Conte Santi Pupieni

(Giuseppe Antonio Costantini)

TRE LETTERE SUL LAPIS PHILOSOPHORUM E GLI INFLUSSI DELLE STELLE

INTRODUZIONE:

Le Lettere Critiche, giocose, morali, scientifiche ed erudite del Conte Agostino Santo Pupieni, uscirono in dieci volumi a partire dal 1744, ebbero svariate riedizioni (1) (alcune ampliate da nuove composizioni) e discreta fortuna. Scritte con stile a volte accattivante, esse trattavano, come promesso dal titolo, i più svariati argomenti, dalle scienze naturali alla morale, dal costume alle lettere, in maniera colta ma non eccessivamente approfondita, leggera e di piacevole lettura. Le Lettere provocarono talvolta anche alcune risposte e polemiche (2) ma valsero al suo autore un posto nella storia della comunità letteraria settecentesca. All’avvocato Giuseppe Antonio Costantini (1692-1772), oltre ai dieci volumi di Lettere, si devono anche altre opere:

– La verità del diluvio universale vindicata dai dubbj, e dimostrata nelle sue testimonianze: esame critico dell’avvocato Giuseppe-Antonio Costantini autore delle Lettere critiche (Venezia: appresso Pietro Bassaglia in merceria alla salamandra … a spese dell’autore, 1747, ristampato presso Giambattista Novelli nel 1761).
– Difesa della comune, ed antica sentenza che i fulmini discendano dalle nuvole contro l’opinione del sig. marchese Scipione Maffei che si formino al basso, ed ascendano. Riflessioni dell’autore delle lettere critiche appoggiate alla ragione, ed alla sperienza, con un discorso in fine intorno alla somiglianza della forza del fuoco de’ fulmini, e della luce elettrica (In Venezia: appresso Gio. Battista Recurti, 1749).
– Della commedia italiana, e delle sue regole, ed attinenze considerate in riflesso al secolo nostro, su i precetti, ed esempi antichi … ed applicate in seguito all’esame di una nuova commedia comparsa alla luce col titolo del Marito dissoluto. Conferenze tra un Cavaliere, e l’Autore delle Lettere critiche (In Venezia: appresso Giuseppe Bettinelli, 1752)
– La lingua volgare non è atta per le controversie morali, ragionamento diviso in quattro capi (In Venezia: appresso Giuseppe Bortoli, 1754)
– Il vortice aereo, volgarmente detto scione o bisciabova, spigne, e non assorbe. Trattato apologetico-critico dell’avvocato Giuseppe Antonio Costantini … Con figure in rame (In Venezia: presso Giambattista Novelli, 1761).
– Elementi di commerzio o siano regole generali per coltivarlo appoggiate alla ragione, alla pratica delle nazioni, ed alle autorita degli scrittori di questa materia di Giovanni Sappetti cosentino (Il Melzi, op.cit., vol III, 1856, p. 26, identifica Giovanni Sappetti cosentino come anagramma di Giuseppe Costantini)

Pure al Costantini si debbono i sei tomi de I caratteri di Teofrasto, coi caratteri, o costumi di questo secolo del sig. de La Bruyere, e la Difesa di lui fatta dal sig. Costa il tutto tradotto dalla lingua francese, ed illustrato con riflessioni critiche, e morali addattate ai costumi correnti dall’avvocato Giusepp-Antonio Costantini autore delle Lettere critiche. (In Venezia: appresso Giambattista Novelli, 1758-1759) e l’edizione italiana di un testo del principe Armand Bourbon, l’autore del celebre Traité sur la comédie, ovvero di due tomi de Il disinganno de’ grandi e d’ altre persone qualificate e benestanti intorno a’ loro doveri esposti gia’ a sola propria istruzione dal fu sua altezza monsig. il principe d. Armando di Conty del sangue reale di Francia. Ora, dopo molte edizioni nella lingua francese, tradotti nell’italiana. E comentati con apposite riflessioni critico-morali dall’autore delle Lettere critiche … Aggiuntovi il Testamento dello stesso principe arricchito di note critico-morali (In Napoli: nella stamperia Simoniana, 1787). Probabilmente di mano del Costantini, sebbene mai incluse nello spoglio della produzione bibliografica dell’autore, sono le Lettere missive e responsive tra una dama e l’autore delle Lettere Critiche in confutazione del nuovo libro intitolato Lo Specchio del Disinganno (Venezia, per Giambattista Pasquali 1753). Per una evidente svista, il catalogo OPAC del SBN (consultato il 17/11/2009) gli attribuisce erroneamente anche La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue (Gio. Battista Novelli, 1765) che però non c’entra nulla col nostro autore, essendo notoriamente Aristarco Scannabue pseudonimo del più noto piemontese Giuseppe Marco Antonio Baretti (1719-1789). La svista ha un che di comico se si considerano alcuni passi della Frusta che testimoniano invece la disistima e l’acrimonia di Aristarco Scannabue per il Costantini. Recensendo nella sua Frusta la Lettera intorno alla cagione fisica de’ sogni di Ferdinando Facchinei (1725- post 1814) ecco cosa scrive il Baretti:

«I secoli antichi hanno abbondato egualmente che’l nostro d’una certa razza di scrittori molto malvagi, e che dal comune della gente è oggidì denominata de’ collitorti, perché coloro che la formano hanno per la più parte il mal vezzo di portare il collo un pocolino inclinato sulla spalla sinistra. Oltre a questo segnale gli scrittori collitorti si possono, quando tacciono, distinguere con facilità dagli altri uomini a una cert’aria di viso sempre grave come quella, per mo’ di dire, d’un somiero di molta età, e quando parlano, si riconoscono con agevolezza ancora maggiore, perché il loro parlare è per lo più un grido continuato ed uniformemente collerico, non troppo dissimile dal venatorio abbajare de’ cani.
Il mestiero principale di questi scrittori collitorti è appunto d’inseguire que’ pochi che sono a giusta ragione avuti dalla gente per filosofi, e di abbajar loro dietro a guisa di segugi e di bracchi a misura che li vedono avanzare con franco piede pe’ vasti campi delle difficili scienze….
E si ricordi che i veri cani sono assai meno pericolosi di questi cani per similitudine. Questo autore si è buttato qui sur un argomento alquanto astruso, onde si potrebbe dar il caso che un terribile nemico d’argomenti astrusi, voglio dire il finto Conte Puppieni, gli latrasse dietro, come fa all’inglese Derham e al napoletano Genovesi, che hanno avuta la baldanza di trattare de’ soggetti fuori dalla mental portata di questo grave cervello. Gli è vero che questa stolta genia non è più tanto da temere a’ tempi nostri quanto lo era nei tempi andati. A’ tempi andati si sa come i Puppieni furono possenti in Grecia e come astrinsero il povero Socrate a sorbirsi un buon bicchiere di cicuta; né la Toscana si può ancora dimenticare che il suo gran Galileo, soverchiato dall’impeto di cotale ciurmaglia, si trovò, lottando con essi, ambe le braccia poste alquanto fuori dal loro sesto naturale…» (3).

Non pago di questo attacco, il Baretti ritorna in seguito sul Costantini, che viene incluso ed additato al pubblico ludibrio tra i detrattori della Frusta, e, a quanto pare, come autore di una Frusta Redarguita che appare non aver mai però visto la luce per mancanza, probabilmente, di editore.

«L’ultimo a saltarmi addosso fu un avvocato Costantini, autore delle Lettere Critiche, di non so che Storia del Diluvio e di cert’altre babbuassaggini che, mercé la tanta ignoranza di tanti nostri compatrioti, furono per alcun tempo lette universalmente. Non si può dire quanto questo avvocato si sbracciò in favore d’Aristarco e de’ suoi fogli, quando cominciarono a pubblicarsi; ma vedendo che Aristarco era insensibile alle lodi, e che non si moveva mai a nominare né in bene né in male quelle sue babbuassaggini, montò a poco a poco grandemente in ira, e ne scarabocchiò una in più intitolandola la Frusta redarguita. Saputosi però dalla gente che quella era fattura dell’avvocato Costantini, nessuno la volle comprare, ed il Redarguimento morì così di morte subitanea… » (4).

