Pagina on-Line dal 07/04/2012

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Massimo Marra © – Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

Prima pubblicazione in Anthropos e Iatria, anno IV, n°1, Gennaio-Marzo 2000,

Una bellissima tavola tratta dal Dell’Elixir Vitae di Fra Donato D’Eremita da Roccadevandro (XVII sec.); il disegno è probabilmente opera dallo stesso autore

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Tra tutti i pesci della tradizione napoletana, il più sfortunato è senz’altro ‘O Guarracino, attore forse non protagonista di gustose zuppe di pesce, ma attore senz’altro protagonista in una delle tarantelle più popolari della tradizione napoletana. Nella canzone del guarracino, nota in un notevole numero di varianti, il pesce è innamorato della sardella, ma l’amore è, di versione in versione, ostacolato da un altro pesce, e la canzone culmina sempre in una grande battaglia che coinvolge tutti i pesci del mare, divisi in due partiti opposti. Nella versione che ci interessa in questa sede il Guarracino sta per sposare la Sardella, ma ad un tratto la sposa ha un malore, e nella preoccupazione generale…

È cosa ‘e niente strillaje ‘a murena

Chella ‘a sposa già era prena’.

‘A chi è figlio strillaje ‘o guarracino

m’ha fatto curnuto ‘e Santu Martino…[1]

L’imputato, accusato dallo Sparaglione, altro pesce attore della vicenda, pare essere �o Capitone. Ovviamente, il tutto finisce nella solita rissa tra i familiari e gli amici della sposa e gli amici del Guarracino. Alla fine, il bilancio della battaglia è desolante:

Cinquanta muorte e duicient’ ferite

E n’ati vinte ‘mpericule ‘e vita

E ‘ll’autri jettero add’ò speziale

A piglià l’Acqua Turriacale [2]

Per inciso, nel parapiglia, la sposa partorisce, ed a sorpresa partorisce uno scunciglio scagionando il malcapitato capitone…

Ma ora lasciamo le vicende di amore e di guerra della saga del guarracino per occuparci della cura miracolosa che abbiamo visto prontamente prendere dallo speziale sottomarino, l’acqua turriacale, il medicamento che, senza alcun dubbio, possiamo definire come il più popolare nelle terre meridionali nel periodo che va tra XV e XVIII secolo.

L’acqua turriacale del guarracino, infatti, non è altro che acqua theriacale, ossia una bevanda medicinale contenente [3] quella Theriaca di Andromaco il Vecchio che costituiva la più celebre e credibile approssimazione storica del mito della panacea universale, il pharmaco catholico della tradizione alchimistica.

L’accostamento non è certamente nostro: Martin Ruland, nel Lexicon Alchemiae del 1612 alla voce theriaca, non manca di accostare il vocabolo alla stessa pietra filosofale [4]. Il più recente Pernety, nel Dizionario Mito Ermetico (1758) si diffonde profusamente nel confermare la valenza simbolica dell’antico polifarmaco: «… Alcuni filosofi hanno dato questo nome al corpo fisso del magistero, per opposizione al nome “veleno” che altri hanno dato allo stesso corpo; infatti, se esso non è unito al mercurio volatile nell’ora giusta della nascita dell’acqua mercuriale, quel corpo guasta tutta l’Opera, mentre, se è unito al tempo giusto, lo perfeziona. Ma il senso più usato in cui bisogna intendere il termine teriaca, è che i Filosofi hanno chiamato così il loro Magistero perfetto, perché esso è il rimedio più eccellente della Natura e dell’Arte, per guarire tanto i Veleni che le altre malattie del corpo umano e dei metalli.» (pag. 193 vol. 2 ).

Nel 1944, ad oltre un secolo dalla definitiva scomparsa della teriaca dalle più importanti farmacopee europee, ad opera di una curiosa figura di farmacologo-alchimista spagnolo, Antonio De Paula Novellas Y Roig, apparve a Barcellona La triaca de Andromaco, opera apologetica che si inseriva nell’esplicito programma del Novellas di rivalutazione e ritorno delle teorie ermetico-spagiriche nella farmacologia ufficiale del tempo. Per il Novellas, che, pur nella sua veste accademica di farmacologo con severa preparazione scientifica, non manca di dichiarare la sua assoluta fede nella immortalità della teriaca come simbolo più evoluto e puro dell’arte spagirica, l’antica formula è un rimedio simbolico di grande potenza. Nei tempi antichi «…si utilizzavano elementi spirituali che l’uomo d’oggi disprezza perché non conosce, e se li conoscesse, forse continuerebbe nel suo sdegno, poiché la tradizione gli sfugge e nulla vede in essa…». Per Novellas, l’efficacia del portentoso farmaco era legato all’eggregore della teriaca [5], formato ed alimentato attraverso il rito della preparazione dell’antidoto. Rotta la tradizione del rito, alla fine del XVIII secolo, l’incanto della medicina sacra era definitivamente cessato.[6]

Compresa tra mito e realtà quotidiana, tra favola popolare e simbologia esoterica, tra scienza e magia, la teriaca si ascrive così, lungo tutto l’arco della sua storia, al novero delle bevande fatate, sacre, delle misture magiche i cui effetti, di là di ogni analisi farmacologica, per l’universo mitico e magico di cui sono emanazione, ci rimarranno per sempre ignoti.

Nell’immaginario alchemico la Teriaca è dunque un alter ego dell’Elixir Vitae, del Pharmaco Catholico, della Medicina Universale, che è a sua volta precipitato archetipale dell’acqua benedetta, del Sôma del Rg-veda o dell’Haona iranico [7].

Bevande dell’immortalità, della salute eterna, simboli dell’indiamento.

Ma vediamo di immaginare la pratica correlata a questa pozione, l’universo di conoscenze empiriche cui essa rimanda, il complesso dei saperi che, nell’ambito della medicina e della farmacologia cinquecentesche la teriaca mette in gioco.

Non è nostra intenzione tratteggiare una storia, seppure in breve, di un medicamento tanto antico, longevo e dibattuto come la teriaca, né delle evoluzioni e delle diverse versioni che di essa circolavano a cavallo tra il XVI ed il XVIII secolo. Vogliamo solo, in questa sede, dare uno spaccato di come venisse usata e preparata la Teriaca a Napoli, a cavallo tra XVI e XVII secolo, in un periodo probabilmente molto vicino a quello che vissero gli anonimi autori delle strofe del Guarracino. Intorno alla teriaca, troveremo alcuni dei personaggi più importanti della cultura seicentesca napoletana, speziali, naturalisti, medici, alchimisti e filosofi.

La Teriaca di Andromaco è tratta direttamente dal corpus degli scritti di Galeno. Il De Theriaca ad Pisonem [8] è una delle parti più lette e commentate del corpus galenico nel periodo rinascimentale, insieme ad un’altra operetta sull’uso della teriaca da tempo sicuramente considerata apocrifa. Della Teriaca Galeno tratta anche nel De Antidotis. L’origine di questo farmaco, per quasi duemila anni protagonista indiscusso della farmacopea occidentale, affonda in personaggi ai confini tra il mito e la storia, secondo una narrazione tradizionale di cui riportiamo brevemente le tappe fondamentali.

Crautea era il medico di corte del grande Mitridate (133-64 A.C) re del Ponto, sovrano dal pugno di ferro e di spiccata genialità (secondo la tradizione conosceva a menadito gli oltre 20 idiomi delle popolazioni a lui sottomesse). Il re fu, certamente, tra i più temibili nemici dell’impero romano. Salito al trono nel 112, il buon Mitridate dichiarerà guerra a Roma per ben tre volte. La prima guerra mitridatica (89-85 A.C.) iniziò con una imponente avanzata del nostro, che conquistò la Grecia, l’Asia minore le isole Egee, per essere poi sonoramente sconfitto dall’esercito romano guidato da Silla. Non pago, il buon re del Ponto ci riprova tra l’83 e l’81 A.C., riportando questa volta sostanziali vittorie su Roma. È solo con la terza guerra mitridatica che Roma, conquistando addirittura il Ponto e la residenza del re, dopo una guerra decennale (tra il 74 ed il 64 A.C.) avrà finalmente ragione di questo acerrimo nemico, grazie alle forze ed all’abilità strategica del suo esercito guidato, stavolta, da Lucullo e Pompeo. Mitridate fu così costretto a riparare in Scizia.

Ad un re tanto potente da sfidare ripetutamente la forza romana, probabilmente non dovevano mancare timori e preoccupazioni. Uno di questi, sicuramente, dovette essere il timore di rimanere avvelenato ad opera di un tradimento di corte. Che il buon re non fosse un semplice paranoico, ce lo dice la storia della sua morte. Tradito dal figlio Farnace, egli decise di togliersi la vita, proposito che attuò servendosi della lama e del braccio di un suo fedele ufficiale.

Al ribelle re del Ponto, infatti, era da tempo preclusa la pur dignitosa via dell’aspide di Cleopatra e degli altri veleni, e ciò proprio in grazia dei servigi di quel Crautea di cui abbiamo sopra appena accennato.

Pressato dalle richieste del preoccupato sovrano, infatti, Crautea si era mobilitato, secondo la tradizione, alla ricerca di un rimedio sicuro contro ogni forma di avvelenamento. Il potente farmaco che era stato messo a punto, passato appunto alla storia come Mitridatium, era una formulazione complessa, composta da oltre una cinquantina di semplici.

