Pagina on-line da 03/06/2012

Lo scrittore e volgarizzatore scientifico Louis Figuier (Montpellier 1819 – Parigi 1894). Fonte Wikimedia Commons.

Louis-Guillame Figuier (Monpellier 1819- Parigi 1894) laureatosi in medicina nel 1841, dapprima (nel 1846) professore alla facoltà di Farmacia di Montpellier, poi a quella di di Parigi (1853-1856), fu acclamato naturalista e collaborò, tra il 1847 ed il 1854, alle principali riviste scientifiche del suo campo di studi, come il Journal de Pharmacie e gli Annales des Sciences. Tuttavia la notorietà maggiore gli provenne senz’altro dalle numerose opere divulgative di argomento scientifico, tradotte in varie lingue tra cui l’italiano, di cui il lettore non faticherà a trovare elenchi più o meno esaustivi negli scorci biografici a lui dedicati (ad esempio la voce francese di Wikipedia).
A partire dal 1855 egli fu responsabile della pagina scientifica del giornale La presse, ed i suoi articoli vennero regolarmente raccolti nei volumi annuali dell’Année scientifique et industrielle ou Exposé annuel des travaux che costituivano una sorta di excursus sui progressi scientifico industriali dell’anno. Fu anche direttore del settimanale La Science Illustrée.
Il Figuier di sicura fede positivista, tradisce tuttavia nel suo saggio su L’Alchimie et les alchimistes una inconfessabile ed ambigua simpatia. Egli, pur tenendosi alla larga da una qualunque commistione del suo ortodosso orizzonte scientifico con le teorie alchemiche, palesemente sente il fascino, più che delle teorie, dei personaggi che tratteggia. Non fa eccezione questo capitolo finale che egli dedica agli alchimisti suoi contemporanei, che appare essere anche una preziosa testimonianza di come, in una Parigi di pochi decenni antecedente la rivalutazione della scienza ermetica operata dalla renaissance occultiste della fine del secolo, ancora vi fosse una schiera di alchimisti che Figuier non esita a definire abbastanza ricca.

Massimo Marra © – Tutti i diritti riservati, riproduzione e diffusione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

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Louis Figuier
L’ALCHIMIA NEL XIX SECOLO
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Da L’Alchimie et les alchimistes: essai historique et critique sur la philosophie hermetique, Paris Hachette, troisième édition, 1860, pp. 379 – 412.

Traduzione di Massimo Marra © – Tutti i diritti riservati, riproduzione e diffusione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine

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Le vecchie credenze sulla pietra filosofale e la trasmutazione dei metalli sono lontane dall’essere scomparse, come si potrebbe credere, al chiarore delle prime verità della chimica moderna.
A dispetto dei ragionamenti e delle prove contrarie accumulate dalla scienza della nostra epoca, malgrado le tristi ed innumerevoli delusioni provocate, dopo dieci secoli alle speranze dei facitori d’oro, le opinioni alchemiche sono ancora professate ai nostri giorni. In diverse zone d’Europa, qualche ignorato sopravvissuto della turba dei filosofi ermetici continua a perseguire nell’ombra la realizzazione della grande opera, e, tra i moderni adepti, ve n’è più d’uno che non esita a ritrovare negli stessi principi della chimica attuale, la conferma delle sue dottrine.
E’ principalmente nella sognante Germania che si è conservata questa genia ostinata.
Si è già visto come una vasta associazione di alchimisti, fondata nel 1790, sia esistita fino all’anno 1819, sotto il nome di Società Ermetica. Nel 1837, un alchimista della Turingia presenta alla Società Industriale, di Weimar una pretesa tintura per la trasmutazione dei metalli. Si è potuto leggere nello stesso periodo, nei giornali francesi l’annuncio di un corso pubblico di filosofia ermetica, tenuto dal prof. B…. di Monaco. Infine, ancora oggi, si parla, ad Hannover ed in Baviera, di intere famiglie che si dedicano collettivamente alle ricerche della grande opera.
Ma la Germania non è il sol paese d’Europa in cui l’alchimia continua ad essere coltivata. In diverse città dell’Italia e nella maggior parte delle più grandi città della Francia, si trovano ancora degli alchimisti. Di quando in quando, vediamo apparire nelle bibliografie francesi qualche scritto in cui i pretesi misteri dell’arte sono esposti in un linguaggio d’una oscurità impenetrabile, con l’uso del simbolismo tradizionale. Questi libri, sottratti abitualmente alla conoscenza del grande pubblico, non si vedono circolare che tra le mani degli iniziati. I curiosi e gli amatori di antichità vi ritrovano il piacere del sapore delle fantasticherie medievali.
Fra le varie città della Francia si può considerare Parigi come particolarmente ricca in alchimisti. Questa osservazione non ha nulla di esagerato: si può dire che esistono a Parigi sia alchimisti teorici che adepti empirici.
I primi si limitano a riconoscere per veri i dati scientifici dell’alchimia, i secondi si dedicano alle ricerche sperimentali che si ricollegano alla trasmutazione dei metalli (1). Uno studioso abbastanza conosciuto, M. B….., oggi professore in una delle nostre facoltà scientifiche, ha preso, nel suo Trattato di Chimica pubblicato a Parigi nel 1844, le difese delle opinioni ermetiche, ed egli afferma nella sua opera che “nutre qualche speranza di vedere riuscire le operazioni della grande opera”. Quanto ai ricercatori empirici, non sono rari nei bassifondi della scienza, e non si frequenta a lungo l’ambiente dei chimici senza trovarsi più volte in contatto con essi. Per quanto mi riguarda, abbastanza spesso mi sono trovato in contatto con alchimisti di ogni lignaggio, ed i ricordi che mi sono rimasti, di questi incontri, sono forse di una qualche interesse.
Io frequentavo, nel 184… il laboratorio di M. L. …Era il punto di ritrovo, quasi il cenacolo degli alchimisti di Parigi. Quando gli studenti avevano abbandonato le sale dopo il lavoro della giornata, si vedevano, alle prime ombre della sera, entrare ad uno ad uno i moderni adepti. Nulla di più singolare dell’aspetto, delle abitudini e perfino dell’abbigliamento di questi uomini strani. Li rincontravo di giorno, qualche volta, nelle biblioteche pubbliche, curvi su grandi in-folio; la sera, in luoghi isolati, vicino ponti solitari, gli occhi fissi in una vaga contemplazione della volta splendente di un cielo stellato. Si rassomigliavano quasi tutti. Vecchi o appassiti anzitempo, un anonimo abito nero o una lunga palandrana di un colore indefinibile, copriva le loro membra smagrite. Una barba incolta nascondeva per metà i loro lineamenti, solcati da rughe profonde, in cui si leggevano le tracce delle lunghe fatiche, delle veglie, delle divoranti inquietudini. Nelle loro parole lente, misurate, solenni, vi era qualcosa del tono che noi attribuiamo agli illuminati dei secoli passati. Il loro contegno, umile e fiero insieme, rivelava le angosce di speranze ardenti, mille volte perdute e mille volte rinate con disperazione.