Ad esclusione della lettera sul Lapis Philosophorum, che io ho tratto dal secondo tomo delle Lettere nell’edizione (appresso Giuseppe Zorzi) del 1780, e di quella sugli influssi delle stelle, che trascrivo dal quarto tomo della stessa edizione, non sono note altre incursioni del Costantini nell’ambito delle scienze occulte. La lettera sulla Cabala che il lettore può trovare in apertura del sesto tomo delle Lettere, infatti, a parte il generico riferimento del vocabolo cabala a radici ebraiche e la citazione di qualche autore cristiano come Pico, si riferisce essenzialmente alle arti divinatorie in generale, verso le quali il Costantini non dimostra nulla di più dello scetticismo illuminista e del buon senso borghese che permea, in genere, la sua produzione (5). In pratica Costantini riduce l’intera Cabala alla sola ghematria, e gli attribuisce essenzialmente un valore divinatorio. Di cabala in senso proprio, in realtà, nella lettera non vi è traccia. Analogamente, anche l’astrologia, che non poteva mancare nella collezione degli argomenti delle Lettere, e di cui il Costantini si occupa nel quarto tomo (6) ci mostra un Costantini scettico, se non sulle influenze degli astri (delle quali l’autore, anzi, si mostra convinto) almeno delle capacità dell’uomo di comprenderle con una scienza fatta di fantasie e fallacie (7).
Vi è solo un altro punto a noi noto delle Lettere, in cui il Costantini si occupa, questa volta con chiari intenti moralistici, dell’alchimia. Si tratta della lettera intitolata Segreto per far l’oro, fatto storico che abbiamo reperito dal quarto tomo dell’edizione (Presso Pietro Bassaglia) del 1747: la riproponiamo subito dopo la lettera sul Lapis.
I due componimenti di argomento alchemico appaiono disomogenei per tono ed orientamento. Ci pare di rinvenire, nella lettera del 1747 un tono generale di scetticismo che svanisce in quella tratta dall’edizione del 1780.
Mentre quest’ultima si risolve, in effetti, in una apologia dell’alchimia, la lettera dell’edizione del 1747 sembra piuttosto, per tono generale, portare alla conclusione che l’unico vero segreto per far l’oro, al di là di quelli contrabbandati al volgo, è l’imbroglio e la ciurmeria. Ciò ci fa ipotizzare probabilmente un’evoluzione nelle idee dell’autore che avviene negli anni a cavallo tra le svariate edizioni e rimaneggiamenti dell’opera.
Nella lettera sul Lapis l’autore cita le vicende di Federico Gualdi narrate da La Critica della Morte (Venezia 1690, Colonia 1694, Venezia 1697, Venezia 1699, Parma 1704 e poi ancora Venezia 1717), che rappresentano, a cavallo tra XVII e XVIII secolo, una anticipazione dei topoi del maestro errante che ritroveremo poi nelle narrazioni su Cagliostro e Saint-German. La fama de La Critica della Morte nella produzione alchimistica italiana del XVIII secolo era stata perpetuata, oltre che dall’edizione parmense e da quella veneziana, anche dalla prima parte delle Lettere di risposta del Signor Prospero Cataldi, patrizio Ascolano, uscite ad Ascoli per i tipi di Nicola Ricci nel 1735. Nel pieno fiorire della leggenda dell’alchimista errante, dunque, intorno al 1770, un amico del Costantini avvista Gualdi a Genova, questa volta addirittura in abito talare… una nuova incarnazione per il misterioso alchimista.
Le altre fonti citate dal Costantini in questa lettera, come segnalo più innanzi in nota, provengono tutte dal Theatrum Chemicum dello Zetner (1602), e sono testimonianza dell’effettiva familiarità dell’autore con la più grande raccolta di scritti alchemici al tempo disponibile.
La lettera sul Lapis philosophorum ebbe un momento di relativa popolarità negli ambienti dell’occultismo italiano negli anni ’50 del novecento, per la pubblicazione di ampi stralci del componimento nel primo numero (settembre 1949) nella rivista esoterica La Fenice (8).
Trascriviamo la lettera sul Lapis Philosophorum dal secondo tomo dell’undicesima edizione (il secondo tomo della prima edizione del 1744 non ne reca traccia) delle Lettere, stampata in Venezia appresso Giuseppe Zorzi nel 1780, adattando all’uso moderno punteggiatura e maiuscole, ed osservando criteri conservativi per tutto il resto.