E funzionava così bene che, come si è visto, Mitridate non poté avvelenarsi…

Da allora, i medici ed i farmacologi definiscono mitridatismo l’abitudine fisiologica ai veleni, e la conseguente neutralizzazione di ogni loro effetto deleterio. Quando Pompeo entrò nel palazzo di Mitridate, non dovette certo lasciarsi sfuggire il segreto di Crautea, che arriverà così a contatto della ricettiva medicina romana.

Un contemporaneo di Crautea, il medico di Pergamo Nicandro da Colofone, aveva inoltre composto, intorno alla prima metà del secondo sec. A. C. , due poemetti su di un suo antidoto dal nome Theriaca, e sugli antidoti ai veleni in generale. Tra i semplici elencati come utili per l’avvelenamento (Nicandro enumera circa centoventicinque erbe utili contro il morso dei serpenti, di cui buona parte si ritroverà per secoli nelle farmacopee successive) ritroviamo parte consistente di quelli usati per il mitridate.

Nel frattempo a Roma la ricetta di Crautea incontra un successo senza precedenti.

Ed incontra anche un estimatore che ha esigenze simili al re del Ponto…».

Il buon Nerone, cui la moderna storiografia tende a mitigare la sinistra fama di piromane folle, soffriva indubbiamente di grandi preoccupazioni di governo, che lo dovevano portare forse a non giudicare del tutto improbabile l’ipotesi di morire avvelenato per mezzo della sollecita mano di un cortigiano fazioso o di un servo al soldo dei non pochi nemici.

Compare qui la figura di Andromaco il Vecchio, il saggio medico dell’imperatore, che, sulla base della ricetta del mitridate, elaborò un proprio antidoto, destinato a surclassare in diffusione e fama il pur notissimo Mitridate: la nostra Theriaca di Andromaco. La teriaca, in effetti, contiene solo pochi semplici in più del Mitridate, ma la novità fondamentale introdotta da Andromaco, fu senz’altro l’adozione della carne di Vipera come principale principio attivo.

Anche Andromaco, affidò la composizione miracolosa ad un poema, che è proprio quello tramandatoci nel De Theriaca e nel De Antidotis di Galeno. Da più fonti, fino al ‘600 inoltrato, abbiamo notizia di un’altra composizione, in prosa, dovuta al figlio del medico imperiale, Andromaco il Giovane, composizione le cui piccole differenze nella presentazione della ricetta furono oggetto di glosse e discussioni. Purtroppo, però il testo di questo scritto non ci è pervenuto.

Nell’impero romano, la teriaca arrivò a suprema popolarità, e la sua formula fu affidata dagli scultori ai bronzi dei templi di Esculapio. Alcuni dei più noti medici dell’antichità scrissero della teriaca, da Xenocrate di Afrodisia (I sec. D. C.) a Plinio il Vecchio, ma senz’alcun dubbio l’attenzione maggiore la ritroviamo negli scritti di Galeno (138-201 D. C.).

La teriaca, con qualche non poco significativa variazione di composizione (ogni studioso vi aggiungeva o sostituiva qualche componente al fine di migliorarne secondo le proprie conoscenze, l’effetto, mentre ogni speziale vi toglieva o sostituiva qualche componente, al fine di migliorarne la redditività secondo le proprie finanze…) continua comunque la sua ascesa di diffusione e popolarità, attraversando indenne il medio evo nelle opere di Galeno, e giungendo in pieno XVI secolo ancora al culmine della popolarità.

A Napoli, come abbiamo visto, era così diffusa da essere regolarmente dispensata anche sott’acqua…

Se praticamente in tutta la penisola la teriaca veniva prodotta e commercializzata (ovunque con la pretesa, naturalmente, di essere la migliore e la più fedele all’originale ricetta) la teriaca senz’altro più famosa, era quella veneziana. Il motivo di tale supremazia era legato alla evidente potenza commerciale della repubblica, le cui navi solcavano i mari e visitavano i porti d’oriente ed occidente. Centro di importazione dei più esotici semplici, Venezia era il luogo dove, effettivamente, più facile doveva essere procurarsi gli ingredienti della famosa pozione.

È ovviamente certo, che, sotto la denominazione di teriaca veneziana, dovesse circolare un discreto quantitativo di teriaca che di veneziano non aveva che il nome.

Che la teriaca rappresentasse un affare di discreto valore commerciale per il governo veneziano, è testimoniato dai grandi pubblici festeggiamenti indetti (tra il XVI ed il XVII secolo) nella città in occasione della annuale fabbricazione della teriaca, festeggiamenti popolari che si affiancavano alla cerimonia ufficiale che voleva la presenza dei rappresentanti del governo cittadino, delle massime autorità sanitarie (il protomedico ed i suoi assistenti) e della corporazione degli speziali (col compito di sorvegliare la buona preparazione del composto e la eccellente qualità degli ingredienti).

Seppur senza la pompa dei festeggiamenti popolari, analoga ufficialità aveva la fabbricazione dell’antidoto in tutte le principali città italiane. La teriaca doveva essere sempre approvata dal collegio degli speziali e dal protomedico, e le fasi principali della lavorazione avvenivano sempre innanzi alle principali autorità cittadine.

La curva ascendente della diffusione della teriaca continua ininterrottamente fino ai primi decenni del XVIII secolo, per registrare l’inizio della fase ascendente intorno alla metà del secolo. Alla fine del XVIII secolo, la teriaca scompare dalle farmacopee di molte città europee, ma in Italia, ed in special modo nel meridione, la sua popolarità continuerà ancora a lungo. E’ infatti a pochi decenni dal tramonto dell’antico antidoto, che, con una tardiva presa di coscienza delle potenzialità economiche del commercio della teriaca, il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, nel 1779, impone il monopolio statale sulla preparazione dell’antidoto. L’obbiettivo dichiarato è, naturalmente, quello di proteggere dalle teriache contraffatte la salute dei cittadini, ma, sicuramente, è proprio la ancor vasta dimensione del business teriaca ad attrarre re Ferdinando.

La preparazione venne affidata in esclusiva alla Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere, e tutti gli speziali del regno furono obbligati ad acquistarne almeno mezzo libbra l’anno. Dovevano inoltre esserne sempre forniti, ed all’ispezione del Protomedico o del suo vice, ogni speziale doveva esibire, oltre al vasetto della teriaca, la ricevuta dell’acquisto annuale.

Il prezzo, fissato con intenti concorrenziali (il prezzo di mercato della teriaca veneziana era intorno ai 24 carlini) oscilla, a seconda delle quantità acquista, dai 18 ai 12 carlini (per un acquisto di almeno cinque libbre).

In effetti, nonostante il provvedimento governativo, ingenti quantità di teriaca veneziana continueranno ad essere contrabbandati nei confini del regno, nonostante i ripetuti tentativi di bloccare l’ingresso della richiestissima teriaca concorrente (che, tra le altre cose, eludeva costantemente la regia dogana) o attraverso l’inefficace meccanismo repressivo, o attraverso continue riorganizzazioni del sistema distributivo e l’imposizione di più ingenti e gravosi quantitativi minimi d’acquisto agli speziali.

Naturalmente, è perfino inutile sottolineare che assai spesso, il vaso di teriaca presente alle ispezioni delle autorità, era lo stesso per svariate spezierie, e migrava velocemente alla bisogna da una mano all’altra …

Analogamente è superfluo ipotizzare od indagare su quanti e quali stratagemmi fossero posti in essere dagli speziali del Regno nell’occultare gli indubbiamente ingenti quantitativi di teriaca veneziana o di altra provenienza che circolavano nelle loro botteghe.

L’esperimento borbonico della teriaca statale, ebbe dunque scarso successo, né le cose migliorarono quando il diritto di esclusiva sulla fabbricazione, chiusa la Reale Accademia, passò, nel 1807, per iniziativa di Giuseppe Bonaparte, al neonato Real Istituto di Incoraggiamento alle Scienze naturali di Napoli, che, attraverso varie vicissitudini, mantenne il proprio diritto fino al 1860, anno in cui, comunque, possiamo considerare già concluso il ciclo della fortuna della teriaca [9].

Ma se storicamente fallimentare fu la vendita della teriaca “Statale”, non è improbabile che tra XVI e XVIII secolo il regno di Napoli fosse ai primi posti nel consumo di teriaca veneziana, e si può essere certi che, a quest’ultima si affiancava anche quella tradizionalmente preparata in segreto dagli speziali napoletani.

Proviamo adesso a vedere, proprio attraverso l’attenta arte degli speziali napoletani, categoria potente e rispettata, quale fosse la preparazione della teriaca, quali fossero le virtù terapeutiche ad essa attribuite e le patologie di applicazione del portentoso rimedio.


Tra il XVI ed il XVII secolo (ma anche nel XVIII e XIX ) la teriaca fu oggetto di innumerevoli trattazioni a stampa, più o meno in tutta Europa, e, come vedremo, innumerevoli furono i testi a stampa nel regno di Napoli.