Tra gli adepti che si riunivano nel laboratorio di M. L…., avevo notato un uomo ancora giovane, il cui aspetto mi aveva colpito. Nulla nelle sue abitudini né nel suo linguaggio, ricordava i suoi misteriosi compagni. Lontano dal combattere o dal rigettare con disprezzo i principi della chimica moderna, egli, al contrario, la invocava di continuo, poiché aveva ritrovato il germe delle sue convinzioni alchemiche nello studio stesso delle verità di quella scienza. Nelle frequenti discussioni che egli sosteneva con i frequentatori abituali del laboratorio, intorno alla certezza dei dogmi ermetici, egli non traeva le sue argomentazioni che dalle scoperte degli studiosi dei nostri giorni. Alcun fatto scientifico gli era estraneo, poiché egli aveva seguito a lungo le lezioni dei più celebri dei nostri studiosi; ma la scienza, questo sano nutrimento degli spiriti, si era tramutata in lui in un veleno amaro che alterava la stessa fonte delle nozioni basilari. Queste specie di conferenze avevano per me un’attrattiva tutta particolare, e, sia detto a mia onta, sovente le prolungavo intenzionalmente, sedotto dalla singolarità di questi discorsi, in cui le ispirazioni dell’illuminato ed i ragionamenti dello studioso si mescolavano nel modo più strano.
Più o meno in quell’epoca, ebbi a sostenere con questo adepto una lunga discussione sui principi della scienza ermetica. Egli mi beneficiò, in quella occasione, di una esposizione generale delle dottrine dell’alchimia, ‘passando in rivista tutte le prove storiche che si invocano abitualmente per giustificarne l’esistenza. Questo colloquio è ancora intermante impresso nella mia memoria, ed io lo riporterò di seguito, poiché esso potrà far luce su fatti fino ad oggi ignorati.
Passeggiavo nella zona di Luxembourg, nel viale dell’Osservatorio, verso la fine della mattinata, quando vidi per caso il nostro filosofo fermo presso la cancellata del giardino. Appena mi vide, mi venne incontro.
«Ebbene dottore – disse avvicinandomi – avete meditato bene sul soggetto della nostra ultima conferenza. Posso infine sperare di offrire l’omaggio di una nuova conversione all’ombra del grande Hermes?»
«Mio caro filosofo – gli risposi – da quel colloquio io non ho altro pensiero che di deplorare che un uomo del vostro talento e della vostra età possa consumare le sue forze nel perseguimento di una simile chimera».
Egli si sedette pensoso, rifletté per qualche istante, poi tutto d’un tratto afferrò il mio braccio e mi trascinò rapidamente senza dir nulla, facendomi discendere lungo i viali del vivaio: ci dirigevamo verso una panca del marciapiede della passeggiata.
«Ascoltatemi – mi disse – da molto tempo coltivo il progetto di esporvi distesamente tutta la serie di prove sulle quali riposano le credenze alchemiche, e dimostrarvi che le nostre dottrine, lungi dall’essere sminuite dalle scoperte della scienza contemporanea, vi trovano, al contrario, le conferme più attendibili. Vi ho scelto come confidente ufficioso di questa professione di fede, dal momento che abitualmente mi ascoltate senza appalesare quei sentimenti di diffidenza o di pietà che i vostri colleghi non provano neanche a dissimulare al nostro cospetto. Lasciatemi, dunque – aggiunse animandosi – lasciatemi la possibilità di provarvi che l’alchimia non è il sogno di qualche cervello disturbato, ma che essa invece trova nell’essenza delle cose dei fondamenti incrollabili, e che non è lontano il giorno in cui la realizzazione della sua opera sublime ci porterà, nel contempo, alla scoperta dei segreti più elevati della natura. ».
Egli era ora in piedi, e parlava con foga. Compresi che era impossibile evitare la sua dissertazione; mi sedetti rassegnato ed egli cominciò.
«Permettetemi anzitutto – esordì – di precisare il soggetto preciso dei lavori degli alchimisti moderni, e di fissare il limite delle loro ricerche. Gli sforzi degli adepti di tutti i tempi hanno avuto per fine comune la scoperta del segreto agente conosciuto sotto il nome di pietra filosofale. Ora, secondo gli autori antichi, la pietra filosofale doveva godere di tre proprietà distinte. Nel suo primo stato di purezza, essa realizzava la trasmutazione dei metalli, cambiando i metalli vili i metalli nobili, il piombo in argento, il mercurio in oro, e, in generale, trasformava le une nelle altre tutte le sostanze metalliche. Ad un grado superiore di perfezione, ella poteva guarire le malattie che affliggono l’umanità, e prolungare la vita ben al di là dei suoi limiti naturali. Le si attribuiva, in questo caso, l’appellativo di panacea universale. Infine, al suo più elevato grado di esaltazione – prendendo allora il nome di anima del mondospiritus mundi – la pietra filosofale conduceva gli uomini al commercio intimo con gli esseri spirituali, spezzava le barriere che difendono l’entrata dei mondi superiori, e ci rivelava, in una contemplazione sublime, i misteri dell’esistenza immateriale. Queste sono le tre proprietà che i primi filosofi ermetici hanno attribuito alla pietra filosofale.
Gli alchimisti di oggi rigettano la maggior parte di queste idee. Essi accordano alla pietra filosofale la virtù di trasmutare i metalli, ma non vano più in là. È d’altronde facile comprendere come gli antichi spagiristi possano essere stai portati ad attribuire all’agente delle trasmutazioni delle qualità occulte, attinte in qualche modo a sorgenti immateriali.
Questa convinzione non fu che il riflesso dell’epoca che la vide nascere, non è che al tredicesimo secolo che si cominciò ad attribuire alla pietra filosofale la facoltà di guarire le malattie e di spiritualizzare gli esseri fisici. Voi sapete bene quali dottrine regnavano, a quel tempo, nelle scuole. L’antichità filosofica, rinasceva, e di combinava la logica aristotelica ai principi della scuola contemplativa. Come ai bei tempi di Pitagora, i misteri dei numeri, applicati ai fenomeni fisici, fornivano, a dispetto della testimonianza dei sensi, il solo fondamento delle scienze. L’universo si popolava di esseri metafisici, uniti da legami segreti e misteriose simpatie con gli oggetti del mondo visibile. È dunque ovvio che in quest’epoca gli alchimisti abbiano arricchito di qualche proprietà sovrannaturale l’agente meraviglioso oggetto del loro lavoro.
Ma dal canto nostro, rischiarati dalla luce della filosofia moderna, noi condanniamo queste aberrazioni mistiche delle età antiche. Noi ripudiamo la chimera della panacea universale, ed a maggior ragione quella dell’anima del mondo, la cui nozione è d’altronde assai oscura anche nel piccolo numero di filosofi che l’hanno concepita o sviluppata.
Tutto il dogma alchemico si riduce oggi all’ammissione dell’esistenza di una sostanza che porta in sé la segreta virtù di trasformare tutte le specie chimiche le une nelle altre, o per ragionare su di un soggetto più accessibile all’esperienza, di operare la trasmutazione di metalli. Oggetto dell’alchimia è appunto la scoperta di questo agente, che molto adepti hanno posseduto, ma che è perduto ai nostri giorni. Ecco la questione in tutta la sua semplicità. Io tengo a delimitare bene, al principio, il terreno della nostra discussione, al fine di impedire che ella si possa smarrire tra chimere dimenticate. Ora, limitandomi al territorio delle scoperte della chimica moderna, voglio provarvi che la trasmutazione dei metalli è un fenomeno perfettamente realizzabile e che diversi argomenti della scienza attuale ne giustificano l’esistenza.».