© Massimo Marra – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

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LAPIS PHILOSOPHORUM

Genova, 28 ottobre 1758

Mio diletto amico,
E che sì, che vi siete prefisso di scandagliare a fondo la mia pazzia con questa ricerca. Tutto il mondo grida contro le frenesie degli alchimisti, ogni libro li tratta da pazzi e considera per la maggior disgrazia che possa succedere ad un galantuomo ch’ei s’innamori di giugnere alla trasmutazione de’ metalli, e voi dopo le grida universali tuttora me ne chiedete il mio pensiero? Che volete voi ch’io faccia? Se dico al contrario della voce comune, mi tratterete da frenetico, voi e quanti da voi udissero il mio sentimento. Se volete ch’io mi uniformi all’universale credenza, io vi ho detto tutto in due righe, ma non vi avrò detto quello ch’io sento, e per conseguenza sarò menzognero. Sicché undique labor. Ma, finalmente, io sono tanto amico del vero che non posso a mano di soddisfarvi col dirvi ciò che ne credo. Voglio però un patto da voi, che se restaste persuaso da ciò che sono per dirvi, non mi esponiate alla risate de’ vostri amici, ma ne parliate come voi, o al più con relazione a persona anonima.
Vi dico dunque che sono persuaso che sia possibile la trasmutazione de’ metalli col mezzo della Pietra Filosofale; ma prima di dirvene le ragioni, lasciate ch’io vi renda conto perché questa opinione sia universalmente detestata, e gli alchimisti siano da tutti spacciati per stolti.
L’avidità delle ricchezze, che dopo la passione d’amore tiene il primo luogo nel cuore degli uomini, li ha indotti per conseguire il loro oggetto, parte ad applicarsi al giuoco, parte ad illeciti traffichi, e parte a sudare nell’alchimia. Lasciando il discorso de’ primi due generi, parliamo di proposito di quest’ultimo.
Tre cose possono condurre gli uomini a ricercare la Pietra Filosofale: o qualche accidente fatto loro osservare, o la lettura di qualche libro, o qualche appostata sperienza di un impostore. Bisogna intendere che fra gli alchimisti vi sono quelli che spargono sudori e sostanze per giungere al loro oggetto, e quelli che, per vivere a spalle altrui, hanno inventato alcune fraudi per ingannare li creduli. Questi, mostrando visibili accrescimenti dell’oro o cangiamenti di mercurio in argento, vendono poi a caro prezzo il segreto e si sottraggono. Né hanno tanto avvedimento li sciocchi compratori, per capire che, se fossero veri que’ tali segreti, il venditore non avrebbe bisogno di poche doppie, né andrebbe comunicando altrui per denaro le proprie cognizioni.
Quelli poi che si impoveriscono in traccia della Pietra con quotidiani dispendiosi esperimenti, conviene che siano forniti di molta onoratezza, se indotti dal bisogno non divengono anch’essi impostori e venditori di fanfaluche. Sicché tutto il genere degli alchimisti ci dimostra o pazzi, che consumano inutilmente le loro sostanze, o birboni, che cercano di vivere ad altrui spese.
Ed è una cosa molto meravigliosa che alcuni soggetti qualificati ingolositi dalle favole di costoro, ne facciano conto come fossero gran filosofi, lor diano ricovero e mantenimento, profondendo in spese dietro le insinuazioni di codesti ciurmatori, che operano a caso senza alcun lume, e non hanno altra mercanzia che di ciarle e di quattro termini rubati a’ chimici, o succhiati per accidente da qualche libro.
Se poi qualcheduno di quelli che impiegan gli anni nello studio e nelle sperienze sempre vane, giugne o con lo studio, che è quasi impossibile, o coll’insinuazione di qualche adepto, al conseguimento del suo fine, dovete bene immaginarvi che la prudenza gli insegna a nascondersi, ed a non far pompa del suo acquisto. Quali non sarebbero i perigli a’ quali sarebbe esposto, se volesse manifestarsi? Li grandi non sono tutti buoni, a costo di tormenti potrebbe esser loro estorto il segreto, e poi potrebbero esser fatti morire, onde non divolgassero di averlo scoperto.
In somma allorché qualcheduno giunga a questo grado, l’amore della vita lo consiglia a coprirsi, poiché non avendo bisogno di alcuno può vivere una vita privata senza verun ribrezzo, e ridersi delle vane pompe degli uomini che sterminano le proprie case per fare strepitose comparse.
Eccovi la ragione perché, non essendo noti al mondo altri alchimisti che quelli che si smidollano senza mai giugnere al loro intento e quelli che ciurmano il mondo colle imposture, l’alchimia viene dinominata pazzia e gli alchimisti frenetici o birboni.
Ma ella è sì necessaria la segretezza, che per qualunque lieve indicio che uno fosse possessore del grande arcano, sarebbe costretto di sottrarsi, come fece improvvisamente quel Federico Gualdi in Venezia nell’anno 1682. Figuratevi un poco che qualcheduno fosse, appresso del volgo, indiciato, scoperto possessore di questo meraviglioso segreto: quali non sarebbero gli assalti, le circuizioni, le preghiere, le insidie? Parenti, amici, conoscenti, ognuno crederebbe di aver titolo per ottener soccorsi, e non già di bagatelle né di summe mediocri. L’oro non costa sennon picciol spesa e fatica; dunque il saziare le brame de’ richiedenti deve, a lor credere, esser di poco impaccio; ma frattanto realmente il possessor dell’arcano sarebbe sempre esposto non solo a dimande, ma a rimproveri, ad insidie ed a rischi, con tutto quel più che seriamente riflette Theobaldus ab Hogellande, de difficultatibus Chemiae (9).
Questo è ciò che fa che quelli li quali per avventura sono arrivati al conseguimento di un dono così prezioso, sono in precisa necessità di celarsi agli occhi del mondo, sottrarsi alla patria, sfuggire le pompe, vagar per varj paesi e vivere perpetuamente solinghi, o poco meno. Quel Gualdi del qual vi dicevo, dopo essere stato alcuni anni a Venezia in un specie di figura mercantile, o di uomo che dal suo paese (era tedesco) ricevesse copiose rimesse, scopertogli un suo ritratto in mano del famoso Tiziano, ch’era morto più di cento anni addietro, avendo inteso che se gli andavan facendo li conti e dell’età e della ricchezza, finse di portarsi alla villa con un solo forziere, lasciando in arbitrio di una serva e di un servidore una casa civilmente e comodamente ammobigliata. Vedi Critica della morte.
Poco dopo fu riconosciuto in Olanda, e di là pare tosto sparì, come fu scritto da quella Gazzetta, ed io ho parlato con persona che non sembrava impostore, che professava di averlo riconosciuto in Genova pochi anni sono in abito di sacerdote. Voi sapete già che uno dei pregi che si attribuiscono alla Pietra Filosofale è quello di conservar la salute, e per conseguenza di prolungare la vita.
In somma, quegli che arriva a toccar l’apice di questo monte, che oltre a quello che scrivono alcuni autori, e specialmente S. Tommaso d’Aquino, per quanto apparisce, che o deve esser santo o diviene santo, deve per necessità esser filosofo, senza patria stabile, senza parenti, senza amici, spregiatore di vane comparse, contento di una vita dimessa e libero da affetti. Or, come si può fare a conoscerlo?
Se adunque quegli alchimisti che sono noti non possono darci veruna certezza che la Pietra che essi cercano possa trovarsi, poiché essi camminano alla cieca, per vie incerte; ed all’incontro quelli che per avventura vi sono giunti, si nascondo agli occhi nostri, né sono così stolidi per raccontarci la loro fortuna e dimostrarcela colla sperienza, cerchiamo se vi sia cagione che possa farci credere possibile la trasmutazione de’ metalli ed il ritrovamento della Pietra de’ Filosofi.
Il diletto avuto in mia gioventù per la chimica, mi condusse a spendere gran parte de’ miei ozj nella lettura de’ libri che trattano questa materia, e vi dirò che ne ho letto delle dozzine, e qualcheduno di questi l’avrò letto tre o quattro volte. E fu mia buona fortuna che uno de’ primi autori che non mi sovvien bene chi fosse, avverte di non por mai mano a sperienze, poiché certamente nulla si potrà conseguire, essendo necessario di avere tutte le cognizione della materia e dell’Arte, e del fuoco prima di metter mano all’opra, e per conseguenza il contrassegno più certo di non saper nulla è l’andare vagando senza sapere l’intiero. Il che quanto sia addatti alle cognizioni che dopo ho acquistate, lo intenderete in progresso.
Dissi mia buona fortuna, poiché quantunque nello studio andassi formando le mie idee, mai ho però posto mano a sperienze, ricordevole dell’avvertimento che prima dovevo esser certo di tutto.
Mi contentai dunque dello studio e di formare in me stesso varj argomenti che mi faceano creder vera codesta scienza quanto altrettanto mi assicuravano che io non ero giunto a veruna cognizione, ma solo a formare varie idee intorno alla materia ed al fuoco, ma non mai intorno all’arte.
Pensavo fra me stesso (e lasciate ch’io vi dica i miei pensamenti, acciò non mi crediate cotanto pazzo) come tanti autori avessero scritto volumi di questa materia ed avessero voluto accordarsi per ingannare il mondo, assicurandoci di esser eglino possessori del grande arcano con libri, o pubblicato dopo la loro morte, o con nomi supposti vivendo per rendersi incogniti. Lorenzo Ventura (10) scrive sin dai suoi tempi di aver raccolti nella libreria del Conte Palatino ducencinquanta libri di questa materia, e di averne appresso di sé altri cinquanta, oltre a quelli che sono stati scritti in due secoli dopo di lui.
Pensavo in appresso come si avessero potuti unire in certi termini, bensì diversi negli enigmi, ma simili nel significato; ma più di tutto come avessero potuto abusare sì francamente il nome di Dio, il cui timore, colla purità di coscienza, tutti prescrivono come per preliminare disposizione in chi si accigna a conseguire codesto fine. Potrei raccogliervi un centinaio di passi di varj autori in questo genere, i loro ringraziamenti alla suprema maestà per il dono ottenuto e le imprecazioni contro chi pensa di conseguirlo per farne un mal’uso.
La descrizione che gran parte di essi fa de’ propri errori e delle frustrante dilapidazioni delle loro sostanze, col preciso racconto delle sperienze, le fisiche sottili specolazioni colle quali cercano di guidare la mente de’ candidati, tutto mi facea vedere contrassegni di sincerità e mi facea credere impossibile in essi l’inganno. Questo era anche ciò che mi facea compatire quegli infelici che si danno a codesto studio, indi credendo di aver fatte scoperte negli enigmi degli autori si accingono alle sperienze.
In somma si raccoglie in essi scrittori uno forzo di additare le vie dell’arte col mezzo della contemplazione, mediante un altro sforzo contrario di tener occulta la verità espressa confessando eglino stessi che non poteasi in tal modo giugnere alla cognizione necessaria senza un lume particolare del Cielo, chiamandolo la maggior parte di essi un dono gratuito dell’Onnipotenza.
Quindi non mi stupivo se tanti e tanti gettano inutilmente il tempo, le fatiche, e le sostanze, poiché poco studiando di conciliare i diversi sensi degli autori, ma più di tutto di chiedere a Dio lume bastevole per intenderli, si perdono in esperienze inutili e dispendiose, e si prefiggono di fare di questo arcano usi totalmente mondani se giugnesssero a conseguirlo. Ed ecco il perché gli adepti hanno scritto con tanta oscurità, credendo tutti che non potrebbono usare maggiore ingratitudine verso Dio che nel palesarlo liberamente a tutto il mondo.