Tra questi, senz’altro, un’opera merita particolare attenzione: si tratta del testo di Bartolomeo MarantaDella Theriaca et del Mithridato libri due di M. Bartolomeo Maranta a M. Ferrante ImperatoNe’ quali s’insegna il vero modo di comporre i sudetti antidoti et s’esaminano con diligenza tutti i medicamenti che v’entrano. Venetia Marc’Antonio Olmo 1572.

Il venosino Bartolomeo Maranta, naturalista di grande levatura, fu allievo di Luca Ghini e si formò dunque presso il Giardino dei Semplici fondato a Pisa da Cosimo de’ Medici. Tornato a Napoli, strinse intimi rapporti di amicizia e collaborazione col naturalista e speziale napoletano Ferrante Imperato, passato alla storia delle scienze naturali per il Dell’Istoria Naturale del 1599, ristampato successivamente anche in edizione latina.



Il Frontespizio dell’opera sulla theriaca di Bartolomeo Maranta


Al sodalizio intellettuale doveva partecipare anche il giovane Colantonio Stigliola, Linceo amico del Della Porta e di Antonio Persio, addottoratosi in quegli anni in medicina presso lo studio di Salerno, ma che ben presto avrebbe abbandonato la medicina per seguire i propri interessi in campo architettonico, astronomico, fisico, filosofico, e per una fervente attività di editore.

Il Maranta, intellettuale stimato e noto, mente libera e nemico aperto di ogni pedanteria scolastica ed accademica, fu tra i sospetti di luteranesimo, e come tale (seguendo, in questo, un destino comune anche all’allievo ed amico Stigliola) fu processato dall’Inquisizione intorno al 1562 e, successivamente, assolto dopo un processo svoltosi con ben 65 deposizioni.

Nella sua attività scientifica, il Maranta fu instancabile indagatore della natura, sostituendo alla quieta ed acritica adesione alle teorie classiche, l’osservazione diretta e l’indagine sul campo, che lo portò a viaggiare per molto tempo in vasti territori della Calabria e della Puglia.

Il Della Theriaca è un’opera divulgativa, indirizzata principalmente agli speziali, frutto dichiarato della fitognostica del Maranta fusa con le conoscenze spagiriche e pratiche dello speziale Imperato, cui è dedicato il libro [10].

In effetti, l’opera si presenta strutturata come una dotta glossa ai passi di Galeno sulla teriaca, ed in appendice riporta il testo latino dell’elegia di Andromaco tratta dal De Theriaca ad Pisonem [11].

La prima puntualizzazione del Maranta, a proposito del miracoloso antidoto, è di ordine filologico: la comune etimologia dal greco therion (serpente) viene abitualmente attribuita alla teriaca a partire dalla presenza, tra i suoi ingredienti, della carne di vipera. In realtà, dice il Maranta, la denominazione preesiste all’introduzione della carne di vipera nell’antidoto, che deve il suo nome alla straordinaria efficacia che da sempre ha dimostrato (anche prima che Andromaco vi introducesse la carne di vipera) per curare i morsi di tutte le serpi. Se vi fosse stato specifico riferimento alla vipera, che è una particolare specie di serpente, il vocabolo greco appropriato sarebbe stato echidna, e non certo Therion.

In seguito, inizia la trattazione vera e propria.

La Teriaca è composta di un gran numero di medicamenti. La numerosa schiera di semplici ed ingredienti, obbedisce infatti al principio con cui gli antichi medici «…volsero, con la moltitudine di medicamenti, provvedere a tutte le nature e proprietà dei corpi humani: acciò se con un controveneno a qualche particolar complessione non può giovarsi, si giovi con l’altro o con molti altri…». La complessità della formula, quindi, più che alla varietà delle applicazioni, sembra essere in relazione con la varietà delle complessioni e delle caratteristiche dei pazienti.

Alla base del funzionamento della theriaca (nella sua originaria funzione di antidoto) il Maranta pone una particolare applicazione del principio dei simili:

«….Essendo dunque già nel corpo humano entrato il veneno… hanno stimato i medici rationali che, mettendovi dentro un altro veneno, facilmente si smoverebbe per andare a trovare il suo simile. Ma perché il moversi solo non basta a salvare l’huomo, han posto tanti contraveneni insieme con questo veneno; acciò, venendo quello del corpo a trovare l’altro, fusse dapoi domato et vinto et discacciato fuori: perché mettendo il contraveneno solo, farebbe per un certo spacio concentrare più addentro il veneno per fugire il contrario et intanto potrebbe, prima che da davero giugnesse la forza dell’antidoto, ammazzare l’huomo; per far dunque che il veneno che sta nel corpo più facilmente e con più celerità sia tocco dal contraveneno, e perché quello non sia tanto resistente al nemico, vi ha posto uno come per ispia, il quale, con destro modo lo lievi dalla sua fortezza e a sé lo chiami per tradirlo poi con la imboscata de’ medicamenti, nemici mortali del veneno…».

In questo modo la funzione della carne di vipera, simile al veleno che intossica il malato, viene ad assumere nel contempo una valenza veicolante (peraltro assai moderna).

L’obiezione che vorrebbe sottolineare ipoteticamente la possibilità di una pericolosa azione sinergica dei due veleni viene prontamente affrontata in un brano immediatamente seguente:

«…Ma perché era pericoloso mettere un altro veneno nel corpo per discacciare il primo (percioché poteva accadere che mentre si cerca cavarne uno ve ne restano due) fu provvisto che potesse questo veneno, cioè le carni viperine, senza nuocere al corpo, esser preso per di dentro, e questo con la preparatione che si fa nel cuocere la vipera con quello studio che diremo, e anco per esser corretta da tante medicine…».

In realtà, come si vedrà più innanzi, alle vipere in questione, nel corso della preparazione si mozzavano coda e testa quattro dita sotto l’attaccatura del capo, e, dunque, indipendentemente da ogni preparazione, la zona delle ghiandole velenose veniva dunque comunque scartata.

Rimane però il mistero di una prescrizione tradizionale assai precisa, che, tra le varie specie di rettili velenosi, prescrive proprio la vipera come ingrediente d’elezione per la fabbricazione della teriaca. A questo proposito il Maranta ci informa che: «… fu la mente di Andromaco in scegliere più tosto le vipere che altro animal venenoso, fondata sopra grandissima ragione, perché queste rispetto à gli altri serpenti hanno virtù manco mortifera. Laquale poi, per la preparatione e correttione resta quasi a niente…».

Dunque, gli altri serpenti velenosi sarebbero stati troppo letali. E l’esempio portato è subito il basilisco, che è così venefico da avvelenare col solo suo sibilo, ed «… anzi uccide qual si voglia animale che, in qualunque guisa, ancorché il morto, il toccasse…»..

La vipera dunque, sembra essere l’animale meno pericoloso sia per l’ammalato che per lo speziale, che deve maneggiare necessariamente i serpenti per la preparazione dell’antidoto.

A questo punto, giocoforza, dobbiamo passare alla composizione del polifarmaco, che abbiamo ricopiato dal testo del Maranta nel riquadro uno. Evidenti ragioni di spazio ci sconsigliano in questa sede dall’intraprendere l’impresa di identificare i nomi moderni e le proprietà farmacologiche degli oltre sessanta componenti. Lasciamo volentieri ad altre più qualificate mani ed al lettore volenteroso ogni approfondimento su quest’aspetto della teriaca.

Il Maranta, tuttavia, non manca di eseguire una breve disamina di ognuno degli ingredienti, delle sue proprietà, delle diverse qualità disponibili, del momento e del luogo migliori per la raccolta o l’acquisto. L’attenzione per la qualità dei componenti era del resto una preoccupazione in tutta la medicina antica e rinascimentale, in cui assai indicativi erano i criteri di standardizzazione qualitativa, ed in cui la fantasia e le esigenze immediate della spetieria troppo spesso, pare, sostituissero le regole di buona preparazione.

Intorno al riconoscimento dei semplici elencati nel De Theriaca di Galeno, ed intorno alla qualità e tipologia dei diversi ingredienti, più di una polemica fu instaurata tra medici, speziali e naturalisti tra il XVI ed il XVII secolo [12].

Nel dettare le norme per la scelta degli ingredienti, il Della Theriaca comincia dalle radici: «… ferme, di scorza piana e senza grinze (percioché le rugose danno inditio di svanimento… e che ritenghino il suo colore». Analoghi consigli sono dispensati per la scelta degli altri tipi di ingredienti vegetali: «… Gli frutti, i germogli e virgulti scelgansi vivi, di buona sustanzia, e che nel rompersi non scrollano una certa polvere; siano numerosi, eguali, perché quando sono mescolati di grandi e di piccoli hanno qualche mancamento… Debbono i semi esser di scorza limpia, non rugosa: i fori vegeti, e che serbino il suo colore così secchi come quando sono verdi; i sughi e le lacrime e gli altri liquori non arsicci o invecchiati, e che siano al possibile vigorosi del proprio odore e sapore, il che anco di tutti gli altri detti di sopra si deve intendere…».

