente traduzione dell’Almagesto di Tolomeo dall’arabo, ed essa era integrata  dai commenti e dalle tavole di Al-Battani, al-Fargani, al-Kwarizmi, al-Zarkali ed altri.
Tutto, ciò comunque, non costituisce l’intera storia di queste trasmissioni, poiché vi era l’importante contribuzione della diretta trasmissione greca. Accanto a possibili sopravvivenze delle opere di Galeno ed Ippocrate nel sul dell’Italia, nel primo Medioevo, Burgundo da Pisa aveva tradotto dieci trattati di Galeno  e gli Aforismi di Ippocrate direttamente dal greco nel dodicesimo secolo. Ci sono anche tracce di una antica versione degli Elementi di Euclide dal greco, mentre i suoi Data, Ottica e Catottrica erano conosciuti anche in una versione tratta dal greco in Sicilia; i Catottrica erano apparentemente sconosciuti agli arabi. Allo stesso modo c’era una versione siciliana dell’Almagaesto redatta intorno al 1160, così come una versione di provenienza sconosciuta sempre dal greco. Per le opere principali di Aristotele versioni sia dall’arabo che dal greco erano in circolazione dal tredicesimo secolo: nel caso dei Metereologica tre libri erano diffusi in una versione dall’arabo, il quarto in una dal greco. Così Archimede era conosciuto attraverso versioni da entrambe le lingue, ed il De Motu di Proclo e gli Pneumatica di Erone solo dal greco.
In astrologia, d’altra parte, il contributo greco diretto era comparativamente insignificante, essendo limitato a certi lavori come il cosiddetto Kiranides, ricevuto direttamente da Costantinopoli. La gran parte dell’astrologia medievale veniva dagli arabi, che sembrano aver contribuito considerevolmente alla originaria eredità greca.
In zoologia, la fonte fondamentale, il trattato Sugli Animali di Aristotele, era ben conosciuto attraverso l’intermediazione araba (7), insieme ai suoi commentari di Avicenna, mentre in campo botanico c’era una evidente tradizione diretta nelle prime versioni di Dioscoride, essendo le contribuzioni arabe tarde e  limitate soprattutto alla  materia medica.
In agricoltura ed architettura il contatto con la tradizione greco-romana era altrettanto diretto.
In un campo in cui i saraceni eccellevano, ovvero la geografia, ci fu un’influenza assai minore sulla cultura europea. Dal momento che il grande lavoro geografico di Edrisi, prodotto proprio in Sicilia, non fu né tradotto né studiato dai latini, agli altri lavori minori, enciclopedie e compendi di geografia, non potevano che toccare ancora meno chances di successo (8). Se le crociate estesero la conoscenza geografica dell’Europa cristiana, fu attraverso esperienze di viaggio reali piuttosto che attraverso il contatto con gli scritti dei geografi arabi. L’influenza araba può essere ricercata solo più tardi, e, in larga misura, attraverso l’assimilazione di conoscenze pratiche nell’esperienza dei popoli mediterranei.