Oltre queste ragionevoli riflessioni, varie naturali ragioni mi persuadevano della possibile metamorfosi de’ metalli. La loro comune liquabilità e maleabilità, la facilità di mescolarsi assieme e di farne un sol corpo di due o di più, la stessa figura liquida in cui si riducono per mezzo del fuoco, che somiglia alla figura naturale dell’argento vivo, ed una certa iride o superficiale corteccia di varj colori, verde, rosso, azzurro, giallo e violaceo, che dimostrano tutti egualmente allorché fusi e gettati si lasciano raffreddare, mi persuadeva essere eglino tutti composti di qualche principio analogo e, per conseguenza, potersi dare in essi la trasmutazione dall’uno in l’altro.
Non minore argomento di ciò ritraevo da quegli apparenti cangiamenti che ci sono famigliari, cioé del rame in color d’oro con la gelamina, o la tuzia, o in colore d’argento con l’arsenico e il tartaro, e del ferro in colore, anzi in sostanza, di Rame col Vitriolo. Se i metalli non potessero trasmutarsi in sostanza, non potrebbono cangiarsi in apparenza, poiché se fossero sostanze invariabili come sono i marmi ed altri corpi, non giugnerebbesi con tali addizioni a far loro cangiare apparenza, ma resterebbono sempre nella loro primiera situazione. Oltre di che, codeste apparenze, non solo non cangiansi in un terzo colore diverso dagli altri metalli, bensì precisamente dal colore di uno in quello di un altro, ma ancora cotal variazione si è sempre nel colore di un metallo più perfetto. Il che ci dimostra che non potendosi ridurre né l’oro né l’argento in colore di rame o di ferro, ma bensì il rame in colore di argento e d’oro, ed il ferro in color di rame, li metalli inclinano verso la perfezione e li filosofi non hanno avuto torto in nominare i due primi metalli perfetti, e gli altri tutti metalli imperfetti.
Aggiugnevo a tutto questo il considerare che da tutti li metalli si può estraere il mercurio o sia argento vivo, e che da esso ricevono la loro gravità. Mi assicurò un dotto operatore di chimica noto al mondo col nome di Anonimo, che avendo voluto un principe napolitano dilettante della metallica sagrificare una libra d’oro per farne codesta estrazione, egli gliene avea cavato undici oncie e due drame di mercurio similissimo al minerale, di cui aveano in seguito fatto per esperienza il sublimato, il precipitato e diverse altre chimiche operazioni solite farsi col mercurio naturale.
Questa operazione rende conto della ragione del peso maggiore nell’oro che negli altri metalli, perché contiene maggiore quantità di mercurio, che è noto essere pesantissimo.
Quindi argomentavo in me stesso: se il mercurio è in tutti i metalli, dunque la loro diversa configurazione, compagine e colore proviene dalla diversità della terra, o sia zolfo, che corporifica il mercurio. Sicché quando giungasi a trovare quella terra o quel zolfo che corporifica il mercurio per produr l’oro, non solo si potrà convertire in oro il mercurio semplice, ma anche ogni altro metallo, corporificando in oro quel mercurio che pria era legato ad altra terra che lo facea essere rame, stagno, piombo ec..
Questi erano que’ principj che mi faceano credere vera quest’arte, e per conseguenza non inutile questo studio, a cui applicai però senza distraermi dalle altre mie applicazioni, facendola servire per fuggilozio ed in luogo di divertimento.
Ma quantunque questo discorso sia ragionevole e possa giustificare la mia credenza in questa materia, voglio raccontarvi un accidente che mi confermò in questo sentimento e che mi aprì talmente gli occhi, che cominciai ad intendere tutti gli enigmi de’ filosofi ed a conciliarli francamente fra di essi non solamente, ma anche a discoprire fra i molti libri alcuni impostori che aveano scritto a capriccio ed in relazione alle opere degli adepti mescolandovi mille favole che fanno impazzire quegli infelici che sudano sopra gli autori, senza distinguere la menzogna dal vero.
Un soggetto mio amico, militante di professione, erasi da molto tempo innamorato nella metallica, ma non era munito de’ termini né de’ principj chimici, e tanto meno dell’esercizio e, ciò ch’è peggio, intendeva poco la lingua latina, onde non avea alcuno studio degli autori. L’avermi inteso qualche volta a discorre di questa materia lo indusse a pregarmi di dettargli in volgare certi manuscritti latini che da molti anni avea presso di sé, e de’ quali avea cominciato a fare gran conto, dopo averli per accidente preservati dalle fiamme alle quali avea gettato quantità di scritti e ricette inutili, e dopo aver rilevato alcuni enigmi o cifre coll’aiuto di certo dotto claustrale.
Impresi di servirlo di buona voglia, anche per curiosità di leggere il manuscritto, e con mio stupore rilevai manifesta tutta l’arte ed i vasi, con una esattezza sì pontuale e senza equivoci né rigiri, che mi vidi tutto ad un tratto aperta la mente per intendere tutti li enigmi e parabole degli autori stampati. Vi si rendea ragione di tutto, tutto era munito di avvertimenti sanissimi per sfuggire gli accidenti e gli inganni, in guisa che non era possibile il commettere errore.
Allora intesi che opus nostrum non est sumptuosum, che non vi abbisogna che uno vase, uno furno, uno igne, che l’opera è ludus puerorum & opus mulierum, e che le tante putrefazioni, calcinazioni, cobazioni, circolazioni, sublimazioni, precipitazioni &c,, delle quali sono piene le opere de’ Filosofi, creduntur sudores artis, & sunt operationes naturae. In somma non leggevo più alcuno autore che non intendessi l’artificio con cui hanno cercato di coprir l’arte per riservarla a que’ soli che, illuminati da Dio, potessero con lo studio e con l’assidua contemplazione e confronto, discovrire la verità.
Oltre l’incoazione del primo capitolo, Lota prius conscientia tua ab omni macula peccati, alias nil boni assequeris, eravi un capitolo de Deo, in cui sui rende ragione della necessità della retta coscienza e del buon fine nell’operare con valide ragioni e con maturi argomenti, per distraere chiunque per soli fini umani volesse accignersi all’opera. Un altro capitolo De igne, in cui con vivi esempj sostiene necessario il reggimento del fuoco ne’ termini da esso prescritti. Inculca sopra tutto che non si voglia affrettare; osserva, dic’egli, le opere della natura: se l’uovo è posto ad un tenue calore durevole per longo tempo, si forma il pollo e vi s’introduce la vita, il grano del frumento gettato in terra riscaldato dal lento calore del sole, germoglia e produce un’erba vivente, ed a suo tempo la spiga; ma se tu poni l’uovo in una caldaia bollente, ed il grano fra le bragie, dando loro tutto ad un tempo quel calore che dovrebbono ricevere in lunghe giornate, ecco in essi perduta ogni speranza di vita.
Scopre finalmente tutti gli equivoci degli autori, detestandoli come cagion e dell’eccidio di tanti poveri idioti che, figurandosi d’intenderli o nel litterale o nel mistico, si struggono senza mai conseguire un principio di vera cognizione.
Non vi crediate però ch’ei scopra tutto, poiché la materia è nascosta. È vero che l’iscrizione del primo capitolo è verba septem lapidem pingunt. Vero altrettanto che dopo l’accennata premessa ci prosegue: Accipe de lapide, quem si coecus non es, vides scriptum in hoc folio, ma non v’immaginate di vedere la pietra di balzo. Vi è descritta, e le sette parole dipingono tutta l’opera e la materia assieme, e, pare incredibile, ma l’autore ha voluto lasciare nascosto qualche cosa protestandosi che lo facea perchè Dio illuminasse chi a lui fosse in piacere, per iscoprire la vera materia che pure vi sta descritta.
In fatti mi sembra un’opera di bastevole carità di far conoscere a’ ciechi la vanità delle loro fatiche e de’ loro dispendj, onde cessino da quella pazzia che li riduce in polvere e che fa loro gettare sì inutilmente il tempo in vane ricerche ed esperienze. Il far loro vedere la facilità e poco dispendio che esige l’opera basta per distoglierli dalla propria rovina.
Voi stupireste s’io vi dicessi che, a prima vista, per così dire, io toccai le traccie per rilevare le sette parole, e vidi in fatti che queste contenevano la materia e l’arte, ma restò ben più stupido il militante mio amico, che avea impiegato molti mesi per giugnervi, anche con l’ajuto del suo religioso. Quindi, quasi pentito di avermi fatto a parte di quel manuscritto, si contentò in appresso di leggerlo qual’era, senza continuare col mezzo mio la traduzione.
Non ebbe però difficoltà di lasciarmi vedere l’opera che dopo qualche mese avea intrapresa, e che dové abbandonare chiamato al campo di servigio del suo principe. Vi dirò di più, ch’egli era in altro luogo, ove l’avea riassunta, giunto a vedere il Caput Corvi, che è la negrezza primo colore, ma che credendo di aver errato, e non intendendo li termini de’ filosofi, dopo quattordici mesi di assidua assistenza l’avea abbandonata. Scopertogli poi da me il suo inganno, ricominciò da capo; quindi, distratto da’ suoi impieghi, novamente interruppe, e poco tempo dopo morì. Aspetterete forse ch’io vi descriva ciò che intesi della materia e dell’arte, ma sono 40 anni, e non ben mi sovviene. So ancora che voi non avete veruna cognizione della grand’opera, e che sola curiosità vi ha mosso a chiedermi il mio sentimento. Vi dirò solo che allora fissai esser vero che la materia non è alcuno de’ metalli, né zolfo, né allume, né vitriolo, ed essere vero quel detto de’ filosofi:
Vis facere hominem? Sume semen hominis
Vis facere lactucam? Sume semen lactucae?
Vis facere metallum? Sume semen metallicum.
Absurdum enim est, ex femine hominis quarere lactucam, ex femine lactucae quaerere hominem.
Certo è che questo seme metallico non può essere alcun metallo, perché altro è il seme, altro il corpo prodotto dal seme.
È certo altrettanto che mi ricordo aver allora compreso che molti lavoravano e aveano lavorato nella vera materia, quanto al soggetto, ma era materia non più viva ma morta, poiché, credendo che le materie fossero due, ingannati dalle dicerie degli autori, quando in fatti è una sola materia che due ne contiene, essi operavano intorno a quella che era già spoglia della seconda materia invisibile.
Mi ricordo del pari che fermai in me stesso esser vero quel datur in rerum natura corpus metallicum quoddam facilis solutionis, facilisque putrefactionis: si hoc invenisti, felix medicus eris. E so che mi avvidi che il mio amico militante avea scielta una materia troppo compatta; quindi l’operazione gli riusciva sì lunga che tardò fino al quattordicesimo mese a vedere il primo colore. In fatti mi sovviene essere questo uno degli avvertimenti del manuscritto, cioè di non abbattersi d’animo se l’opera tardava oltre il duodecimo mese, poiché ciò nascea dalla maggiore durezza della materia che talora potea protraere fino al trentesimo.
Queste ed altre ragioni che non mi sovvengono, forse più vive, ma che a voi sarebbono oscure, che allora mi fecero conoscere quella materia di somma analogia con l’oro e di simile porosità, furono quelle che mi fecero determinare per la possibilità della trasmutazione, e per la verità di questa scienza, e queste credo che bastino per giudicare codesto mio sentimento.
Mi direte perché con tante cognizioni io non mi sia accinto all’impresa; vi rispondo che la quasi assidua assistenza che esige non era compatibile col mio stato e colle mie applicazioni, e che come fui sempre persuaso che il mio amico non sarebbe giunto alla perfezione, perché operava con troppa pubblicità e con fini umani, così mai ho creduto di poter meritare dall’Altissimo codesto dono. Onde ne abbandonai talmente il pensiero che sino mi scordai le cose più essenziali, come giammai mi fossero state note.
Se dopo tutto questo voi non volete credere che la Pietra filosofale si dia, io non voglio punto affaticarmi per persuadervi, perché non me ne curo per nulla. Mi basta che non possiate giudicarmi totalmente pazzo, perché io non lo credo, e che crediate solamente ciò che è vero ch’io sono.
Vostro buon amico