A questo punto, l’adepto si sedette al mio fianco, poi riprese il suo discorso nei termini seguenti:
«Avete mai riflettuto su di una incongruenza assai singolare in cui sono caduti gli studiosi del nostro tempo? Essi riconoscono che solo quattro sostanze semplici, ossigeno, idrogeno, carbonio ed azoto, entrano nella composizione dei corpi di origine organica, ma essi aggiungono che più di sessanta elementi sono necessari per formare le combinazioni minerali. Così quattro corpi semplici sarebbero sufficienti per costituire l’atmosfera che ci circonda, l’acqua che copre i tre quarti del nostro globo e tutta la creazione animale che vive sulla sua superficie; più di sessanta corpi dovrebbero invece riunirsi per formare la massa solida del nostro pianeta! In verità, ciò è come attribuire gratuitamente alla natura un’incongruenza. Non sarebbe più semplice pensare a priori, che questi quattro elementi, sufficienti alle azioni molecolari dei prodotti organici, siano ugualmente sufficienti ai bisogni dei composti minerali, e che essi solo costituiscano il fondo delle risorse materiali messe in gioco nel nostro universo? Arriveremmo così a quel famoso numero quattro, la tetraktis di Pitagora, o quel tetragramma che giocava un ruolo tanto importante nei misteri caldaici e dell’antico Egitto. Noi saremmo condotti, in pratica, a ritrovare sotto altro nome i quattro elementi degli antichi alchimisti, i quattro elementi dei chimici del XVII secolo. Ma, senza andare così lontano, limitiamoci a constatare ora questa stridente contraddizione che affligge ai nostri giorni ala filosofia naturale. Ecco una prima difficoltà, ed è grave, tale almeno da far sospendere il vostro giudizio.
Arriviamo ora a qualche considerazione più precisa, affinché si possa abbandonare ogni ipotesi estranea e ci si possa basare unicamente sulle scoperte della chimica moderna.
Fino a questi ultimi tempi, si sarebbe pensato che, per definire un corpo e separarlo da tutti gli altri, fosse sufficiente indicare la sua composizione e le sue proprietà; si ammetteva comunemente che due sostanze con la stessa composizione chimica, fossero, per questa stessa ragione, identiche.
Ma se i primi chimici considerarono questo fatto come una verità fondamentale, gli alchimisti, dal canto loro, non cessarono di combattere tale convinzione. La teoria alchemica sulla composizione dei metalli, professata a partire dall’ottavo, secolo, si stabiliva sul principio che i prodotti possono presentare le più grandi differenze bei loro caratteri esteriori, sebbene di fondo la loro composizione sia identica. Questa teoria, stabilisce, in effetti, che tutti i metalli sono identici al riguardo della loro composizione, che sono tutti formati da due elementi comuni, lo zolfo ed il mercurio, e che la differenza delle loro proprietà è data unicamente dalle reciproche proporzioni di questi due metalli. L’oro, ad esempio, secondo gi alchimisti, era formato di una grande quantità di mercurio assai puro, e da una piccola quantità di zolfo; lo stagno, al contrario, da molto zolfo mal fissato e da una piccola quantità di mercurio impuro. In ciò che presenta in termini generali, questa teoria poggia sul principio di cuna composizione comune di tutte le sostanze, le quali possono, ciò nonostante, differire tra loro esteriormente e per tutto l’insieme delle loro reazioni. A margine di questa teoria si formò la teoria dei chimici, che sosteneva un’opinione contraria. Voi sapete bene come è finito il dibattito. I progressi della scienza hanno portato, ai nostri giorni, ad un trionfo eclatante delle opinioni alchemiche. Il perfezionamento delle analisi chimiche ha permesso di riconoscere che i prodotti minerali o organici possono presentare una identità completa nella loro composizione, presentando tuttavia esternamente le proprietà più diverse e contrastanti. Così, l’acido fulminico, che fa parte della famiglia dei fulminanti e delle polveri esplosive, contiene rigorosamente la stessa quantità di carbone, ossigeno ed azoto, dell’acido cianico, e racchiude questi costituenti nella stessa modalità di condensazione. Ciò nonostante, i fulminanti, sottoposti alla più piccola elevazione di temperatura, detonano con violenza, mentre i cianati resistono al calore rosso. L’urea, che è un costituente di diversi liquidi del mondo animale, presenta la stessa composizione chimica del cianato d’ammoniaca idratato, e non vi è nulla di più dissimile dei caratteri di queste due sostanze. L’acido cianidrico, veleno temibile, non differisce in nulla, per la sue composizione, dal formiato d’ammoniaca, sale dei più inoffensivi. La chimica fornisce una miriade di esempi simili. Sono queste proprietà nuove della materia che si definiscono con il nome elegante di isomeria.
Ma questa isomeria, che gli alchimisti oggi accordano ai corpi composti, può riguardare anche i corpi semplici? Le sostanze reputate elementari, i metalli ad esempio, possono presentare questi casi d’isomeria? Vedrete a qual punto di porti questa questione in apparenza così semplice. Risolta affermativamente, essa eliminerebbe ogni difficoltà teorica opponibile alla trasmutazione dei metalli. Perché, se fosse dimostrato che i metalli sono isomeri, che sotto il velo delle caratteristiche esteriori più dissimili essi nascondono elementi identici nella loro natura, il dogma alchemico sarebbe giustificato, e la trasformazione molecolare necessaria alla trasmutazione di un metallo non avrebbe più nulla di sorprendente. La domanda merita dunque una certa attenzione.
Per stabilire l’isomeria di due composti, li si analizza chimicamente, e si constata così l’identità qualitativa e quantitativa dei loro elementi costituenti. Ma, nel caso particolare dei metalli, questa possibilità ci è preclusa, poiché questi corpi sono considerati come semplici, proprio perché resistono a tutti i nostri procedimenti di analisi. Ciò nonostante, rimane aperta un’altra strada. Si possono comparare le proprietà generali dei corpi isomerici alle proprietà dei metalli, e verificare se i metalli non riproducono qualcuno dei caratteri che appartengono alle sostanze isomeriche. Questa comparazione è stata condotta dal più autorevole dei chimici francesi, il signor Dumas, ed ecco i risultato che sono stati ottenuti.
Si è notato che in tutte le sostanze che presentano un caso di isomeria, si trovano abitualmente degli equivalenti uguali, o equivalenti multipli o sottomultipli gli uni degli altri. (2) Ora, questo carattere si ritrova presso parecchi metalli. L’oro e l’osmio, hanno un equivalente pressoché identico, e l’equivalente è rigorosamente identico per platino ed iridio; e Berrélius ha scoperto, aggiunge il signor Dumas, che le quantità ponderali di questi due metalli sono assolutamente identiche in pesi uguali dei loro corrispondenti composti. L’equivalente del cobalto, differisce appena da quello del nichel, mentre l’emiequivalente dello stagno è assai simile all’equivalente intero dei due metalli precedenti. Lo zinco, l’ittrio ed il tellurio, sotto questo aspetto, presentano differenze così insignificanti, che si potrebbero anche attribuire a leggeri errori sperimentali. (3)
Dumas ha inoltre dimostrato che, quando tre corpi semplici sono legati tra loro da grandi analogie di proprietà, come ad esempio cloro bromo, iodio, bario, stronzio e calcio, l’equivalente chimico del corpo intermedio è sempre rappresentato dalla media aritmetica tra gli equivalenti degli altri due.