Doveva essere assai difficile, e probabilmente dispendioso, per lo speziale provetto che volesse seguire alla lettera il dettame della esatta composizione della teriaca, reperire gli oltre sessanta ingredienti necessari. Non è un caso che la preparazione della teriaca fosse un evento raro ed atteso. L’Imperato, nello spazio di dodici anni, narra il Maranta, l’ha preparata solo tre volte. E noi sappiamo quale vasta rete di contatti internazionali intessessero l’Imperato ed il figlio Francesco, nel procurarsi reperti per il proprio famoso museo ed esemplari per il proprio erbario, contatti che, fuor di ogni dubbio, dovevano favorire non poco l’Imperato nel reperimento di piante e semi rari. [13]

D’altro canto, innumerevoli sono le varianti reperibili nella formulazione della teriaca, ed era comunemente ammessa qualche deroga nella sostituzione di alcuni degli ingredienti meno importanti.

Lo stesso attento e precisissimo Maranta ammette: «… ma in tanto numero di semplici che compongono questo antidoto, il metterne o cinque o sei o pochi più diversi da quelli che vi devono stare, ancora che la facciano un poco variata, pure si può comportare. Ma come poi si viene a quindeci e a venti, tanto meno valorosa sarà quanto maggiore sarà il numero. Anzi, per dir meglio, non sarà più theriaca ma un’altra cosa…».

Il Maranta è prodigo di particolari nella descrizione dei semi, delle foglie, dei frutti, ed in questo vediamo la statura del grande naturalista, la forza dell’osservazione diretta. Quella osservazione che anche l’amico e collaboratore Imperato, ammirato dal Mattioli e dal Cesi, poneva innanzi tutto.

Della complessa formulazione della teriaca, dunque, in questa sede, ci occuperemo solo degli ingredienti principali, ossia di quelli della prima partizione.

Anzitutto, l’attenzione cade su di un vocabolo più volte ripetuto nel corso della ricetta: i trochisci, forma farmaceutica oggi sostituita da polveri o compresse solubili e gel orali.

trochisci non sono altro che paste variamente ottenute secondo arte e ridotte in forma di pastelli, successivamente seccati e variamente conservati.

Per chi, colto da irrefrenabile desiderio di sperimentazione, volesse cimentarsi nella preparazione dei trochisci, riportiamo una composizione per quelli hedicroi, la cui specifica funzione, a dispetto dell’apparente complicazione della formula, è esclusivamente aromatica…».

Prendi asphalto, asato, maro, amaraco: di ciascuno dramme 2

Calamo odorato, schinantho, costo, phu pontico, cinnamomo, opobalsamo e xilobalsamo di ciascuno dramme 3

Folio, nardo indico, cassia, mirrha, zafferano di ciascuno dramme 6

Amomo dramme 12

Mastice dramme 1

Si pesti tutto finemente in un mortaio, mescolandovi in seguito, poco a poco, del vino Falerno, fino a formare una pasta consistente da cui formare poi i pastelli. Il Lessico del Capello, dopo aver ribadito la funzione essenzialmente aromatica dei trochisci hedicroi, non manca di specificare che essi, già al tempo, vengono usati solo per la preparazione della teriaca. Più semplicemente, i trochisci di scilla (che, secondo il Capello, analogamente a quelli hedicroi vengono ormai usati solo nella teriaca) si ottengono attraverso la prolungata bollitura della pianta ed il successivo pestaggio in mortaio con farina bianchissima di eruo, fino ad ottenere la pasta modellabile nei pastelli.

Particolarmente affascinante e complesso, invece, è il processo di preparazione dei trochisci di vipera, considerati fondamentale ed insostituibile principio attivo della formulazione di Andromaco.

Anzitutto, in rapporto alla vipera, il primo problema è come s’habbia a scegliere la buona per la theriaca, e la cosa, a sentire il Maranta e l’Imperato non è delle più facili:

«… Si devono dunque pigliare le vipere non in qual si voglia tempo dell’anno, non a mezza estate, come fanno certi, percioché la theriaca fatta di simili vipere genera a chi la piglia molta sete. Neanche subito ch’escono dalle loro caverne (dove per tutto il tempo freddo stanno nascoste e quasi stupide appena si muovono) perciò che mentre stanno sotto terra ritengono dentro di loro tutta quella più pestifera e nocevole qualità ch’in altri tempi suole eshalare; e di più sono elleno più fredde e più secche ed estenuate che mai. Ma si debbono lasciare per alcun tempo doppo la loro uscita andare a spasso, godendosi liberamente dell’aria lungo tempo non veduto da loro, e far che mangino de’ cibi à loro consueti… Et sopra tutto ne ammonisce Galeno al libro dell’uso della Theriaca a Panfiliano essere migliori quelle che poco prima sono prese, che non le ritenute lungo tempo, perciò che queste sono più venenose… Talmente che il tempo più conveniente di prenderle sarà verso la fine della Primavera, senza toccar punto il principio dell’Estate… ».

Eccetto, naturalmente se l’estate risulta eccezionalmente tardiva o la primavera anormalmente fredda.

Le vipere migliori sono quelle screziate di giallo, veloci e scattanti, vitali, con gli occhi tinti di rosso e la guatatura bieca, torva e superba.

Vanno evitate, perché prive di ogni virtù benefica, le vipere incinte…

Tuttavia, le femmine sono migliori dei maschi. Qualcuno dei lettori starà istintivamente pensando al mare di difficoltà potenziali del buon padre di famiglia che tenti (durante una movimentata e perigliosa cattura) di identificare e distinguere una vipera maschio da una vipera femmina… Niente paura, poiché, indipendentemente da ogni considerazione anatomica e morfologica, per quanto riguarda le femmine «… si conoscono, quelle nell’andar loro più saldo e più quieto, ed ancora à i denti canini, havendone il maschio se non due, e la femmina più, come scrisse Nicandro…».

Prese le vipere giuste, bisogna tagliare coda e testa, per lo spazio di quattro dita da ogni lato, o di meno se si tratta di vipere molto piccole. Fatto ciò, si puliscono i tronchi di vipera dalle interiora, li si libera dalla pelle, e li si bolle in acqua e sale con ramoscelli di anetho verde. Naturalmente, se la vipera è stata presa per cause di forza maggiore in estate, oppure in prossimità di luoghi marini o particolarmente secchi, allora si dovrà omettere il sale, ad evitare l’inconveniente della sete.

I tronchi «… si devono cuocere infino a tanto che agevolmente la carne si spicchi dalla spina… avvertendo molto bene che qualche piccola spina non resti alla carne attaccata…». La cottura sarà più breve per le vipere giovani e più lunga per le più grandi, ma si dovrà comunque far attenzione ad interrompere la bollitura prima che si disfacciano le carni dei tronchetti.

In seguito:

«… presa la carne sola si pesterà in un mortaro diligentemente, aggiungendovi un poco di pane ben cotto e ben fermentato di purissima e fresca farina fatto, del quale non si può dare misura certa…».

Il pane dovrà essere ben secco e finemente pestato separatamente dalla carne, per poi essere aggiunto e mescolato a questa. A questo punto:

«…si piglia questa pasta e se ne fanno trochisci, o vogliamo dire rotole, le quali hanno a essere sottilissime…». L’ultima fase della lavorazione è l’essiccamento graduale e lento dei trochisci al sole.

L’ideale, una volta approntati i trochisci di vipera, sarebbe procedere subito alla preparazione della theriaca, ma essi possono comunque essere agevolmente conservati, liberandoli periodicamente dalle muffe, in appositi vasi di vetro, stagno, oro o argento, opportunamente unti di opobalsamo.

Altro ingrediente fondamentale (uno dei pochi nella teriaca ad avere una forte attività farmacologica) è, ovviamente, l’oppio.

La teriaca, ha una minor concentrazione d’oppio del mitridate, ma non si deve pensare che, per questo, il ruolo della droga sia minore che in altre preparazioni, poiché infatti l’oppio «… è il più importante medicamento che entri nella theriaca, e che ne dovrà stare in cervello più di tutti gli altri…».

Il Maranta si scaglia contro i vari surrogati dell’oppio, e specifica che il vero oppio, estratto dalle incisioni nella pianta e successivamente preparato in pastelli, è quello «… denso, grave, amaro al gusto, sonnifero nell’odorarlo, agevole da risolvere con acqua, liscio, bianco, non ruvido, non granelloso… ». L’oppio nostrano, proveniente dalla terra di Puglia, è buono quanto quello orientale.

Vediamo ora di concentrarci brevemente sulla pratica di laboratorio per la fabbricazione della teriaca.

La prima fase è quella della triturazione in un grande mortaio degli ingredienti secchi.

La buona pratica di spezieria prevedeva che la triturazione fosse eseguita a mortaio coperto, con un metodo in voga fino ai primi decenni del novecento, che consisteva nell’usare un foglio di cartapecora strettamente legato ed aderente ai bordi del mortaio, al cui centro era praticato un foro di grandezza sufficiente alla manovra del pestello ed all’introduzione di una mano e di una spatola per effettuare eventuali saggi.

Su questa carta, si legava un secondo strato di cartapecora, con un buco più piccolo appena sufficiente all’introduzione del pestello. In tal modo si impediva la dispersione delle preziose e finissime polveri sollevate durante la triturazione, che, con questo accorgimento, rimanevano copiosamente attaccate alla cartapecora, e, dunque potevano essere recuperate al termine del lavoro.

Analogo procedimento, si attuava nell’uso del setaccio.