Attualmente il principale problema al riguardo della ricezione della scienza araba risiede nel campo dell’alchimia. La difficoltà in parte è inerente al soggetto stesso, poiché gli alchimisti si occupavano di vari tipi di processi segreti, che diventavano pubblici lentamente e spesso in forma anonima ed attraverso percorsi tortuosi: quando un investigatore medievale pensava di aver trasformato il mercurio in oro, non aveva nessuna fretta di render pubblico il processo sotto il suo nome. In parte, comunque, l’oscurità di questo campo è solo il risultato di una insufficiente investigazione. Le fonti latine dell’alchimia si possono classificare in quattro gruppi principali. Il primo, che comprende ad esempio Teophilus e la Mappae Clavicula, preserva direttamente e in forma pratica la tradizione greco-romana dell’alto Medioevo. Il secondo è costituito dai passaggi riguardanti l’alchimia nelle opere autentiche di scrittori ben conosciuti del tredicesimo secolo, come Michele Scoto, Alberto Magno, Vincenzo di Beauvais, brevi esposizioni che mostrano una certa quota di influenze arabe e spesso citazioni dirette di opere di origine araba. La più antica di cui io sia al corrente è il capitolo sui metalli del Liber Particularis di Michele Scoto (9), scritto prima del 1228, dove leggiamo che i sette metalli sono composti formati in varia proporzione da argento vivo, zolfo e terra; questi «metalli possono essere falsificati dall’arte mediante l’addizione di polveri e la mediazione dei quattro spiriti dell’argento vivo, zolfo, orpimento e sale ammoniaco». Quest’oro può essere trattato per ottenere un utile cibo per il vecchio che desidera essere più giovane e vigoroso; si tratta evidentemente del cosiddetto elisir di vita. Il terzo gruppo è quello dei trattati che si presentano come dirette traduzioni di specifiche opere arabe, a cominciare dal Morienus (10) attribuito a Roberto di Chester nel 1144 – e non 1182, come in Berthelot e Von Lippmann – e continuando coi tre trattati tradotti in latino prima del 1187 da Gerardo da Cremona (11), che ci portano nel discusso reame di Geber, Razi ed Avicenna. Il quarto gruppo consiste in una massa di trattati anonimi, pseudonimi o di dubbia attribuzione, riconducibili ad autori latini, e composto soprattutto di manoscritti del quindicesimo secolo e raccolte a stampa. Parte di questa letteratura è collegata, con minore o maggior grado di incertezza, a nomi in diverso modo connessi con l’alchimia o con tematiche collegate, come Michele Scoto, Frate Elia da Cortona, Alberto Magno, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo. Alcuni di questi trattati, d’altra parte, citano esperimenti di specifici individui che ci sono altrimenti sconosciuti, oppure trattati alchemici arabi anonimi come quello menzionato nella cosiddetta Alchimia di Michele Scoto. Molti di essi sono pure sciocchezze. Una buona collezione di materiale simile è il famoso Codice Speciale di Palermo (12), che contiene anche il catalogo di una biblioteca alchemica di settantadue opere appartenenti ad un monaco a Bologna nel quattordicesimo secolo. Nello studiare questo materiale non dobbiamo trascurare la possibilità di una influenza diretta del corpus greco in Italia, dove gran parte di questa letteratura fu prodotta e dove almeno un manoscritto greco fu copiato dopo il 1376 (13). In effetti l’alchimia bizantina nella sua interezza è una fase di questa indagine che non può essere trascurata.
Il terzo e quarto gruppo di cui abbiamo parlato attende ancora una esplorazione sistematica, e fino a quando i lavori non saranno in fase avanzata, non sapremo quali conoscenze chimiche l’Europa medievale prese dai Greci, quali prese dagli Arabi, e quali fu invece costituirono il suo proprio contributo. In questo ambito ogni risultato è da considerarsi assolutamente provvisorio senza una parallela esplorazione del materiale arabo, ma, nel frattempo, il materiale latino può almeno essere catalogato, come nel catalogo di Mr. Singer per il materiale dell’Inghilterra, e comparato l’uno con l’altro con l’esame accurato delle notizie sui traduttori e sugli esperimenti. Questo è certamente uno dei più immediati soggetti di ricerca nel campo della storia della scienza medievale.