Queste rimarchevoli similitudini hanno prodotto una grande impressione sullo spirito dei chimici. Esse costituiscono, in effetti, una plausibile dimostrazione dell’isomeria dei corpi semplici. Esse provano che i metalli, benché dissimili per caratteristiche esteriori, non provengono che da un’unica matrice differentemente arrangiata e condensata. Ora, se è vero che i metalli sono isomeri, la prima conseguenza da trarre è che è possibile cambiarli gli uni negli altri, vale a dire che è possibile realizzare la trasmutazione metallica.
La considerazione degli equivalenti riporta ad un’altro indizio in favore della trasmutazione dei metalli. Un chimico inglese, il dottor Prout, ha fatto per primo questa osservazione, ovvero che gli equivalenti chimici di pressoché tutti i corpi semplici sono multipli esatti del peso dell’equivalente di un’altro corpo semplice. Se si prende come unità di misura l’equivalente dell’idrogeno, il più piccolo di tutti, si osserva che gli equivalenti di tutti gli altri corpi semplici sono dei multipli di questo numero. Così, considerando come unità l’equivalente chimico dell’idrogeno, quello del carbonio lo contiene sei volte, quello dell’azoto, quattordici, quello dell’ossigeno sedici, quello dello zinco trentadue etc.. Non è questa una prova del fatto che tutti i corpi della natura sono formati da un medesimo principio, e che un’unica materia diversamente condensata produce tutti i composti che conosciamo? Se questa conclusione fosse ammessa, essa giustificherebbe il principio di isomeria dei metalli, e darebbe alla trasmutazione una base teorica incontestabile.
Il fenomeno della trasmutazione dei metalli non ha dunque nulla che sia in opposizione con le attuali teorie scientifiche.
Passiamo ora all’esame del modo pratico che permetterebbe di eseguire l’operazione.
È su questo che nasce la ridda delle obiezioni dei nostri avversari; ma sarà sufficiente, per superarle, di rettificare le opinioni assai inesatte che ci si è universalmente costruiti al riguardo della natura e del ruolo chimico della pietra filosofale.
Le persone estranee alla nostra arte, suppongono infatti che noi accordiamo a questo agente prezioso una modalità d’azione occulta ed in opposizione con i fenomeni abituali. Noi non ammettiamo nulla di simile. La pietra filosofale non possiede, secondo noi,alcuna proprietà sovrannaturale, ed il suo meccanismo d’azione non ha nulla che non trovi un’analogia completa con le leggi ordinarie della chimica. Portate un istante la vostra attenzione sui fenomeni che si riuniscono sotto la comune denominazione di fermentazione. La fermentazione, in generale, è un’operazione chimica operata nei prodotti organici, da una sostanza di natura sconosciuta denominata fermento. Ora, questa fermentazione, tanto ben studiata oggi nei suoi effetti principali. permette di comprendere senza difficoltà la trasmutazione dei metalli. In effetti, la trasformazione che si opera nella materia organica sotto l’influenza del fermento, è, ai nostri occhi, l’immagine perfetta dei cambiamenti che possono prodursi nei metalli, quando entrano in contatto con la pietra filosofale. La pietra filosofale è il fermento dei metalli; la trasmutazione metallica è la fermentazione trasposta dal dominio delle sostanze organiche a quello del mondo minerale, opportunamente adattata alle condizioni proprie di queste materie.
Nei metalli fusi e portati al calor rosso, si può produrre una trasformazione molecolare interamente analoga a quella che subiscono i prodotti organici fermentabili. Come lo zucchero sotto l’effetto del fermento si cambia in acido lattico senza variare nella sua composizione, allo stesso modo in cui esso si trasforma in alcool e acido carbonico, i quali riproducono integralmente la sua composizione, così i metalli, tutti identici nella loro natura, possono trasformarsi gli uni negli altri sotto l’azione della pietra filosofale, loro fermento speciale.
Se raffrontate il fenomeno generale della fermentazione all’ipotesi della trasmutazione alchemica, vi stupirete senz’altro delle analogie che presentano tra loro questi due ordini di eventi chimici. Senza dubbio, è difficile rendersi conto di ciò che può avvenire all’interno di un metallo sotto l’influenza della pietra filosofale, ma l’esplicazione teorica della fermentazione, per i chimici, presenta difficoltà analoghe. Nessuno ignora che la fermentazione si sottrae ad ogni teoria scientifica. Nelle reazioni ordinarie, in effetti, un corpo si combina ad una altro, un elemento si sostituisce all’altro in virtù di una attrazione superiore, ed in tutti questi casi ordinari la legge delle affinità riesce a spiegare l’evento. Ma nella fermentazione non si osserva nulla di ciò. Il fermento non prende parte direttamente alle alterazioni chimiche che, tuttavia, lui stesso provoca, ed alcuna spiegazione soddisfacente dei fatti sperimentali si può trarre né dalle leggi di affinità chimica, né nelle forze elettriche, nella luce o nel calore. Ci si stupisce di accordare agli alchimisti la proprietà di agire su dei metalli a dosi infinitamente piccole, e di assicurare, ad esempio, che un granello di pietra filosofale può convertire in oro una libbra di mercurio; ma la fermentazione ci presenta, in fondo, una particolarità del tutto simile. Il fermento agisce sulle materie organiche a dosi infinitesimali; il diastaso, ad esempio, trasforma in zucchero fino a duemila volte il suo peso in amido. E quando si è vista con i propri occhi, quale piccola quantità di fermento è necessaria per provocare in certi casi l’alterazione di una massa enorme di materia organica, si trova un po’ meno stravagante l’affermazione di Raimondo Lullo: Mare tingerem si mercurius esset.
Non vi è dunque nulla di misterioso nel ruolo chimico della pietra filosofale, e la trasformazione che essa può provocare nei metalli si spiega senza difficoltà quando la si compara a fatti del medesimo ordine di cui siamo tutti i giorni testimoni., Così, nelle verità riconosciute dalla chimica moderna, il dogma alchemico trova una conferma soddisfacente. Gli uomini che per dieci secoli hanno applicato lo sforzo di tutto il loro genio a questa opera mirabile, non erano dunque né impostori, né folli. Gever, Avicenna, Razi, Arnaldo da Villanova, San Tommaso, Raimondo Lullo, Alberto Magno, Basilio Valentino, Paracelso, Glauber, Kunckel, Becher, che hanno propagato queste dottrine, e la maggior parte dei grandi filosofi del medioevo che confessavano apertamente la loro convinzione, non furono affatto le cieche vittime della medesima follia. Essi non formarono una lega delle menzogne per truffare l’universo e regalare gli uomini all’abbraccio di esperienze chimeriche. Essi perseguirono con passione un principio per loro talmente chiaro, così irrecusabile, da poter essere la verità più semplice anche agli occhi di uno studioso dei nostri giorni. Quanto agli errori che sono rimproverati loro con tanta acredine, essi sono la conseguenza della filosofia del loro tempo. Mi sarebbe assai facile, in effetti, mostrarvi, considerando qualcuno dei principi generali dell’alchimia, che le sue lunghe deviazioni non furono che la conseguenza inevitabile delle dottrine filosofiche del medio evo.