«… Piglierannosi dunque tutte le radici, i virgulti, le foglie, le cortece, i fiori, i frutti, i semi e l’altre parti delle piante che si possono tritare in polve, e si pesteranno insieme come sono scordio, calamentho, marrubio, stecade, dittamo, polio, chamedri, charepiti, hiperico, centaurea, gengiovo, iride, reupontico, cinquefoglio, costo, nardo indico e celtico, gentiana, meo, phu, finocchio, dauco. Cardamomo, i pastelli scillini, viperini, hedicroi, pepe nero, e lungo, rose secche, zafferano, terra lemnia, chalciti bruciata, amamo, cinnamomo, cassia, carpobalsamo, acacia se non sarà humida, castoro, bitume, schinanto, foglie di malabathro.

Tutte le sopradette cose si hanno da pestare insieme in un mortaio di bronzo che sia stato adoperato spesso, acciò non stia per attorno infettato di erugine: overo in uno di pietra durissima, che siamo certi che nel pestare non si rompa qualche particella di esso e si mescoli con le medicine… e peste che saranno si passeranno per staccio sottilissimo ritornando di nuovo a pestare le parti più grosse, e di nuovo passarle per staccio finché tutte si passino. Lo agarico si de’ da per sé solo tritare, e passato per staccio se ne piglia il debito peso, e da poi si mescola con le cose sopradette, accioché quelle vene legnose che ha per didentro non si contino al peso suo ma come disutili si buttino via… Il seme del thlaspi e del napo, se insieme si pesteranno, si attaccheranno nel fonno del mortaio per la loro tenacità: onde bisogna pestarli da parte soli, insieme in un altro mortaio e dapoi macerarli in vino, fin che si dissolvano ben bene, e dissoluti si mescoleranno con le gomme et sughi, che pur loro si risolvono in vino, com’è la mirra, il sugo degli hipociti e della liquiritia, il sagapeno, l’opopanaco, l’opio e il croco… La gomma si può insieme con l’incenso pestare, overo da per sé sola, overo macerarla nel vino come gli altri liquori. Insomma, tutte le cose humide si risolvano nel vino, e le secche si risolvano in polve sottilissima e si tenghino in due vasi appartatamente: avvertendo di passare le cose humide per pannolino stretto, perché restino fuora tutte le immonditie che nelle lagrime e nelle gomme e ne’ sughi si sogliono trovare… ».

A questo punto, terminata la filtrazione dei fluidi, avremo due vasi in cui, separatamente, saranno custoditi gli ingredienti liquidi e le polveri dei solidi.

In questa fase «…bisogna che struggi la terebintina in bagnomaria; appresso piglierai la stirace e il galbano insieme, e con pistelli di ferro ben netti li romperai e pesterai mettendovi un poco di mele crudo e rimenandoli forte con le mani, accioché si meschino e mescolino bene. Et ciò fatto aggiongi ancora un poco di mele alla terebintina liquefatta che ancora sta a bagnomaria, e come ti pare che sono uniti insieme, metti in quel medesimo vase della terbintina lo stirace e il galbano che prima avevi rotti e malassati, e fa che si struggano insieme, coprendo il vase che sta nell’acqua bollita, e lasciale bollire per un pezzo…».

Ora i vasi innanzi allo speziale dovranno essere complessivamente cinque.
«… Sia dunque un vase bianco dove stiano le cose ridotte in polvere, stiano le cose dissolute in vino in un vase nero; la terebinthina, stirace e galbano che sono destrutte in bagnomaria in un vase azurro, e rassegnesi al mele schiumato, che ha da incorporare tutto il resto, un vase verde, e sia anco per quinto vase un mortaio grande, dove si hanno a mescolare le quattro cose…».

Nella massa totale delle polveri (vaso bianco) travasata nel mortaio grande, si incorporeranno a poco a poco contenuti degli altri tre vasi, mescolando continuamente a viva forza. La densità della teriaca vuole operatori robusti e resistenti.

Mescolato il tutto e travasato in un altro vaso grande, vi si aggiungerà, sempre mescolando energicamente, l’opobalsamo.

A questo punto, coperto il vaso con una carta bucata nel modo descritto sopra a proposito della triturazione in mortaio, ogni 5/7 gg. bisognerà rimescolarla, e ciò per un periodo complessivo di almeno 40 giorni. Se la preparazione avviene nella stagione fredda, tale periodo di fermentazione, dovrà però essere assai più lungo.

A questo punto, la preparazione è virtualmente terminata.

Per giungere al massimo delle sue proprietà terapeutiche, la teriaca dovrà fermentare circa un anno, e la sua efficacia scema col passare degli anni. Non è però ben chiaro, presso i vari autori quale sia l’effettivo periodo di validità del polifarmaco, ma è tuttavia certo che esso conserva le sue mirabili proprietà per molti anni.

E, a proposito di proprietà, la teriaca così composta, di colore scuro e sapore dolce, preserva i sani e guarisce gli infermi «… e non per altro Andromaco la chiamò tranquilla, hilare e serena, se non perché a i corpi come da una tempesta de i mali vessati, induce la bonaccia della sanità… ».
I molteplici usi terapeutici sono elencati con passione dal Maranta, e riguardano la sfera corporea così come la psichica.

«… Preserva dunque la mente il suo uso, mantenendola nel possesso della prudenza, et rende l’ingegno acuto, e fa che tutti i cinque sensi facciano perfette le loro operationi essiccando e dissipando i vapori della mente, onde perciò la rende più solerte e più vegeta… fuga i disordinati pensieri e le potenti immaginationi che vengono per l’humor melanconico, come se dalla milza e da gli altri membri ne fugasse tutta l’atra bile; sana i deliri dei furiosi con indurre il sonno, per lo quale anco tranquilla le false immaginationi, la turbolenza della mente e la perplessità de’ negri pensieri…».

Per quanto concerne il corpo, oltre a difendere infallibilmente dai veleni, la teriaca guarisce la rabbia, i dolori di testa, i disordini catarrali, l’asma, la tosse, la sincope, l’inappetenza, dimagrisce i corpulenti (con una efficacia, siamo pronti a scommetterlo, almeno omologa a quella di gran parte delle miracolose tisane dimagranti oggi in commercio…) risolve i disordini intestinali, guarisce le coliche, la dissenteria, sana e purifica il fegato, la milza, le reni, la vescica. Inoltre cura la lebbra e le podagre, stimola il flusso mestruale delle donne e regola quello emorroidale, giova all’espulsione dei feti abortivi, guarisce febbri di ogni sorta, i reumatismi e gli ascessi…

In sintesi, in perfetto accordo con Galeno «… Dirassi dunque questo Antidoto esser buono per ogni affetto il quale sia stato indarno tentato di guarirsi con gli altri rimedij; percioché, per gravissimo che sia e quasi senza speranza di guarirsi, è avvenuto spesso che, fuori di ogni credenza, sia stato superato dalla theriaca… e la sua operatione si è chiamata più tosto un risuscitare che un rimediare…».[14]

La teriaca si prende assolutamente a digiuno, in ragione di

«…una fava Egittia con due ciathi d’acqua»

se si è in attività, o anche di

«… una noce con tre ciathi d’acqua»

se si ha il tempo di smaltirla a riposo. Ma i dosaggi possono decidersi in funzione della malattia e della complessione del paziente.

Per la sua potenza il farmaco va usato con una certa prudenza.

È interdetto ai bambini, ed anche gli adulti, nel culmine dello spossante periodo estivo, sono sconsigliati dal farne uso. Nella calda età giovanile bisogna usarla con giudizio, più indicato l’uso nella fredda età declinante.

Nel descrivere il meraviglioso elixir vitae, la medicina universale, la tradizione alchemica riprendeva il simbolo del sangue di Cristo, del calice della nuova alleanza che riconcilia il cielo e la terra, della bevanda di rigenerazione che il messia aveva donato alle nozze di Cana, dell’oro potabile distribuito da Mosè al popolo del vitello d’oro.

Gli alchimisti antichi ed attuali non hanno smesso di cercare il miracoloso polifarmaco, ed il sogno eterno ed umanissimo del pharmaco catholico continua ad essere coltivato.

A questo sogno sacro e archetipale, a questa ambizione cui nessun uomo veramente vivo può rinunciare, ha obbedito per quasi duemila anni la teriaca di Andromaco, l’umana e popolare approssimazione della panacea universale.