SEGRETO PER FAR L’ORO, FATTO STORICO.

Mio caro Marchese,
Milano, 7 ottobre 1741.

Che cosa state mai facendo a rompervi il campo, impiegando le ore del giorno e della notte in studiare gli equivoci, le metafore e le figure de’ filosofi che hanno scritto della grand’Opera? perché faticare cotanto per conciliare fra se stesse le enigmatiche descrizioni della materia del fuoco e dell’arte? Perché consumarvi il cervello, affumicarvi gli occhi, annerirvi la faccia ed abbrustolirvi le dita fra forni, fornelli, fucine, lambicchi, matracci, recipienti, crogiuoli, tenaglie e mille altri strumenti fabbrili?
E tanto vi vuole per imparare a far l’Oro? Perdonatemi, voi siete uno sciocco; non ne sapete nulla, non vi vogliono tante fatiche, tanti studj, e tanti sudori, signor no. Io vi insegnerò il gran segreto che qui si è ultimamente pubblicato dopo esser stato molto tempo nascosto, talmente che ora sta in arbitrio di ognuno il servirsene. Sentite come è uscita al mondo questa grand’arte.
Un certo galantuomo di mediocre estrazione era da molti anni agente del nostro grande ospitale, e questo era un impiego in lui pervenuto quasi per eredità, perché in esso era succeduto a suo padre, ed entrambi lo aveano esercitato con lode e riputazione.
Visse questi molto tempo nella sua tenue figura, ma improvvisamente cominciò a vedersi in una comparsa migliore, ed a poco a poco comprar buon palagio, aver buoni cavalli, acquistar poderi, sfoggiare vestiti, adorna di gioje e circondata da’ servitori, in somma spacciarla da comodo cavaliere.
Figuratevi quanti discorsi facesse il mondo; ma tutte le ciarle svanirono tosto che da’ suoi domestici penetrarono i più curiosi che tre o quattro volte l’anno ritiravasi per una settimana in un gabinetto che tenea sempre chiuso, ed ivi con fornelli, mantice, carboni, crogiuoli e vetri operava chiuso senza essere osservato, riducendo il mercurio in oro.
Si divolgò la faccenda e, talvolta sorridendo, gli venia detto da qualcheduno che vorrebbe un poco del suo segreto, a quali discorsi egli si fingeva sempre ignaro del loro significato; ma non per questo il mondo si disingannava, né lasciava di crederlo in possesso del grande arcano, perché in fatti non si avrebbe saputo indovinare da qual altro fondo potesse ritraere modo di allargare cotanto nelle spese domestiche. E queste erano ancor poco, poiché non v’era opera pia che gli fosse ricercata, o per maritar donzelle, o per contribuire a fabbriche sacre, nelle quali non profondesse denaro, sicché si era reso gratissimo non solo a dame e cavalieri e ad ogni genere di persone, ma allo stesso cardinale arcivescovo ed al governatore.
Egli era molto dedito alla divozione, esortava sempre al bene e ne facea copiosamente egli stesso, sicché avea accesso per tutto come uomo singolare e meritevole di tutta la stima.
E come non manca mai chi dubiti il male, vi fu chi si cavò il capriccio, di quelli però che vi avevano titolo; che in ore nelle quali egli era lontano dal suo ministero, si portò ad esaminare il libro della cassa corrente dell’Ospitale, e trovò che le cose andavano pari.
Con tuttociò, fatto superiore, il marchese N. N. pensò di volere andare più avanti. Disse un giorno al nostro alchimista che disponesse le cose sue, poiché voleva fare una revisione generale del maneggio delle rendite dell’Ospitale. Rispose egli che era molto pronto, ma che lo supplicava di considerare le conseguenze.
Poco badò il marchese a questa rimostranza, onde l’agente, che pensava quale strepito potesse fare nel paese questa novità, si portò immediate dal cardinale, facendogli riflettere quanto fosse offensiva della sua esattezza una tale risoluzione, e quanto pregiudicio gliene sarebbe risultato nelle dicerie del volgo, tuttoché egli sapesse in qual stato fossero le cose sue; che bastava il dir revisione per divolgare ch’era già scoperto per un ladro, e che alcuno non vi sarebbe che non lo credesse, poiché vedea con l’ajuto di Dio per strade lecite talmente migliorato il suo stato; che però lo supplicava interporsi co’ suoi buoni uffici a dissuadere il sig. marchese da questo pensiero per non rovinarlo nell’onorifico, pronto peraltro egli a render conto privatamente di tuttociò che avesse egli richiesto senza impegnarsi in una generale revisione; che dovendo versare sopra un vasto maneggio di un lungo corso di venticinque anni, voleva tre o quattro mesi di lavoro.
Mosso il prelato da sì vive ragioni, fece chiamare il marchese e lo impegnò efficacemente a ritirarsi dalla risoluzione di questo strepitoso esame di conti; ma il marchese, che era pieno di sospetti, gli protestò che ne abbandonava l’idea per condiscendere al suo comando, ma che sua eminenza se ne sarebbe pentito, essendo egli persuaso che l’agente fosse uno scellerato.
Sostenne il cardinale che questo era un troppo sinistro concetto, constatando a lui per mille capi ch’era uomo dabbene. Tuttavolta il marchese ostinato non volle persuadersi, sostenendo sempre che l’agente fosse un briccone.
Ora sentite come si è scoperto il segreto di far l’oro, con cui si era arricchito l’agente. Un giorno capitò all’officio dell’agenzia, il dopo pranzo, un contadino per pagare una rata di affitto; ma, gli dissero i sostituti che, non essendovi il loro principale per fargli la cauzione, non potevano riscuotere. Con tuttociò il contadino, che voleva scaricarsi del denaro e tornarsene a casa, progettò che avrebbe lasciato il contante, purché gli fosse notato alla sua partita, e un’altra volta poi sarebbe ritornato a prendere la ricevuta.
Persuasi del progetto, i sostituti cercarono sopra il libro la sua partita, e, ritrovatala, gli dissero ch’egli pagava cinquanta scudi per rata. Come? Disse il contadino; io ne pago cento e cinquanta. Replicò il sostituto ch’egli vedea frequentemente le partite di debito, e de’ pagamenti a tre rate all’anno di cinquanta scudi per cadauna. Ripigliò il contadino che questo era fargli pagare cento e cinquanta scudi all’anno, quando ne pagava quattrocento cinquanta in tre rate di centocinquanta ognuna.
In questo dibattimento volle la sorte che capitò in quell’officina inaspettatamente il marchese, il quale, raccolto il motivo del contrasto e penetrando tutto l’arcano, fece tirare a basso il libro antecedente, e cercarvi la partita vecchia del contadino; ed in fatti si trovò che il suo debito era di quattrocento cinquanta scudi all’anno. Prestamente volle incontrare altre cinque o sei partite, e tutte le trovò trasportate dal libro vecchio al corrente con due terzi circa di meno di entrata. Fatta questa scoperta, esclamò il marchese: ecco il segreto di far l’oro!
Indi, fatti prendere in spalla i due libri da un facchino dell’ospitale, s’inviò voltando dal cardinale, e, rimproverandolo che già lo avea avvertito che l’agente era un briccone e che si sarebbe pentito dell’officio fattogli a suo favore, lo fece toccar con mano che il segreto di far l’oro era una solennissima ruberia.
Pianse il buon prelato per mortificazione di esser stato cagione innocente che il latrocinio proseguisse per molti mesi, ma il marchese, cui premea di fermare l’alchimista, si portò sollecito dal governatore col processo, troppo chiaro, che veniva a formarsi col confronto de’ libri; ed in momenti fu circondato il palazzo dell’alchimista da soldatesca e sbirraglia.
Fu buona sorte ch’ei si trovava fuori di città e che, divolgatosi in un istante il segreto per tutto, poté un suo amico fermarlo appena entrato in città e persuaderlo a ritirarsi in luogo sacro entro un monastero ivi vicino, mentre ritornava dalla villa in seggiuola ad un cavallo con lacché avanti.
È superfluo il dirvi che ebbe gran fatica l’amico a persuaderlo che il suo arcano era a tutti scoperto, e che se andava più oltre andava in dubitabilmente alla forca. Basta che si ritirò e che, vestito da frate, ebbe la gran sorte di sottrarsi alle ugne del boja.
In tanto si proseguisce il processo, si vendono tutti i mobili preziosi; la moglie già avvezza a vestir d’oro e d’argento e d’abbigliarsi di gran gioje, è rimasta in camicia, ed egli se n’è andato ramingo, senza poter salvar cosa alcuna degli acquisti fatti col suo segreto, e naturalmente morirà miserabile.
Si conteggia ch’egli abbia defraudato con questo bel segreto, di circa trecentomille scudi il povero ospitale, ma, procedendo, forse si scoprirà di più. Ciò che fece dubitare al marchese si fu il confrontare che, né tempi di guerra, l’ospitale alimentava cinque in seicento ammalati, ed ora con soli dugento poco più era senza denari in cassa, e pieno di debiti.
Ora avrete imparato come si faccia l’oro, e quanto a me credo che tutti i grandi avanzamenti che talora in poco tempo succedono con sorpresa nel mondo, avvengano da simili segreti, sebbene non tutti sono agenti di ospitali e di luoghi pii.
In fatti il maneggiare quello d’altri è un grande incentivo e pericolo, ed io credo che chi maneggia denaro altrui e n’esce netto, senza che nulla gli si attacchi alle dita, possegga un grado di santità.
Ciò ch’io osservo in questo accidente si è che rare volte questi segreti stanno occultati. Si veggono certe straordinarie scoperte nelle quali è visibile la mano di Dio. Sfuggito il pericolo della revisione pensata dal marchese, chi mai avrebbe potuto temere lo scoprimento? E pure osservate quello che alcuni signori di credenza moderna intitolano combinazione, e ch’io chiamo provvidenza. Bisogna che il contadino abbia affari che lo trattengono in città fino al dopo pranzo, che l’agente non vada all’officio, e che nel mentre si contrasta tra il contadino ed il sostituto, venga a capitare in ora insolita il superiore.
Per il vero, se noi volessimo seriamente riflettervi, troveressimo de’ casi quotidiani ne’ quali espressamente si manifesta che Dio non è così spensierato e indifferente sopra le umane cose, come credono molti de’ nostri settari, e come cercano empiamente di persuadere anche agli altri per diminuire il proprio rossore con la moltiplicità de’ seguaci. Voi mi chiederete con curiosità che cosa facesse mo’ l’alchimista serrato nel camerino con fornelli, crogiuoli ed altri ordigni fabbrili. Oh, qui sta una gran parte del segreto. Egli fondeva le doppie ed i zecchini facendone verghe, le quali poi vendeva agli orefici o ricambiava in monete della zecca. Così, benché con discapito, sosteneva l’universale opinione ch’ei cambiasse in oro il mercurio. E non vi sembra egli un segreto particolare il nascondere con questo artificio la ruberia?
Ned io, né voi avressimo giammai saputo pensare un segreto sì bello per scapitare un dieci per cento.
Imparate dunque a farvi ricco; ma no, non imparate già, poiché non v’è ricchezza maggiore quanto l’onestà e l’esattezza. E sebbene al dì d’oggi la ricchezza si computa dalla maggior parte del mondo per una felicità e si procura, se non col segreto dell’agente, con altri segreti che la maggior parte chiama d’industria, benché sian di rapina, io però crederò sempre d’esser ricco, qualora non avrò cosa alcuna di quello d’altri.
Oh se io volessi tingere la penna in questo nerissimo in chiostro, vorrei farvi vedere una quantità di ladri che passano per uomini dabbene, molti de’ quali non credono nemmeno di esservi sebbene lo fanno.
Lasciamo stare questo tasto di suono troppo alto ed acuto, e studiamoci di dar bene la tortura a’ nostri affari da giudici senza passione; e voi ricordatevi sovente ch’io sono daddovero
Vostro buon servitore e amico.