Gli alchimisti accordavano, ad esempio, una certa importanza alla considerazione delle influenze sovrannaturali per l’interpretazione dei fenomeni fisici. Secondo loro, i pianeti simpatizzavano con i metalli; gli oggetti esterni, trovavano all’interno del nostro organismo, delle misteriose corrispondenze; gli esseri materiali, nutrivano delle affezioni morali; uno spirito invisibile regolava di volta in volta i rapporti fisici, intellettuali e morali di tutte le sostanze create. Ma nel medio evo, chi è il filosofo che ha ragionato altrimenti? Rimontate, per qualche istante, il sentiero del passato filosofico, e vedrete queste concezioni vaghe e mistiche imprimere la loro impronta su tutte le brache del sapere umano. La medicina, le scienze naturali e fisiche, si avvilupparono completamente dei veli tratti dall’oscurità di queste dottrine. Come i medici del quindicesimo secolo spiegavano, le proprietà dei farmaci, ad esempio quelle del piombo! Essi consideravano che il piombo purifica l’oro, e quindi, poiché guarisce e corregge le impurità dell’oro, è per sua natura proprio a scacciare ogni impurità dai corpi umani. L’argento era visto come specifico per le patologie del cervello, perché l’argento era consacrato alla luna, la quale era considerata in rapporto simpatetico con il cervello. E’ appena dall’inizio del XVII secolo che la fisica si è liberata da queste pastoie. Non è forse vero, che, ancora in quell’epoca, i fisici dibattevano con Boerhaave delle questioni come: «Le immagini degli oggetti riflessi nel centro degli specchi concavi, hanno un’anima?». Come dunque l’alchimia avrebbe potuto mettersi al riparo dalle immaginazioni che assediavano allora tutte le scienze?
Uno dei fondamenti principali delle teorie alchimistiche consisteva nel principio che i minerali seppelliti nel seno della terra, nascono e si sviluppano come esseri organizzati. Ma tutti i naturalisti, nel medio evo, hanno accordato ai minerali fossili la proprietà di accrescersi.
«Il sole genera i minerali nel seno della terra», è un assioma di tutta la scuola filosofica medievale.
Le conseguenze tratte da un tale assioma dovevano sembrare abbastanza legittime.
Gli alchimisti, considerando che l’oro è il più perfetto dei metalli, erano convinti che la natura, producendo le sostanze minerali, tende sempre a produrre dell’oro, il figlio dei suoi desideri. Quando le circostanze favorevoli alla formazione di questo metallo vengono a mancare, allora si producono degli aborti, ossia dei metalli vili. Ma questi filosofi aggiungevano che è possibile scoprire i segreti procedimenti della natura, scoprire la matrice nascosta che nutre, conserva ed elabora la semenza dei metalli, e che è possibile, attraverso il calore ed una adeguata alimentazione, fare in un batter d’occhio artificialmente ciò che avviene naturalmente nel seno della terra grazie al tempo ed al fuoco sotterraneo. Si trattava, ovviamente, di mere speculazioni; ma, condannarle, significa solo scagliarsi contro le concezioni filosofiche del medio evo. In assiomi di questo tipo si ritrova tutta la filosofia medievale, il cui carattere precipuo è consistito, proprio nel primato dell’ordine spirituale su quello fisico, nell’attribuire ai corpi bruti qualità morali, come nell’infangare di proprietà fisiche le realtà sovrannaturali astratte.
Amico mio, sospendiamo il giudizio, arrestiamo sulle nostre labbra ogni parola di condanna o di disprezzo. Questi uomini oggi tanto screditati hanno però reso dei servizi che la posterità non potrà disconoscere. I loro lavori hanno fornito le prime e più solide basi al monumento glorioso delle scienze, elevatosi ed ingranditosi a partire dal XVII secolo. Le loro innumerevoli ricerche, la loro infaticabile pazienza, la fortunata legge che si erano imposta di pubblicare anche le scoperte che non servivano all’affermazione delle loro particolari teorie, hanno prodotto importantissimi risultati.
Non voglio in tal modo giustificare tutti gli atti e le teorie degli alchimisti, ciò nonostante è impossibile non rendere omaggio a queste figure e, in qualche caso, alla giustezza del loro metodo scientifico. Essi attribuirono – come ben sapete – una estrema importanza, nei loro lavori, al fattore tempo. Le loro operazioni si prolungavano per interi anni, e qualche volta un’esperienza incompiuta era lasciata dall’alchimista in eredità al suo, figlio e successore. Questa importanza attribuita al tempo, elemento tanto ignorato ai nostri giorni, era, da parte degli alchimisti, segno di una osservazione attenta e profonda. È infatti riconosciuto che la natura realizza, col soccorso del tempo, innumerevoli operazioni che noi siamo impotenti a riprodurre in laboratorio, e, a tutt’oggi, ci è permesso di imitare qualcuna di queste operazioni solo grazie al concorso del tempo ed all’aiuto dell’elettricità.
Un alchimista condusse un giorno Cadet-Gussicourt nel suo laboratorio. e gli mostrò una piccola pietra porosa e leggera, di colore dorato. Egli aveva ottenuto questo curioso prodotto abbandonando, per interi anni, l’acqua piovana all’evaporazione spontanea, e raccogliendo la pellicola multicolore che si forma sulla superficie dell’acqua residua. Qual era la natura di questa sostanza? Era, come pensava l’adepto, un principio di vegetazione dell’oro provocato dallo spiritus mundi che si concentra nell’acqua esposta a lungo all’azione atmosferica? Io l’ignoro, ma ciò che so con sicurezza è che i nostri chimici attuali, con la loro maniera veloce di condurre gli esperimenti, non avrebbero mai rinvenuto un corpo simile. Nella celebre esperienza di Lavoisier, seguita con tanta perseveranza, e che, spiegandoci la composizione dell’aria, apre la strada alla più brillante serie di scoperte di cui la scienza abbia memoria, l’esperienza fu condotta con metodi di attenzione che sono un ultimo ricordo delle antiche pratiche alchemiche.
Sotto l’imperio della filosofia della nostra epoca, noi condanniamo le tendenze mistiche dell’antica alchimia e le sue continue preoccupazioni metafisiche. Io non oserei scagliarmi apertamente contro questo richiamo ai lumi della ragione Ciò nonostante io scorgo ancora, nella nostra scienza contemporanea, molte cose che non trovano spiegazione se non attraverso il ricorso a considerazioni di questo ordine. È riconosciuto, in fisica, che la forza di una calamita si accresce i modo sensibile quando si accresce la sua carica. Quando una sbarra calamitata sopporta un certo peso di ferro, si può tutti i giorni aumentare questo peso di una piccola quantità, fino ad un certo limite, al di là del quale la massa ferrosa si stacca e cade. La calamita in quel caso dà prova, come dicono i fisici, di una debolezza singolare. Essa non sopporta più i pesi che sopportava in precedenza, e, per rendergli la sua forza primitiva, bisogna caricare ogni giorno nuovi pesi aggiungendovene gradualmente e per piccole quantità. Non è forse questo il segno quasi di una oscura affezione spirituale in una delle forze del mondo fisico?
Piazzate un metallo ossidabile, il rame ad esempio, in presenza di acqua ed aria, entrambe pure. Il metallo non subirà alcuna ossidazione. Ma aggiungete tracce di un qualunque acido, o fate intervenire nell’aria una concentrazione di acido carbonico, e l’ossidazione avanzerà con rapidità. Si tratta di un’ampia categoria di fenomeni che in chimica porta il nome di azione di affinità predisponente. Si spiegano tali esperienze dicendo che l’acido provoca l’ossidazione del metallo, perché vi è affinità per l’ossido che si viene a formare. Ecco dunque un fatto materiale pressoché metafisico nei suoi caratteri, e che non trova vera spiegazione se non attraverso una teoria metafisica.