Appedice 1Riportiamo di seguito la formula della teriaca tratta dal Della Theriaca et del Mitridato del Maranta. Con poche differenziazioni qualitative e quantitative, ritroviamo la formula, ricavata dalla fedele interpretazione dei passi galenici, in gran parte della trattatistica tra XVI e XVII secolo. La Theriaque d’Andromacus del Charas (1685) ad esempio riporta una formula assai simile.La formula è ripartita in gruppi omogenei per quantità come nel testo originale. È stata mantenuta la nomenclatura usata dal Maranta.Piglia trochisci di Scilla dramme XILVIIITrochisci di viperaTrochisci hedicroi di ciascuno dramme 24Pepe lungoOpioRose rosse purgateIrideSugo di RegolitiaSemi di Napo dolce di ciascuno dramme 12ScordioOpobalsamoCinamomoAgaricoMirrhaCostoZaffranoCasciaNardo IndicoSchinanthoPepe negroIncenso chiaro di ciascuno dramme 6Dittamo di CretaReu ponticoStecadeMarrubio verdePetroselinoCalamenthoTerebinthinaGiengiovoCinquefoglioPolio montanoCharopitiNardo celticoAmomoStiraceMeoChamedriPhu ponticoTerra LemniaFoglie di Malabatro di ciascuno dramme 4Chalciti brugiataGentianaGommaSugo d’hipocistideCarpobalsamoAnisiSefeliCardamomoFinocchiAcaciaThlaspiHipericoAmmiSagapenoCastorioAristolochiaBitume di ciascuno dramme 2Semi di DaucoOpopanaceCentaureaGalbanoEd ancora «… vino vecchio quanto basta a dissolvere tutte le cose humide come sono i liquori, le gomme e le lagrime. Mele antiquo quanto basta ad incorporare tutte le cose secche prima minutamente peste…». Né del vino né del miele è specificata la quantità che è lasciata, sostanzialmente, alla buona arte dello speziale. Il “vino vecchio” consigliato è il Falerno, essendo il Greco (vitigno assai diffuso al meridione) inutile per il fatto di volgersi all’amaro in una decina di anni.Curiosa la presenza, come unico elemento di origine animale (vipera a parte) dei testicoli del castoro, chiaramente indicati nel testo galenico. Il Charas vi dedicherà, nella sua opera, una approfondita dissertazione anatomica, volta peraltro a smentire l’opinione comune che voleva i detti testicoli volontariamente staccati ed abbandonati dall’animale inseguito, allo scopo di distrarre l’inseguitore (opinione riportata dal Galeno). La dissertazione, non chiarisce però nulla della eventuale attribuzione di specifiche attività farmacologiche. Dal Charas apprendiamo solo che: «… Si potrà dire così che Andromaco, prevedendo che la sua composizione non avrebbe mancato di essere attaccata in diversi tempi e da più parti, abbia voluto mettere alla testa ed alla coda della sua formula, due animali provvisti di robusti denti per difenderla…» (Moyse Charas, Theriaque d’Andromacus Paris 1685 pag. 237).
APPENDICE 2Tommaso Stigliani (Matera 1573- Roma 1651) Passò la giovinezza a Napoli, dove conobbe G. B. Marino e probabilmente il Tasso. Entrò a servizio dei Farnese, a Parma. Nel 1600 scrisse il Polifemo e nel 1605 discreta rinomanza ebbe il suo Canzoniere, messo all’indice per indecenza. In seguito, il poema Il Mondo Nuovo, lo porrà in aperta ed aspra polemica col Marino, che tenterà addirittura di impedire la pubblicazione dell’opera. Testimonianza della polemica è reperibile nel Dello Occhiale, opera difensiva scritta in risposta al cavaliere Gio. Battista Marino (Venezia 1627). Lo Stigliani diverrà il più acceso avversario del Marinismo, ed il moltiplicarsi dei rancori a Parma, lo porterà ben presto ad abbandonare la città ed a trasferirsi a Roma, dove otterrà la protezione di Virginio Cesarini, di Scipione Borghese e del principe Pompeo Colonna. L’ Elegia d’Andromaco il vecchio sopra la teriaca tradotta di latino in toscano dal cavaliere F. Tommaso Stigliani e donata all’illustrissimo ed eccellentissimo signor principe di Gallicano fu pubblicata a Napoli nel 1645 per i tipi del Beltrano, ed è basata sulla versione latina della Theriaca ad Pisonem di Galeno.Signor, ch’alle dottrine hoggi negletteLa coda e’l capo a tutte indi si nettiAll’arte ne’ dì nostri abbandonataAlle scienze di quest’età scherniteSostegno altier di tua Colonna fai.Al cui sommo valor è premio scarsoE mercé corta, e guiderdone angustoTutto ciò che non è scettro, od impero:Tu che per altrui prò te stesso affanni,Rigando sempre di sudor corteseL’eccelsa fronte, e gloriosa, à cuiA torto manca la real corona:Fà di poc’ora à tue gran cure treguaE de’ pensieri tuoi l’altezza abbassaAd udir della celebre triacaE le vertuti, e l’uso, e ‘l magisteroDella qual l’infallibile valoreSia contra ogni velen certo riparoCognominata appunto ella è TranquillaE Gioconda, e Serena, perché solaSprezza d’attaccamenti ogni periglio,E d’insidie venefiche ogni rischioDel papavero il succo oppio nomatoBevuto esser potrà sicuramentePer vigor di quest’unico composto.Né sian bastanti a dar la morte altruiLa gelida cicuta, il giusquiàmoIl ben noto aconìto alle matrigneLe cantaridi, il colchi micidialeChe strugge a un tratto, o la fervente tassiaNon dell’arida dipsa il dente orrendoAppestando uccidrà le morte membraNon quell’ingannevole cerasta,Non quell’empia vipera, e mortaleInvan lo scorpio colla coda aduncaTi verrà incontro invan movrà per dartiL’aspido subitan gli ultimi luttiNé sarà ardita, ov’il tuo odor pur sentaSbucar la pinta tìa di suo covile,Chiara per l’aspro fin di Cleopatra.A nessun uscirà col sangue l’almaPer le ferite del crudele emorro,Né sarà al passagier tra l’herbe ascosaLa calcata drijna enfiar le pianteLe gambe e l’anche, indi essalar la vita:Più non sarà chi chiuda il giorno estremoDe gli anni suoi perché trafitto l’abbiaLa puntiochiata aragna, o l’idro azurro.Né men del Cancro alla stagion bollente,Quando coi raggi il Sol saetta i mariPotrà il cherdisio orribile (mostrandoPer molta uccision sanguigno il griso)All’altrui vita addur supremo esizio.Puoi tanto, o buon Pompeo, di questo eccelsoMedicamento assicurarti, e tanto,Che non ti sconverrà di meza stateSovra i prati posar senza timoreE corcato dormirvi, ancor che fussiNé campi della Libia serpentosa,Dov’ognor mille pesti errando vannoNulla ti noceria nel clima arsiccioDi quella calda Terra il negro sputoE la bava letal del gonfio rospoGonfio d’infetto tosco, e d’agra rabbia.Nulla t’oltraggerà l’an se sibenaLa serpe rea da tutte l’altre variaChe tien duo capi, e con due bocche mordeE che sei lingue istranamente vibraQuesta è la medicina, e presta curaDel troppo pregno stomaco di bileQuesto è il pronto soccorso al petto asmaticoChe rispiri a fatica, al qual disgravaDel forzato anelar l’odiato peso:Questo è il sicur rimedio al pieno ventreD’acqua viziata, ov’il fiatoso spirtoCon sordi ondeggiamenti agita e batteLe libere intestine e fa nuotarleCome nell’acqua il flessuoso pesceQuesto alleggia del corpo i fier doloriIngenerati dal serrato ventoChe di colici il nome anno sortitoRincolora gli smorti e quei che tinteAn le luci di pallido livoreEsparso per le membra il verde fiele.Morbo di Regio è dal bisogno detto,Che egli ha di regia cura, e d’agi, e vezziPoich’à miseri infermi il gusto toglieSì d’ogni cibo, che non pure à morteFa quello odiar, ma prender’anco a schifoTutti i sussidij della medic’arte.Questa discaccia il mostruso maleDell’invecchiata idropisia, che tantoTumida rende e tanto sforma e scangiaNostra umana figura, e laida falla.Da questa i fiacchi sguardi acquistan lume,E chi comincia già per sua sciaguraTisico a divenir salute impetraOltracciò se del collo attratti i nerviSian per caso ad alcuno, o d’altro membroPer questa torneran facili e molli.Questa non lascia ch’imbevuta e grossaL’umil membrana ch’ai polmon fa siepeGli opprima per gonfiezza e gli addolori.Questa suole a color la cui vescigaSia talor da fier’ulcera impiagataIl tormento sedar delle punture.Questa libera quegli à qual dà noiaVenere ognor nella salace parteCon vana estension vana durezzaQuesta sorbita il duolo orrendo placa.Delle petrose reni, il qual a guisaD’un mezo cerchio i tristi lombi cingeE conduce a pichiar l’uscio di morteGuarisce se si bee per giorni molti,Quei che nel petto appostemati sputanoPutrida sanie, e sanguinente marciaDivieta ch’il contagio non s’appigli,Fa ch’appigliato non uccida, toglieChe l’aria impura non maligni i corpiOpra che malignati si sincerino.Salva il morduto dal rabbioso cane;Quand’anco a morte essendo egli vicinoL’acque paventa, e le sitisce à un tempo;E in fion concilia a l’inquiete nottiIl sonno, e raddormenta i troppo desti.Usasi ella a tai morbi in questa formaSe ne prende con man fuori della massa,O con istecco una minuta parte,Quanto è un grano commun d’Egizzia fava.E poi che sciolta, ed in licor ridottaDentro a tre ciati sia di tiepid’onda,(Peso che d’once quattro il numer’empie)Si beve à prima aurora, o à prima sera.Si lo nfermo restasse a forte offesoPiù la notte che ‘l dì, questa bevandaTolga la sera, ma se più nel giornoIl mal noiasse, tolgala il mattino.Ma i morsicati dalle serpi, anno da torlaNell’un ora e nell’altra, à mane e à sera.Parlato abbiam di sue virtuti e forzeE come per noi s’opri. Ora s’attendaAl modo con che debba ella comporsi.Prima ha l’uomo a pigliar con presta manoLa già appostata vipera, quand’ellaLà verso il fin di primavera lasciaLe strette tane di sua cieca casaE del finocchio il virtuoso semePian pian cercando va pe’ prati ameniPerché quest’erba a tutti i serpi aguzzaLa vita rintuzzatasi sotterraPer l’aria buia, e quegli alleva e nutreA danno e morte de’ bifolchi incauti,I quai tardo alla fuga abbiano il piede.Prese che sian le vipere si tronchiLa coda e ‘l capo a tutte, indi si nettiDelle viscere interne il mozzo bustoNel capo e nella coda ascoso tieneLa vipera il veleno, onde bisognaDecider di ciascun di queste membraQuanto di giusta mano è alto il pugno:E perocché col sangue il tosco unitoVien fuori e cagionar può grave danno,Star conviensi avvertito, e guardia aversi,Tratto ch’ai ciò; la viperina carne,Si cuoca in una nuova olla terrestreCon acqua e foglie d’odorato aneto.E bollita che sia, sì che le spinePer sé si spicchin dalla cotta polpa,Dal fuoco si torrà la serpe, e quindiSi lascerà che la raffreddi il vento.Purgasi poi dall’ossa aspre e nociveCon man prudente e cauta, e vi s’aggiungneDel pan perché s’incorpori con essoPiù saldamente la disfatta carneE non perda il licore, il che compitoFingine globi piccioli e schiacciati,A cui l’ombra dia debita secchezzaPoscia hà da torsi una scorzuta scillaE s’ha tutta a vestir di fatta pastaDi formento, e di miel misto con onda,Ed appresso sepoltala nel fuocoS’ha da faville a ricoprir’interaLa qual quando sia cotta, e fatta molleTanto che mandi fuori un alto scoppioE da sé scuota le cenigi imposteSi leverà dal fuoco, e quella vesteChe la solea velar, s’ha da gettareGettando ancor la sua natia CortecciaPoi tre parti di Scilla, e d’ervo due,S’ha da meschiare, e dar loro unita formaE rotelle comporne, ma à pestarleS’ha prima trite, ed asciugarle all’ombra.Di questa confezzion le dramme appuntoSian quarant’otto, e venti e quattro l’altra,Delle vipere dico, a cui s’accrescaLungo pepe altrettanto, altrettanto oppio,Ed altrettanta nobile misturaCh’à studio si compon per sì fatt’usoE che tiriacal magma si noma:Del cui fabricamento il modo è taleDell’asàro, del maro, dell’aspalto,Ricevi e dell’amaraco, due dramme,Con tre del giunco e calamo odorati,Del legno balsamin della sua ragiaDel cinnamomo all’ammoniaco aggiuntoO per suo cambio all’énula campanaStritola il tutto, e con Falerno mesci,Formandone pastegli agli altri ugualiCh’indi sparse dal sol siano anco asciuttiComposto il magma, dodici le drammeDell’Iride di Slavia ad esser’anno,E delle rose inaridite al rezo.Dodici del fazievole licoreDi liquirizia, anchor che dolce, dodiciDella sementa del soave napo.Dodici quelle dello scordio acerbo,Del buon sudor che’l balsamo gommòE del cinnàmo insieme, e dall’agàrico.Ma della mira, del lodato costoDel croco di Coricia, delle canneDella casia odorifera, del nardoCh’in India nasce, dello scheno ArabicoDel fosco pepe, e del fumoso incensoNutrito da’ Sabei nel ricco campoSei per ciascun le dramme esser dovranno.Come ancor del dittàmo del reupontico,Della Gallica steca del marrobbio,Del Greco petrosel, del calamintoDel chiaro umor del terebinto d’Africa,e dell’acuto gengiovo mordace.Quattro le dramme siano del polio,Del piccioletto pin, ch’è il camepitioDella celtica nardo, dell’amomo,Grapposo del panfilico storace,Al qual di calamita an titol dato.Dela radice della calda méo,Dell’amara semenza del canedrioUso in sue foglie ad emular la quercia,Da ch’egli di querciuola il nome tragge,Del fù del Ponto, e della terra lenniaQuattro le dramme ancor sian del malabarro,Del bruciato calcite à fiamma ardente,Della genziana, della lenta gomma,Dell’espresso licor dell’ippocisteE de’ cari tuoi frutti o picciol balsamoDell’aniso, del seseli del cordoMomo d’Armenia, del finocchio agresteDel negro umor che fà la spina EgizziaDell’erba che dal seme è detta tlaspiDell’ippéricon, ammio e serapino.Ma del castor le seminali vasa,ch’egli si strappa, e al cacciator le getta,sian due dramme, ed ancor l’aristolochia,Il bitume Giudeo, del dauco il seme,La panacéa, l’erba centaura, e’l galbano,Che d’ogni ingrediente ultimo sia.Prima tutti i licor, tutte le gomma,s’anno a disfar con invecchiato vino,Ma le secche materie ottimamenteDovran tritarsi ed ammassar col miele:Fatto ciò meschierai tutte le coseIn ampia conca con rimondo stelo,Che lunga pezza roterai d’intorno,E sì la tiriaca avrai formata.Questa è del degno antidoto l’istoriaAlto signor, ch’io t’offerisco, e donoPicciola offerta in vero al tuo gran merito,e minore al mio debito infinitoMa tu t’appaga, sol del buon volereCome i cor generosi useno, e pensa,Che se povero è il don, ricco è l’affetto.