INFLUSSI DELLE STELLE

Aquisgrana, 3 agosto 1740
Mio Signore,

Voi volete scherzar meco in ricercarmi ciò ch’io sento intorno alle influenze degli Astri. Siccome al presente tutto il Mondo è molto disingannato in questo genere di cose, così, dite pur il vero, vi è venuto in capo di scoprire se fra gli altri pregiudicj della mia fantasia stravagante vi si trovasse anche qualche ramo di quella infermità di mente che chiamasi Astrologia.
Sappiate adunque che quanto io ho lasciato volentieri le redini al mio capriccio per vagare in ogni genere di cose litterarie e meccaniche, succhiando come l’ape un sorso da un fiore, un altro da una foglia, per comporre un impasto non della dolcezza del miele, ma di varj sughi e sapori, misto di acido, di salso, di dolce, di amaro e di acre, altrettanto poi sono stato alienissimo dall’applicare a questo studio, nemmeno col pensiero. Ho pensato che il cielo sia un libro in cui basta che l’uomo contempli la bellezza de’ caratteri, senza che s’affatichi ad indovinare il loro significato.
Non già ch’io creda fermamente, come molti con ostinazione si sono fissati, che le stelle non possano avere qualche influenza sopra le cose terrene, io ne sono anzi convinto. Sono poi del pari d’opinione che tutte le industrie usate dalla Creazione in qua da quanti si sono applicati ad intendere quelle cifre luminose per dedurne la significazione de’ futuri eventi, abbino profittato sì poco, che siano giunti ad intendere poco più del nulla.
Il voler sostenere che gli aspetti delle figure celesti nulla influiscano sopra di noi, sarebbe un voler pugnare contro il fatto. Abbiamo tante riprove degli effetti della Luna sopra de’ nostri corpi, sopra gli animali e sopra de’ vegetabili, che riesce innegabile codesta operazione ed influenza del più vicino pianeta. Le osservazioni degli agricoltori a luna vecchia e luna nuova, o sia a luna crescente o mancante, sono tali e sì evidenti che non occorre rivocarle in dubbio. Quelle delle ostetrici sopra le gravidanze e sopra ai parti delle donne, e de’ villici sopra quelli degli animali, sono altrettanti antichissime e quotidiane testimonianze di questa verità.
Ma due cose possono convincere i più ostinati, l’una le regole costanti delle femmine, l’altra una manuale sperienza che può farsi da ogni zotico. Circa la prima è notissimo che in ogni luna, al prefisso giorno, queste regole compariscono, né mai succede loro ritardo senza turbamento di sua salute.
Quanto alla seconda, prendete una guastada di vetro ripiena d’acqua, con entrovi una parte di cenere ben cotta, di sarmenti di vite, e lasciatela in riposo in vicinanza del fare della luna, o sia della congiunzione della luna col sole; nel punto stesso di questa congiunzione vedrete muoversi dalla cenere ed innalzarsi alcune bolle per d’acqua, senza che alcuno la tocchi, e così qualche piccola porzione di cenere.
Questi due fatti elidono l’obbiezione degli ostinati che li raggi de’ pianeti per la loro distanza nulla possano operare sopra la terra, e, per conseguenza, che niente vagliano ad influire sopra di noi.
Io calcolo la luna, secondo le osservazioni del Cassini (11), lontana da noi, nel suo perigeo, o maggiore vicinanza alla terra, 185.000 miglia italiane all’incirca. E pure, nel momento stesso della congiunzione de’ due pianeti, succede l’intorbidamento visibile dell’acqua, o sia moto della cenere con varie bolle che sorgono senza né moto né calore che ecciti la commozione.
Questi effetti certamente non possono attribuirsi ai raggi del pianeta, perché succedono senza che il pianeta vegga l’oggetto sopra di cui agisce, perché talora sarà sotto l’orizzonte, e talora saranno gli oggetti stessi fuori di sua veduta, oltre la confusione de’ suoi raggi coi raggi solari, che sono molto più efficaci.
Ma qual cosa più costante del moti del mare corrispondenti, col flusso e riflusso, alle diverse positure della luna nel cielo? La cosa è talmento liquidata che non v’è nocchiero che non sappia fino a qual punto duri il flusso e riflusso, qualora esamina le diverse situazioni di quel pianeta.
Potrei addurre moltissime altre osservazioni de’ pescatori intorno a’ pesci degli ortolani e giardinieri intorno alle piante, agli erbaggi, alle sementi ed a’ fiori, e de’ medici intorno alle infermità, ma, a credere mio, bastano le tre allegate per poter costantemente decidere che la luna influisce.
Or se influisce la luna, e perché non potiamo noi supporre egualmente che influiscano li altri pianeti e le stelle? È vero che la distanza di queste è senza comparazione maggiore di quella della luna, ma qualora noi esaminiamo li fatti che di sopra vi ho esposti, noi intendiamo tosto che gli effetti della luna sopra le cose terrene non nascono né da pressione né da irradiazione, ma da una virtù e corrispondenza fino ad ora non intesa da noi, e che secondo tutte l’apparenze non giugneremo giammai ad intendere. Per l’altra parte è chiaro che codesta distanza non toglie la corrispondenza su l’azione presentanea del pianeta, poiché nel punto stesso della congiunzione succede la commozione della cenere nell’acqua.
La distanza della luna non è sì poca che possa ammettere un pronto passaggio della luna a noi di pressione o di altra locale virtù impellente; le dovesse attribuirsi la commozione a contatto di tale virtù che dovesse partire dalla luna nel punto stesso della congiunzione, qualora passasse con uguale celerità a quella della palla espulsa dal cannone, dovrebbe impiegare più di venti giorni per giungere a noi. Non basta; la sua diffusione dovrebbe essere sì vasta quanto vasta è la terra, poiché deve egualmente agire sopra l’uno e l’altro emisfero, e sopra tutti li corpi ne’ quali si vede influire.
Lo stesso discorso appresso a poco si può fare dell’irradiazione, benché questa possa operare con più prontezza, ma noi daremo nella visione, qualora vorremo spiegare gli effetti di questi raggj. Oltre che i raggi nulla possono essere di più di una partecipazione del soggetto alla nostra vita, sicché ci rendano testimonianza indubitabile del soggetto medesimo, si aggiunge che partendo i raggi a linea retta, non possano agire sopra un oggetto intermediato da un tetto, da un monte o da un muro, e meno qualora sono i pianeti tramontati dall’orizzonte respettivo degli oggetti sopra de’ quali agiscono.
Quanto perciò è necessario accordare l’influenza delle stelle, altrettanto conviene confessare di non intendere qual sia la forza e quale l’azione dell’astro che produce i troppo visibili effetti. Finalmente non sarà questa sola cosa in cui dobbiamo chiamarci perduti e confessarci ignoranti.
Che se non è possibile intendere il modo di agire delle influenze, quantunque sia assai facile il comprendere gli effetti delle cose senza intenderne le cause effettrici, o l’azione delle cause per produrre gli effetti, io ho ragionevole motivo di ascrivere nel numero degli impossibili anche l’intendere i veri effetti degli astri sopra le cose sublunari.
Sono secoli che gli astrologhi versano in questo studio: tutti professano di predire gli accidenti delle stagioni, ma se non succede che colpiscano in qualche cosa per indovinemento, eglino colla loro sola discordanza fra se stessi mostrano che lavorano a caso, o che le loro pretese regole sono fallaci.
Geminiano Montanari, memorabile professore di Meteore nello studio do Padova, si è segnalato in questo proposito nel suo libro intitolato Astrologia convinta di falso, dove con fisiche dimostrazioni prova impossibile che coll’esame delle stelle si possa cosa alcuna predire intorno alle sorti degli uomini o degli accidenti del mondo. Ma quello che è singolare si è lo scoprimento ch’ei fa del modo con cui faceasi allora la composizione del Frugnuolo, almanacco che ancora già 50 anni era in voga per le sue pretese predizioni.
Udite e stupite. In fine di questo suo libro ei fa la narrazione che, unitisi in un certo incontro esso con altri quattro qualificati soggetti, che poi si accrebbero fino a deciotto, deliberarono di comporre questo almanacco in questo modo. Ognuno scrivea separatamente a capriccio gli accidenti della stagione per ogni quarto di luna, così intorno alle malattie, alle cose del mare, delle guerre, degli affari politici, degli affari comuni. Indi, a sorte, il numero che sortiva indicava il pronostico che si scrivea nell’almanacco, e con ciò anticipatamente si preparavano li pronostici un anno per l’altro. Da ciò deducete voi qual fede si debba alle astrologiche predizioni.