Sarebbe facile moltiplicare esempi di questo genere, ma non voglio smarrirmi in sottigliezze. Ho voluto solamente mostrarvi, con questi esempi, come una condanna assoluta delle dottrine dei nostri predecessori, sarebbe ingiusta e filosoficamente inaccettabile, e che è dunque saggio imporsi delle riserve nel formulare un giudizio.
Si presenta un giorno a Socrate un’opera, assai profonda ma altrettanto oscura, di Eraclito. Egli la legge con cura, e, quando gli si domanda un giudizio sullo scritto egli risponde: «Laddove l’ho compresa, la trovo ammirevole; credo che tale sia il valore anche delle parti che non ho potuto penetrare, ma mi occorrerebbero maggior capacità, che non posseggo, per pronunciarmi su queste ultime.».
Dopo queste parole, l’alchimista, affaticato dalla lunga arringa, si arrestò. Io approfittai del suo silenzio per rispondere brevemente alla sua apologia della scienza ermetica.
«Io vi ho ascoltato con attenzione – gli dissi – benché io qui non abbia sentito alcuna argomentazione che non mi abbiate presentato già altre volte, ed alcuno argomento al quale io non abbia già ampiamente risposto in altra occasione. Ciò nonostante, poiché, a quanto pare, avete voluto istituire un specie di disputa, proverò a rispondervi nuovamente.
I primo luogo, pensate di sorprendere i nostri chimici in una flagrante contraddizione perché essi ammettono che quattro sostanze semplici sono sufficienti alla formazione di tutti i composti organici, mentre le combinazioni minerali ne richiedono oltre sessanta. Ma la contraddizione non è che apparente. Esaminate la serie dei nostri sessanta corpi semplici, e noterete che assai pochi tra loro prendono parte attiva nei grandi processi fisici che avvengono sul nostro pianeta. La lista delle sostanze riconosciute come elementari è sicuramente assai lunga, mail numero di quelle che la natura mette in gioco nei suoi processi, è in realtà assai ristretto. Agli elementi che appartengono ala costituzione degli esseri organizzati, con un ruolo attivo, io ascriverei solo il cloro, lo zolfo, il fosforo, il silicio, l’alluminio, il calcio e il ferro. Con questi elementi voi avrete la lista più o meno completa degli elementi che rientrano nelle reazioni minerali. Tutto porta a pensare che l’ordine naturale dei grandi fenomeni del pianeta non sarebbe in alcun modo turbato, se, per esempio, le deboli quantità di platino, arsenico o zinco che si trovano disseminate per il globo, sparissero. Non deve sorprenderci, tuttavia, numero ristretto di elementi che entrano direttamente nella composizione dei composti organici. Con l’eccezione del carbonio, tutti gli altri quattro corpi fondamentali sono gassosi. L’equilibrio della loro combinazione è in questo modo instabile, e può dunque subire facilmente le mutazioni e le trasformazioni continue che sono la condizione essenziale della vita. Le combinazioni minerali resistono con più energia alle influenze esterne, la loro stabilità chimica è più forte, il che rende necessario il concorso di un numero più grande di elementi. Ma, in definitiva, si tratta di una differenza poco significativa che non può in nessun caso essere invocata come argomento probante.
Voi pretendete di avvicinare a eventi chimici abituali l’azione della pietra filosofale, mostrandoci nella fermentazione un fenomeno che offre qualche analogia con la trasmutazione dei metalli. Si può in questo modo, è vero, Privare la pietra filosofale delle qualità sovrannaturali che gli sono generalmente attribuite. Ma questo è il nostro unico vantaggio. Non è consentito vedere, in questo accostamento tra la fermentazione e la trasmutazione, che un bel confronto, che, d’altronde, è assai antico, poiché risale ad Hortolanus. Perché, per dimostrare che l’agente delle trasmutazioni partecipa in qualche misura, delle proprietà dei fermenti, per fare ammettere che nei metalli fusi e portati al calor rosso può avvenire una modificazione molecolare comparabile alla fermentazione, bisogna cominciare con l’ammettere l’identità della composizione dei metalli.
Ora, la teoria alchemica sull’isomeria dei metalli è ancora almeno contestabile.
Gli argomenti che invocate a favore della trasmutazione dei metalli non si basa su alcun argomento serio. Ma vado oltre, ed ammetterò per un istante con voi che tutte le vostre considerazioni in proposito abbiano un valore certo. Ammetterò, in particolare, che l’accostamento compiuto dal signor Dumas tra gli equivalenti dei corpi semplici di una medesima famiglia, sia associabile all’altro singolare rapporto scoperto dal signor Prout tra l’equivalente dell’idrogeno e quello degli altri elementi semplici. Ammetterò anche che tali accostamenti possano autorizzare la conclusione che voi ne traete al riguardo dell’isomeria dei metalli. Ma nonostante tutte queste ammissioni, la questione sarà comunque ben lontana dall’essere risolta in vostro favore. Pur accettando il valore di tutte queste ipotesi, noi saremmo condotti infatti a tale conclusione: «Allo stato attuale delle nostre conoscenze noi non possiamo provare in modo rigoroso ed assoluto che la trasmutazione dei metalli sia impossibile: alcune circostanze si oppongono a che la teoria alchemica sia totalmente rigettata come un’assurdità in contrasto con i fatti». Ecco, nella sua espressione più favorevole, la sola conclusione che sia possibile trarre dai vostri ragionamenti. Ma, dal fatto che una cosa sia considerata non impossibile, non discende affatto la considerazione che la cosa in questione esista. Non sapremmo provare che il piombo non si muterà mai in oro, ma da questo non consegue naturalmente che si possa effettivamente operare la trasmutazione reciproca di questi due metalli. Insisto su questa argomentazione, poiché essa mi pare tranci di netto il nodo dei vostri ragionamenti. (4) ».
«Ciò che voi mi accordate – rispose allora l’alchimista – è più che sufficiente per la causa che io sto perorando. Infatti, se voi riconoscete che le nostre teorie non hanno nulla, in definitiva, che offenda troppo le idee della chimica moderna, per conseguire la vittoria che ci aspettiamo, di mostrarvi che le trasmutazioni metalliche sono state effettivamente eseguite, e che diverse persone hanno scoperto e posseduto la pietra filosofale. Una sola testimonianza di questo tipo, a rigore, dovrebbe essere sufficiente per questa dimostrazione.
Gli scritti ermetici, tuttavia, sono letteralmente pieni di tali resoconti di trasmutazione; le narrazioni che vi si trovano sono accompagnate da una tale imponente quantità di testimonianze, che un autore moderno Schmieder, non esita a dichiarare che le prove storiche da sole sono sufficienti per stabilire la realtà della nostra scienza e l’esistenza della pietra filosofale. Nell’ascoltare il racconto di tali testimonianze, spero che vorrete condividere questa opinione.».

Voi sapete, amico lettore, che nella storia dell’alchimia le trasmutazioni metalliche formano un capitolo assai esteso. Così, vedendo il mio interlocutore prepararsi ad intraprendere il racconto della lunga storia delle prodezze degli alchimisti, mi spaventai al pensiero del tempo che il nostro colloquio poteva richiedere. Tentai così di protestare.