NOTE

[1] «Non è nulla, strillò la murena/ È che la sposa era già gravida/ Di chi è il figlio! Strillò il Guarracino/ Mi han fatto cornuto di San Martino». S. Martino, a Napoli, è tradizionalmente il patrono dei cornuti…

[2] «Cinquanta morti, duecento feriti / ed altri venti in pericolo di vita /e gli altri andarono dallo speziale/ a prendere l’acqua teriacale…».

[3] La più diffusa formulazione dell’acqua teriacale era ottenuta da una mistura di teriaca, aceto, vino e canfora. Tra le sue applicazioni vi era anche la prevenzione delle pestilenze. La teriaca, oltre ad essere usata da sola, entrava, per le sue miracolose proprietà, anche a far parte di importanti formulazioni, come l’elettuario magno del Mattioli, o dei vari elixir vitae proposti da diversi medici e speziali.

[4] Nella ristampa della versione inglese del Waite (Lexicon of alchemy or alchemical dictionary Kila s.d. Kessinger Publishing) alla voce theriaca (pag. 316 leggiamo: «…veleno, fermento, materia della pietra…».

[5] Nella tradizione magica gli eggregori erano entità spirituali collettive, formate ed alimentate attraverso dei riti, che erano in grado di interagire con la sfera umana attraverso la loro potenza magica.

[6] Sul Novellas, sulla sua farmacologia ermetica e sulle sue idee sulla teriaca si veda J. Garcia Font, Historia de la Alquimia en Espana, Barcelona 1995, pag. 309-310.

[7] Su queste due bevande mistiche si veda l’articolo di A. Di Nola Le bevande mistiche: il succo della vita, in Abstracta 46, 1990, pag. 14\17.

[8] Il testo latino, con una interessante introduzione storica e la traduzione italiana è oggi disponibile per i tipi della Olschlki (Claudio Galeno De Theriaca ad Pisonem a cura di E. Coturri Firenze 1959).

[9] Tuttavia, la seconda edizione del Manuale dei medicamenti galenici e chimici dell’Orosi (Firenze 1872) riporta ancora una formula della teriaca d’Andromaco, evidentemente figlia dell’antica formulazione galenica. Degli oltre 60 medicamenti compresi nella formula originale, ne sopravvivono solo 24 (tra i quali, curiosamente, il castoro). La vipera scompare insieme agli altri trochisci e l’oppio riduce vistosamente la sua concentrazione. La formula della teriaca dell’Orosi «… Adoprasi come cordiale, stomachica e calmante alla dose da 1 a 6 grammi…» (Orosi, pag.483). La pozione di teriaca, la vecchia acqua teriacale, non contempla più vino, aceto e canfora, ma piuttosto le meno aggressive acque di fiori d’arancio e menta, mescolate con sciroppo e con la teriaca. L’Orosi riporta inoltre la teriaca come ingrediente di un elisir di lunga vita (dalle applicazioni ed indicazioni assai simili a quelle della teriaca) insieme a genziana, zafferano, rabarbaro, agarico, cannella, zucchero, aloe ed alcool (pag. 485).