Vi sono però alcuni giorni fra l’anno che chiamansi giudiziali o critici, altri ne’ quali indubitabilmente succedono tempi burrascosi che i nostri marinaj chiamano punto di stella, e queste cose del pari indicano vere le influenze degli astri; ma fuori di queste, tutte le predizioni sono arbitrarie o erronee.
Meno attendibili poi sono le altre predizioni intorno agli umani eventi. Il pretendere di prevedere gli accidenti della vita degli uomini col riferirli agli influssi delle stelle, è una presunzione troppo inoltrata. La scienza delle cose future Dio l’ha riserbata a se stesso, e le regole dell’astrologia sono state da dotti bastevolmente dimostrate fallaci, come appoggiate a principj totalmente ideati, che non hanno veruna dimostrazione.
Con tutto questo confessar conviensi che qualche cosa con quest’arte divinatoria è stato indovinato. Un caso ch’io voglio descrivervi dimostra che qualche cosa pure è stata ritrovata, ma per l’altra parte fa vedere che l’umana providenza non giugne a schermire le determinazioni di Dio, nelle cui mani sta la vita e la morte.
Sono trentadue in trentatre anni che un vecchio prelato d’illibatissima vita e di mature cognizioni, mi raccontò una storia degna d’esservi scritta, mentre io mi trovava nella Dalmazia.
«Io – mi dice egli – non ho mai prestato veruna credenza all’astrologia, agli oroscopi, alle natività ed a simili fanfaluche; con tutto ciò mi è succeduto un fatto che mi ha sempre fatto restar sospeso, Saranno venti anni che capitò in questa città un uomo civile della città di Parma in Italia, dotato di moltissime cognizioni, e fra gli altri suoi studj era esperto bottanico. Ei trovò sott’acqua alla foce del fiume Salona la androsace riferita da Castor Durante, difficilissima a ritrovarsi, e che da pochi bottanici è stata veduta.
Egli era di un’indole savia e morigerata; sicché dopo aver varie volte seco lui conferito, lo pregai fermarsi appresso di me per godere la sua amena società. Questa famigliarità mi aprì la confidenza di richiedergli la cagione per cui si fosse staccato dalla propria casa. Signore, mi diss’egli, io mi sono fatto l’oroscopo ed ho rilevato che debbo essere ammazzato da mio fratello, però mi sono allontanato da lui per tre anni, avendo calcolato il punto in cui codesta disgrazia dovrebbe succedermi. Sta scritto che Sapiens dominabitur astris, onde io ho cercato di eludere la trista influenza.
Mi posi a ridere su questa relazione, mostrando di stupirmi che un uomo illuminato potesse prestare alcuna fede a tali sciocchezze, e con lungo serio discorso gli feci comprendere quanto io considerassi debolezza, e forse irreligione, l’applicare a simili osservazioni. Anzi gli dimostrai la vanità e la fallacia di questa scienza, e che il dominio del sapiente sopra gli astri che dice la scrittura non deve già intendersi che le stelle influiscano la morte agli uomini, ed il genere della morte, e tanto meno il punto di quella. Meno doversi prendere in significato che l’uomo possa colla sua prudenza evitare quella sorte, che unicamente dipende dall’arbitrio indipendente di Dio. Bensì che il passo vuol intendersi che, supposto che le stelle influiscano agli uomini diversità d’inclinazioni e di appetiti animaleschi intorno alle cose sensibili, può l’uomo amico della sapienza, cioè della ragione e del timore di Dio, che è la vera sapienza, dominare sopra questa forza degli astri, col frenare le tumultuanti passioni e formar abiti totalmente opposti alle inclinazioni naturali.
Egli mi confessò sinceramente che niuna fede prestava a questa scienza, ma che un solo impulso di prudenza che insinua lo sfuggire li pericoli anche sognati, lo avea indotto ad allontanarsi. Continuò meco per tutto il corso del suo calcolato periglio, occupandosi tanto nello studio e nella perquisizione di varj semplici, per cui frequentemente facea piccioli viaggj sopra i monti circonvicini.
Finalmente spirato il tempo del suo computo, lasciò passare anche tre mesi, e quantunque io avrei voluto che continuasse la mia compagnia, volle partir per Italia verso la propria casa. Non passarono due mesi dopo di sua partenza che mi giunse una lettera da lui dettata e di suo pugno soscritta, in cui mi ragguagliava che le sue diligenze erano state inutili per isfuggire la morte da esso reveduta. Essergli succeduto un irritamento col proprio fratello a motivo del maneggio e rendimento di conto delle comuni entrate, e che nel caldo dell’attacco il fratello lo avea ferito con due coltellate per le quali dovea irreparabilmente morire. Che ciò dimostrava che, quantunque non avesse sgarrato negli accidenti e nella causa della sua morte, avea sgarrato nel calcolo, poiché questo non dipendeva da tempo determinato, ma da una causa che, per quanto egli avesse differito il suo ritorno, sempre portava con se stesso. E da ciò egli comprendeva sempre maggiormente che Dio è il solo dispositore della vita e della morte. Circa quindici giorni dopo mi giunse altra lettera di soggetto a me incognito che, di commissione dell’amico, mi recava la morte di esso, che non potete credere di quanto dolore mi fosse.».
Avrebbe voluto il prelato mostrarmi le due lettere, che mi disse di aver conservate, ma non si ricordava dopo tanti anni ove le avesse riposte.
In somma io sono persuaso che le stelle influiscano, e sono per l’altra parte convinto della fallacia dello studio di questi influssi. Quando anche vi fosse una scienza infallibile per intendere la forza degli influssi, siccome questi non ponno essere che leggi stabilite dal Creatore agli umani accidenti, così, nella guisa ch’egli ha promesso di salvare que’ peccatori che quantunque di sua bocca condannati alla perdizione, confidati nella misericordia, si convertiranno, egualmente può egli frenare il corso a quelle leggi che ha ordinate per le terrene vicende.
Per questo, in vece di studiare gli influssi per sfuggire le determinazioni di Dio, voglio anzi stare con Dio, e studiare di dipendere con totale rassegnazione da lui.
Se egli è il Padrone de’ buoni e de’ tristi influssi, qualora io non desideri se non ciò ch’è sua gloria, e qualora io son certo ch’ei non può mandarmi se non ciò ch’è mio utile, siano buoni o tristi gli influssi nel discorso del mondo, saranno sempre buoni nell’ordine della Provvidenza.
Mi ricordo che, mentre ero giovanetto, uno di questi professori di astrologia mi predisse che avrei fatto una vita infelice, che sarei stato soggetto a mille disavventure, e che tuttociò che avessi tentato mi sarebbe caduto a voto. Confesso che ho sofferto infinite traversie, sicché di mia vita potrei fare il soggetto di una storia galante; del pari che nelle mie intraprese ho incontrato ostacoli inauditi, ma che sono sempre con piena fiducia ricorso a chi ha distribuito gli influssi, ed ho superati gli ostacoli e le traversie, oppure ottenuto una coraggiosa indifferenza che mi ha fatto riconoscere in tutti li miei accidenti la mano benefica del Padre di tutti.
A lungo viaggio ho conosciuto, ne’ miei accidenti, non forza d’influssi, ma la mano superiore che mi guidava per farmi conoscere la caducità e miseria delle cose terrene. Se avessi avuto prosperità, forse come tanti altri mi saprei scordato del mio dovere, ed avrei perduto di vista la buona strada. Ed ecco che invece di soffrire avversa fortuna io ho anzi goduto buona ventura mercé l’influsso supremo di chi ha fatto le stelle ed a loro ha dato gli influssi.
Per conchiudere vi dirò che, senza rivolgersi ad un paese così lontano per cercar l’influenza di corpi che non sappiamo che cosa siano, sarebbe assai meglio studiare quegli influssi che abbiamo famigliari nel nostro individuo, voglio dire li moti de’ nostri affetti disordinati. Questi sono gli Astri ai quali il sapiente può dominare, queste sono le maligne influenze che abbiamo vicine, alle quali, se vogliamo, potiamo resistere. Questo è il vero studio che può guidarci una volta a saziare la nostra curiosità intorno agli influssi delle stelle, rimirandole da vicino.
Ma noi che facciamo? Appunto come quell’astrologo della favola, contempliamo le stelle per intendere quelle luminose, impercettibili cifre, e in questa contemplazione cadiamo nel precipizio che abbiamo fra i piedi, senza avvedercene.
Pensate dunque voi, se mi è mai caduto in capo di voler studiare gli influssi. Vi ho detto in questo proposito il mio sentimento, e prego la vostra saviezza uniformarvi, come mi assicura la vostra maturità, donando in seguito a me la benigna influenza del vostro amore, sicché io possa vivere, e per mia elezione, e per vostra compiacenza.
Vostro obbligato servitore e sincero amico.