«È un po’ tardi», reclamai timidamente.
«Ma no, mio ostinato interlocutore, il sole è appena al tramonto, ed io ne vedo ancora i raggi indorare le torri di Saint- Sulpice. Ascoltatemi, dunque: io non vi lascerò che convertito!».
E qui l’adepto avviò la storia delle trasmutazioni metalliche.
Percorrendo in ordine cronologico gli eventi di questo genere di cui gli ultimi due secoli furono testimoni, egli riportò gli avvenimenti singolari raccontati da Van Helmont, Helvetius, Berigardo da Pisa e dal pastore Gros. Vennero in seguito le trasmutazioni operate nel 1648 dall’imperatore Ferdinando III con la polvere di Richthausen. Le avventure di Alessandro Sethon e quelle di Michele Sendivogio, suo allievo ed erede, furono lungamente rievocate. Passando al XVIII secolo il mio alchimista citò all’inizio le trasmutazioni attribuite allo svedese Paykūll, per passare in seguito alla vita misteriosa di Lascaris. Le meraviglie attribuite agli emissari di questo adepto, naturalmente, non furono dimenticate: Bōtticher, Delisle, furono citati con onore. In breve, il mio interlocutore non dimenticò nulla nella sua sommaria rievocazione degli importanti eventi della scienza trasmutatoria.
«Ecco dunque – riprese l’adepto terminando la sua lunga esposizione storica – una serie di avvenimenti che dimostrano come, a differenti epoche, diverse persone abbiano posseduto il segreto della trasmutazione. Ma esiste un’altra categoria di prove che non dobbiamo dimenticare, e che, infine, voglio farvi notare. Intendo parlare delle ricchezze considerevoli che si sono sempre viste nelle mani delle persone che erano in possesso della pietra filosofale. La storia ci fornisce, da questo punto di vista, testimonianze contro le quali è difficile elevare obiezioni.
Tutti gli scrittori ermetici assicurano che Raimondo Lullo, prigioniero di Edoardo III nella Torre di Londra, fabbricò oro per sei milioni, che servirono poi a colpire i nobili della Rosa. In Francia, Nicholas Flamel, trova nel 1882 il segreto della proiezione, e, da povero copista, appare improvvisamente immensamente ricco. Fonda a Parigi quattordici ospedali, costruisce tre cappelle, rileva sette chiese che adorna riccamente. A Pontoise, suo luogo di nascita, egli compie altrettante opere pie. Nel 1742 si distribuivano ancora le elemosine che egli aveva lasciato con il suo testamento. Non ci si è molto preoccupati di trovare l’origine delle ricchezze di Flamel; ma gli scrittori che hanno avanzato dei dubbi sull’argomento, come Gabriel Naudé e l’abate Villain, non hanno intrapreso le loro ricerche che due o tre secoli dopo la morte dell’alchimista. È bene sapere che, Flamel vivente, l’origine della sua ricchezza apparve sospetta. Il re Carlo VI fece istituire un’inchiesta da un magistrato, tal Cramoisi. Nulla sappiamo dei risultati di tale inchiesta, ma pare che da quel momento Flamel non fosse più infastidito in alcun modo.
L’alchimista inglese George Ripley, donò centomila libbre d’oro ai Cavalieri di Rodi, allorquando l’isola fu attaccata dai turchi, nel 1460.
Gustavo Adolfo, re di Svezia, attraversando la Pomerania, ricevette a Lubecca, da un sedicente mercante, cento libbre d’oro che furono convertite in ducati con impresso il segno della loro origine ermetica. Alla morte di questo sconosciuto si trovò presso di lui una fortuna di più di un milione e settecentomila scudi.
Non si può considerare che come prodotto alchemico, la fortuna di oltre diciassette milioni di risdalleri che l’elettore Augusto di Sassonia lasciò nel 1580, dal momento che questo principe è noto per essere stato più volte protagonista di trasmutazioni che egli eseguiva di sua propria mano.
Gli ottantaquattro quintali d’oro ed i sessanta quintali d’argento che si trovarono nel 1680 nel tesoro dell’imperatore tedesco Rodolfo II, avevano la medesima origine. Tra i principi dell’impero, Rodolfo II era stato il partigiano più dichiarato della scienza ermetica. Verso la fine del suo regno, la maggior parte della sua attività fu orientata dalla sua predilezione per l’alchimia. Tutta la sua corte era composti da spagiristi, e perfino i suoi lacchè non erano che alchimisti, che egli aveva come compagni nei suoi lavori. La casa del suo medico, Thaddeus di Hayec, era aperta a tutti gli artisti itineranti che, prima di essere ammessi alla sua presenza, dovevano, attraverso adeguate prove, farsi riconoscere per adepti: Il poeta di corte, l’italiano Mordecai di Dello, non aveva altra incombenza che celebrare le imprese degli artisti che frequentavano la corte i Praga.
Aggiungerò infine, per chiudere degnamente la nostra rassegna, che le ricchezze che papa Giovanni XXII ha lasciato ala sua morte nel 1334, non potevano essere che il risultato delle sue pratiche alchemiche. La contea di Avignone, dove era dislocato il santo seggio, non aveva, prima di quest’epoca, che ricchezze assai contenute, ed i papi precedenti non avevano certo brillato per opulenza. Nel tesoro di Giovanni XXII si trovarono venticinque milioni di fiorini. La fonte di questa fortuna si chiarisce subito, quando si ha presente che questo papa è annoverato tra gli scrittori ermetici, e che, nella prefazione della sua Ars trasmutatoria, si dice che egli ha usato la pietra filosofale in Avignone, fabbricando duecento lingotti d’oro, ciascuno del peso di un quintale! Invano mi obietterete che Giovanni XII è lo stesso papa autore della bolla Spondent pariter quas non exhibent¸ promulgata dalla Santa Sede contro gli alchimisti. Questa argomentazione non ha maggior valore di quella che vuole che i precetti per fabbricare l’oro dati dal papa nella Ars trasmutatoria siano privi di buon senso. Sono i mezzi escogitati dal papa per stornare dalla sua persona ogni sospetto di ermetismo. È l’astuzia del ladrone che grida al ladro!
Mi fermo qui. Mi sarebbe facile estendere ulteriormente la serie di queste prove storiche, ma ho voluto attenermi ai soli fatti universalmente conosciuti, a quelli giustificati da documentazioni autentiche.»
Tale fu il discorso del mio alchimista, e si comprenderà che dopo una rassegna storica di tal forza, non avrei potuto restare in silenzio senza disonore. Azzardai dunque una corta replica.
«Voi ci avete ricordato – risposi – la maggior parte degli eventi che si continua a rievocare in favore della realtà dell’alchimia. Confesso che tra queste prove addotte ve ne sono di tali da provocarmi un momento di imbarazzo. Ma non dirò certo nulla di nuovo affermando che tutti questi eventi mancano assolutamente delle possibilità di controllo che la dottrina filosofica ha il diritto di esigere in una tale materia.