La nostra conclusione generale è che l’influenza araba è qualcosa di meno vasto di quanto si possa desumere dalla generalizzazione di Renan, con cui abbiamo cominciato. La rinascenza scientifica del dodicesimo secolo fu greca oltre che araba, e l’eccezionale rilievo della scienza araba di questo periodo si trova oggi ridimensionata in favore dalle traduzioni condotte direttamente dal greco. Il mondo latino potrebbe aver preso il suo Aristotele, il suo Galeno, i suoi Tolomeo ed Euclide, in larga parte da versioni greco-latino. Potrebbe aver ereditato molta della scienza greca in questo modo, ma per la maggior parte le cose non dovettero andare così. Il linguaggio corrente della scienza di questo periodo era arabo. L’intero movimento scientifico dalla Spagna e dalla Provenza, in origine, fu arabo, e così, in parte, lo fu anche quello del sud Italia. Le versioni dall’arabo spesso sono precedenti rispetto a quelle da greco, o almeno, nella maggior parte dei casi, le rimpiazzano nell’uso corrente. Ad esse si aggiungeva il prestigio dei commentari e manuali arabi che le accompagnavano, alcuni dei quali influirono profondamente sul pensiero europeo. Le traduzioni arabe “ebbero migliore stampa”.  Alle traduzioni poteva essere aggiunta la scienza degli stessi arabi, che aveva assimilato e spesso sopravanzato quella greca in medicina e matematica, in astronomia ed astrologia, e probabilmente anche in campo alchemico. E non è tutto: per gli Arabi e gli Ebrei del Medioevo, la conoscenza scientifica diviene cosa di suprema importanza, e questo spirito di devozione alla scienza passò ai cristiani che entrarono in contatto con la loro cultura. Con l’interesse venne il metodo: una attitudine mentale razionalistica ed una inclinazione allo sperimentalismo. Questi caratteri potevano essere stati trovati tra gli antichi Greci, ed erano caratteristici dei loro scritti, ma furono nutriti e tenuti vivi nelle nazioni islamiche ed è soprattutto da queste che passarono in seguito all’Europa cristiana. 

 

NOTE:

(1) Letto innanzi alla History of Science Society a Washington, il 31 dicembre 1924.
(2) Averroés et l’Averroisme (Paris, 1869), p. 200.
(3) In Pubblicazioni dell’Osservatorio di Brera, XV, (1904).
(4) A cura di J. Bidez, Brussels, 1924.
(5) Cf. Holmyard, in Isis, VI, p. 479-499.
(6) Pressuti, Regesta, Honorii, Pape III, no. 5445. Ho stampato il testo completo di questa bolla in un articolo su  «Michele Scoto in Spagna» in stampa nel volume di studi dedicati al professor A. Bonilla y San Martin (Madrid 1925).
(7) Alla versione precedentemente conosciuta Monsignor A Pelzer ne ha appena aggiunta un’altra: «Un traducteur inconnu: Pierre Callego, Franciscain et premier évéque de Carthagéne (1250-1267)» in Miscellanea Francesco Ehrle (Rome, 1924) I. p. 407-456.
(8) «I lavori dei principali geografi musulmani al-Masudi, Ibn Hauqal, al-Istakhri, erano sconosciuti in Europa durante il Medioevo, e la geografia ufficiale araba certamente non contribuì quasi in nulla nella conoscenza della terra da parte degli occidentali dell’età delle crociate» J. K. Wright Geographical Lore of the Time of the Crusades (New York, 1925), p. 77.
(9) Per il testo vedi Isis, IV, p. 272; Studies in Medieval Science, p. 295.
(10) Ruska ha ora esposto ragioni per dubitare dell’autenticità di questo trattato nella sua forma latina. Vedi il suo Arabische Alchemisten, I (Chalid), Heidelberg, 1924.
(11) Cf. Steinschneider, in Sitzungsberichte of the Vienna Academy, phil. Hist. K1, CXLIXm p. 28-30, nos., 81-83.
(12) Ms. 4 Qq. A. 10. Vedi Di Marzo, I Mss. della biblioteca Comunale di Palermo, III, p. 237; ed ora, in generale, G. Carbonelli, Sulle Fonti storiche della chimica e dell’alchimia in Italia (Roma 1925). 
(13) Questo ms., scoperto dal Prof. Zuretti, sarà descritto nel secondo vol. del Catalogue des alchimistes grecs, come lo stesso curatore della serie mi ha gentilmente informato