[10] Il testo del Maranta scatenerà una vivida polemica col collegio medico patavino, nelle persone dei medici Giunio Paolo Crasso, Marco Oddo e Bernardino Trevisan, che nel Meditationes Doctissimae in Theriacam et Mithridaticam Antidotum dell’Oddo, uscito a Venezia nel 1576, si scaglieranno contro il Maranta. Le critiche di ordine medico e farmacologico sono solo lo specioso pretesto di una polemica ben più scottante rivolta alla definizione e puntualizzazione di gerarchie e ruoli. I patavini criticano infatti la scelta del Maranta di trattare un tale argomento in un saggio in volgare, peraltro indirizzato espressamente a semplici speziali. Gli speziali sono infatti, nelle Meditationes, gli artefici di una ars practica legata a conoscenze di ordine pratico e puramente sensibile, e costituiscono dunque una categoria subordinata ai medici, la cui conoscenza affonda le proprie radici nella pura filosofia, nella conoscenza essentiale di ordine universale e di radice metafisica. Gli strali dei tre medici si abbattevano poi sull’Imperato, un semplice speziale che aveva l’ardire di voler insegnare ai medici. Al testo dell’Oddo risponderà (in latino) il primo scritto del giovane Colantonio Stigliola, che è da considerarsi senz’altro una collettiva risposta del gruppo napoletano. Il Theriace et Mitridatia Nicolai Stelliola libellus in quo harum antidotorum apparatus atque usus monstrarum... (Napoli 1577) affronta sistematicamente e confuta dottamente le incomprensioni dei testi classici e le inesattezze alla base della critica mossa dal collegio patavino al Maranta. Intorno alla polemica vedi il saggio di Andrea Cuna Editoria e testi De Re Medica: la controversia fra Nicola Antonio Stigliola e i medici patavini pubblicato in: Saverio Ricci, Nicola Antonio Stigliola enciclopedista e linceo. Con l’edizione del trattato “Delle Apparenze Celesti” a cura e con un saggio di Andrea Cuna. Roma 1996. Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei anno CCCXCIII – Classe di scienze morali, storiche e filosofiche – Memorie serie IX vol. VIII fascicolo I.

[11] Struttura analoga hanno del resto molti trattati sulla teriaca stampati tra XVI e XVII secolo. Tra questi, particolarmente famoso e diffuso fu il libro di Moyse Charas Theriaque d’Andromacus, avec une description particuliere des plantes, des animaux et des mineraux employez à cette grande composition… par Moyse Charas, docteur en medicine et chimiste du Roy de la Grand Bretagne (Paris, chez Laurent D’Houry 1685)

[12] Una di queste famose polemiche ebbe per protagonista il famoso Ulisse Aldrovrandi (1522- 1605) che dovette ripetutamente difendersi dagli attacchi del collegio degli speziali bolognesi in merito all’uso del costo e dell’amomo. Quando, successivamente a questa polemica, in qualità di protomedico, invalidò la teriaca degli speziali bolognesi per essere i trochisci di vipera fatti con vipere pregne, con maschi o con animali catturati in prossimità di una zona marina, la polemica passò di autorità in autorità finendo addirittura innanzi al papa, che decise in favore dell’Aldovrandi.

Polemica analoga coinvolse i due speziali romani Antonio Manfredi e Vincenzo Panunzio, il cui opobalsamo fu giudicato da alcuni colleghi illegittimo. Si scatenò una diatriba, che fu oggetto di un certo numero di pubblicazioni e di opuscoli, in un intricato susseguirsi di pareri e polemiche che valicarono i confini delle Alpi. Per avere una idea del tono delle discussioni e dell’asprezza delle posizioni, riportiamo un brano tratto dalla Lettera familiare di Gioseppe Donzelli Napolitano sopra l’Opobalsamo orientale indirizzata allo speziale pontificio Giovan Battista Paolucci. Il Donzelli, napoletano, ardente repubblicano, studioso tra i più noti ed autore di un Teatro farmaceutico che tra il XVII ed il XVIII secolo conoscerà oltre una ventina di ristampe in tutta Italia, animatore insieme al Cornelio, al Di Capua ed al Caramuel dell’Accademia degli Investiganti del Conclubet, si schierava decisamente al fianco del Panunzio e del Manfredi, difendendoli dalle accuse del Pitorio (il quale, tra le altre cose, in tono canzonatorio, nel corso della polemica l’aveva apostrofato donzellino.). Dopo una discreta dose di contumelie mescolate ad elementi di genuina polemica scientifica, a proposito del Pitorio, il Donzelli ad un certo punto scrive: «… Io ammiro la carità di quei virtuosi che gli rispondono, per insegnargli a tacere in altre occasioni, che similmente gli s’alterasse il cervello. Non lascerei anch’io di concorrere con qualch’atto caritativo a risanarlo di tale infermità, se egli fosse un poco più vicino, sapendo io adoperar una certa untione alle spalle che suol fare mirabili effetti, e ancorché egli mi tratti quasi che da fanciullo gli farei provare che ho polso e forza da huomo robusto…». Non si commetta l’errore di considerare la minaccia scherzosa o puramente metaforica. L’accademia degli Investiganti fu sciolta dal viceré nel 1668 proprio per una violenta rissa scoppiata tra il Cornelio ed il medico Carlo Pignataro dell’accademia dei Discordanti, che raccoglieva i più fieri avversari intellettuali dei fermenti cartesiani e sperimentalisti propugnati dagli Investiganti…

[13] Sul museo e le raccolte dell’Imperato vedi Enrica Stendardo, Ferrante Imperato – Il collezionismo naturalistico a Napoli s.d. e l.. Sull’Imperato vedi, più in generale, i lavori del Neviani e di Andrea Russo (vedi bibliografia).

[14] A poco meno di un secolo dal libro del Maranta, il Teatro Farmaceutico, dogmatico e spagirico del Donzelli (1662) diminuendo solo di poco i meravigliosi effeti dell’antidoto, annota: «… La tiriaca è remedio appropriato singolarmente alli morsi delle vipere… giova di più alli continuati dolori del capo, alle vertigini et ai difetti dell’udito… al mal caduco, alla stupidità… provoca i mestrui, cava fuori dal ventre le creature morte…soccorrendo anche alle palpitazioni et effetti melanconici et altre passioni dell’animo….».

Un ritratto dello scienziato e scrittore napoletano Giuseppe Donzelli.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

– Andromachus Senior, Elegia d’Andromaco il vecchio sopra la tiriaca tradotta di latino in toscano. Napoli, Beltrano 1645

– Giovanbattista Capello, Lessico Farmaceutico-Chimico contentente li Rimedj più usati d’oggidì di Gio: Battista Capello undecima impressione riveduta, accresciuta, e da molti errori emendata da Lorenzo Capello suo Nipote Speziale all’Insegna de’ Tre Monti in Campo di Sant’Apollinare. in Venezia, Appresso Pietro Savioni 1792

– Moyse Charas, Theriaque d’Andromacus, avec une description particuliere des plantes, des animaux et des mineraux employez à cette grande composition… par Moyse Charas, docteur en medicine et chimiste du Roy de la Grand Bretagne (Paris, chez Laurent D’Houry 1685)

– Alfonso Maria Di Nola, Le bevande mistiche: il succo della vita in Abstracta 46, 1990 pag. 14\17

– Giuseppe Donzelli, Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico nel quale si insegnano una molteplicità di Arcani Chimici. Napoli 1667

– Giuseppe Donzelli, Lettera familiare di Gioseppe Donzelli Napolitano sopra l’Opobalsamo orientale Padoa, per Paolo Franbotti 1643

– Claudio Galeno, De Theriaca ad Pisonem, a cura di E. Coturri, Firenze 1959 Olshki

– J. Garcia Font, Historia dell’Alquimia en Espana, Barcelona 1995 ed. MRA

– Bartolomeo Maranta, Della Theriaca et del Mithridato libri due di M. Bartolomeo Maranta a M. Ferrante Imperato. Ne quali s’insegna il vero modo di comporre i sudetti antidoti et s’esaminano con diligenza tutti i medicamenti che v’entrano. Venetia, Marc’Antonio Olmo 1572

– Massimo Marra,. Il Pulicinella Filosofo Chimico: uomini e idee dell’alchimia a Napoli nel periodo del viceregno, Mimesis, Milano 2000

– N. Mongelli, Diffusione di un medicamento popolare nel regno di Napoli: la teriaca di Andromaco, in “Lares” anno XLII n°3-4 1976

– Antonio Neviani, Ferrante Imperato. Speziale e naturalista napoletano, con documenti inediti. Roma 1936 Serono

– Giuseppe Orosi, Manuale dei medicamenti galenici e chimici, Firenze 1872, seconda ed..

– Antonio Giuseppe Pernety, Dizionario mito-ermetico 2 vol. trad. di G. Catinella Genova 1983 ed Phoenix

– Saverio Ricci, Nicola Antonio Stigliola enciclopedista e linceo. Con l’edizione del trattato “Delle Apparenze Celesti” a cura e con un saggio di Andrea Cuna. Roma 1996. Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei anno CCCXCIII – Classe di scienze morali, storiche e filosofiche – Memorie serie IX vol. VIII fascicolo I.

– Martin Ruland, Lexicon of alchemy or alchemical dictionary Kila s.d. Kessinger Publishing

– Andrea Russo, Un ammiratore di Valerio Cordo: il napoletano Giuseppe Donzelli, Roma 1970 estr. da Galeno n° 3, 1970

– Andrea Russo, Ferrante Imperato farmacista naturalista, Tip. Properzi e Spagnuoli, Teramo 1957

– Stendardo Enrica, Ferrante Imperato – Il collezionismo naturalistico a Napoli s.d. e l.