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NOTE:

(1) Nelle edizioni posteriori a quella del 1747 la finzione letteraria del Conte Pupieni decade, ed al nom de plume di Agostino Santo Pupieni è aggiunto “o sia dell’Avvocato Giusepp-Antonio Costantini”.


(2) Si Veda la Risposta a parecchi non molto giusti sentimenti espressi nelle sue lettere critiche, giocose ec. Dal Conte Agostino Santi Pupieni o sia dall’avvocato Giuseppe Antonio Costantini, con l’aggiunta di una lettera ad un amigo sopra la stessa materia (In Venezia: Appresso Tommaso Bettinelli, 1753) oppure le Osservazioni contro-critiche di Antonio Bianchi sovra un trattato Della commedia italiana e delle sue regole, ed attinenze. Dato nuovamente in luce dall’autore delle lettere critiche… (Venezia 1752) che ispirarono al Pupieni, in risposta la Lettera apologetica dell’autore delle Lettere critiche scritta in risposta all’illustrissimo signore N.N. sopra il libretto intitolato Osservazioni contro-critiche di Antonio Bianchi sopra un trattato della Commedia umana dell’antedetto autore (Venezia 1752). Lo Zaccaria nella sua Storia letteraria d’Italia (Venezia 1753, vol. V, p. 664) riporta anche un altro libretto critico riferito alle lettere del Costantini, le Lettere contro-critiche scritte dal suo ritiro da Godefrisio Toante ad un amico in città. Consecrate a sua eccellenza la nobil donna Cecilia Grimani Calergi procuratessa Sagredo (Venezia 1751). Ancora, tra i volumi critici suscitati dalla Lettere, sono da annoverarsi i tre tomi delle Considerazioni critiche di Damasifro Aptesto, sopra la lettere critiche, giocose e morali … Del conte Agostino Santi Pupieni, o sia dell’avvocato Giuseppe Antonio Costantini … (In Foligno: per Francesco Fofi, e compagno. Stamp. del S. Uffizio di Spoleti, 1755-1757), scritte sotto lo pseudonimo di Damasifro Aptesto, secondo il Melzi (Dizionario di opere anonime e pseudonime, tomo I, Milano 1848, p. 273), dal padre cappuccino Vincenzo da S. Eraclio.

(3) G. Baretti, La Frusta letteraria, vol. II, Soc. Tipograf. De’ classici italiani, 1838, pp. 246-247.

(4) Idem, pp. 329-330

(5) «… In somma la cabala non è che una solennissima ciurmeria, ed è una sciocca semplicità di quelli che vi prestano fede…», La Cabala, in Lettere cit., tomo 6 p. 11 dell’edizione del 1780. «… Sicché la cabala o è un giuoco di numeri e di lettere per ricavare una risposta fallace o che colpisce a caso, come indovina talora chi proferisce opinione senza pensarvi, oppure è un’ opera superstiziosa con patto implicito. La prima non merita l’attenzione di un uomo savio che non vuol perdere il tempo in cose inutili e che non vuol ingannare il mondo col farsi credere uomo singolare perché possessore di un arcano che divinizza. La seconda, se v’è, merita detestazione da chi non vuole ricorrere al diavolo per risarcirsi a dispetto di Dio di quella privazione della prescienza delle cose future ch’egli ha voluto che sia parte della nostra miseria…». Idem, p. 12.

(6) Influssi delle stelle, alle pgg. 207 e sgg. dell’edizione del 1780 (ma presente già nel secondo tomo dell’edizione dle 1747). Il Costantini si dimostra lettore dell’Astrologia convinta di falso (1684) di Geminiano Montanari. Il Montanari, del resto, nel 1694, aveva scritto un’opera sulla bisciabuova o vortice, che doveva esser stata una delle letture necessarie al Costantini per la sua opera sullo stesso argomento

(7) «… Quanto perciò è necessario accordare l’influenza delle stelle, altrettanto convien confessare di non intendere quale sia la forza e quale l’azione dell’astro che produce i troppo visibili effetti. Finalmente non sarà questa sola cosa in cui dobbiamo chiamarci perduti e confessarci ignoranti. … Sono secoli che gli astrologhi versano in questo studio: tutti professano di predire gli accidenti delle stagioni, ma se non succede che colpiscano in qualche cosa per indovinamento, eglino colla loro sola discordanza fra se stessi mostrano che lavorano a caso, o che le loro pretese regole sono fallaci…» Influssi delle stelle cit., pp. 210-211.

(8) La Fenice, rivista mensile di studi esoterici, n° 1, settembre 1949, pp. 22-24. La rivista era espressione della Fratellanza Terapeutico-Magica di Miriam, fondata dal Kremmerz.

(9) Theobald De Hoghelande, De alchemiæ difficultatibus Theobaldi de Hoghelande Mittelburgensis liber, Henricum Falckenburg, Colonia, 1594, poi inserito nel primo vol. del Theatrum Chemicum dello Zetner (1602).

(10) E’ evidentemente l’alchimista veneziano del XVI secolo autore del Laurentij Venturae Veneti, artium et medicinae doct. De ratione conficiendi lapidis philosophici, liber unus. Ad Othonem Henricum principem Palatinum. Huic accesserunt eiusdem argumenti Ioan. Garlandij Angli liber vnus. Et ex Speculo magno Vincentij libri duo (Basileae, 1571), riedito nel 1602 e poi inserito nel secondo vol. del Theatrum Chemicum dello Zetner (1602).

(11) Qui Costantini cita probabilmente di Giovanni Domenico Cassini (Perinaldo, 8 giugno 1625 – Parigi, 14 settembre 1712), padre Jacques Cassini (Parigi, 18 febbraio 1677 – Thury-sous-Clermont, 16 aprile 1756), anche lui celebre astronomo francese. Gli studi di Giovanni Domenico sulla mappatura lunare, sul moto del satellite e sulle attrazioni mareali tra pianeti e satelliti erano già notissimi al tempo delle Lettere.