Se l’autorità della testimonianza umana è accettabile senza riserve per i fatti comuni che non domandano, per essere constatati, che uno spirito libero e dei sensi fedeli, è tutt’altra cosa quando si tratta di stabilire la certezza di un fatto storico o di un risultato scientifico. Un soggetto di questo tipo reclama verifiche di altro tipo, e qui, nella fattispecie, tali verifiche difettano del tutto. D’altronde, ammettendo l’autenticità di tutti questi episodi, rimarrebbe comunque da comprendere come, una tale scoperta, una volta fatta possa essere andata perduta.
Lasciatemi inoltre aggiungere che la vera risposta ai vostri argomenti storici, la confutazione definitiva, non è comunque questa; essa si trova piuttosto contenuta in due o tre opere che gli avversari dell’alchimia non hanno mai cessato di opporre ai fautori della scienza ermetica.
Nell’Explicatio di Tommaso Erasto, nel Mundus subterraneus di Athanasius Kircher e nella dissertazione dell’accademico Geoffroy sulle soverchierie concernenti la pietra filosofale, presentata nel 1722 all’accademia delle scienze di Parigi, si trova la chiave di questi pretesi misteri. Questi scritti ci forniscono una spiegazione assai rassicurante sui misteri che, fino alla metà del secolo scorso, hanno alimentato la fede nella operazioni ermetiche. Vi si mostra attraverso quale incredibile serie di frodi, soverchierie e giochi di destrezza di ogni genere i soffiatori hanno saputo ingannare per dieci secoli i creduli contemporanei.
«Bisogna stare attenti – dice Geoffry – a tutto ciò che passa per le mani di questa gente». In effetti gli alchimisti pratici hanno spinto fino la limite ultimo l’arte di ingannare il pubblico. Il mercurio che si trasformava in oro sotto gli occhi di una assemblea stupefatta, era già saturo di una certa quantità di metallo prezioso; in luogo del mercurio puro, si impiegava un amalgama d’oro che differiva assai poco, al riguardo dell’aspetto fisico, dal mercurio ordinario: il metallo volatile piazzarlo nel crogiolo, spariva per l’azione del fuoco, e lasciava apparire l’oro. Il piombo che si trasmutava in argento o oro, non era altro, sovente, che un lingotto d’argento o d’oro ricoperto di piombo. I crogioli adoperati per le operazioni, erano sempre previamente manipolati. In un doppio fondo si piazzava dell’oro o una composizione aurifera isolabile col calore; il doppio fondo era sempre dissimulato da una patina di gomma o di terra di crogiolo. Il calore distruggeva la materia organica, e il metallo prezioso si mescolava così ai materiali dell’esperimento. Qualche volta si introduceva nel crogiolo dell’oro o dell’argento, agitando il composto fuso con una bacchetta di legno cavo che racchiudeva, nella sua cavità interna, della polvere d’oro o d’argento; il legno, bruciando, depositava al polvere d’oro nel crogiolo. Altre volte si riempiva di polvere d’oro o d’argento una piccola cavità ricavata nel carbone e nascosta mediante l’applicazione di cera nera. Questo carbone serviva a ricoprire il crogiolo, e la cera, fondendosi, lasciava poi cadere la polvere d’oro. Talvolta si imbeveva di una sospensione di polvere d’oro o argento della polvere di carbone, che si inseriva poi nel crogiolo come ingrediente indispensabile. Vi erano, d’altronde, mille maniere diverse di mescolare nel crogiolo – insieme alle varie sostanze reputate necessarie per l’operazione – i metalli preziosi sotto forma di ossidi o di calci, secondo il termine in uso all’epoca; queste, non offrivano alcuna apparenza metallica. Se si trattava in fine di cambiare in oro una medaglia d’argento o di piombo, si prendeva una moneta d’oro, la si imbiancava con il mercurio e la si presentava come fatta di piombo o argento. Quando si esponeva all’azione del calore, il mercurio evaporava lasciando apparire l’oro. È ben intesto che, in quest’ultima operazione, non era male sostituire la medaglia preparata con il mercurio ad una medaglia effettivamente fatta di piombo o argento, che il pubblico aveva avuto la possibilità di esaminare a proprio agio.
Si tratta, indubbiamente, di raggiri grossolani, facili da smascherare. Ma ciò che fa comprendere la lunga impunità di questi truffatori, è la profonda ignoranza nella quale si è vissuti fino al XVII secolo al riguardo dell’interpretazione dei fenomeni chimici. La metallurgia era, a quell’epoca, arte abbastanza imperfetta, e si era spesso impossibilitati a riconoscere in un metallo vile tracce di un metallo prezioso. Vi sono vari esempi, nella storia della chimica, di simili errori.
Non è che all’inizio del diciassettesimo secolo che tutti i chimici hanno conosciuto realmente il processo di dissoluzione dei metalli negli acidi. Così, fino al 1600, assai pochi hanno sospettato che il rame esisteva nel vetriolo blu, e sovente gli alchimisti hanno presentato come una trasmutazione del ferro in rame la precipitazione del solfato da una lama di ferro. Con la massima fiducia Paracelso e Libavius citano questa trasmutazione.
Così, la tintura filosofale degli alchimisti, sovente non era altro che la dissoluzione di oro ed argento in liquori acidi, e si presentavano le dorature artificiali ottenute come l’inizio di una trasformazione più completa.
Sarebbe dunque facile, confrontando la maggior parte dei vostri racconti con le cose riportate da Tommaso Erasto, dal padre Kircher e Geoffry, mostrare attraverso quali precisi artifici furono eseguite le trasmutazioni di cui avete rievocato i particolari. Ciò nonostante una simile dimostrazione non farebbe avanzare la nostra discussioni, che si ridurrebbe in sostanza ad una affermazione da una parte, ed una semplice negazione dall’altra. Vi è una via più corta. Essa consiste nel ricordare i numerosi episodi in cui la frode è stata scoperta grazie alla confessione degli stessi adepti.
Molto spesso, infatti, gli alchimisti ciarlatani, dopo aver portato a segno qualche colpo dei loro, si affrettavano a mettersi in salvo, e, una volta certi dell’impunità, confessavano pubblicamente la loro furberia ridendo a tutto agio della credulità delle vittime.
Un certo Daniele di Transilvania, truffò in questo modo il granduca di Toscana Cosimo I. Questo ciarlatano che univa al titolo d’alchimista la qualifica di medico, vendette agli speziali di Firenze una polvere chiamata usufur, che era conosciuta come rimedio universale. Fabbricava lui stesso il medicamento, nel quale mescolava una certa quantità d’oro. Per non rovinarsi nella speculazione che egli andava tramando, egli aveva cura, tra i medicinali che faceva acquistare dagli speziali per i suoi malati, di prescrivere sempre l’usufur. Dal momento che preparava lui stesso i medicamenti con le droghe che gli portavano, egli aveva cura di trattenere il prezioso usufur, il che era un modo ingegnoso di rientrare poco a poco dei suoi investimenti.
Quando la sua reputazione fu ben consolidata a Firenze, egli andò a trovare il Granduca e si offrì di insegnargli l’arte di fare l’oro. Egli operava, naturalmente, con il famoso usufur. Il granduca stesso manda a prendere il medicamento presso gli speziali della città, e, come si può facilmente indovinare, l’operazione riesce perfettamente. Cosimo I paga questa bella invenzione ventimila ducati. Ma, molto presto, il medico fu preso da un vivissimo desiderio di viaggiare, e così domanda al granduca il permesso di visitare la Francia. Una volta al riparo, egli scrive senza più cerimonie al granduca, informandolo del cattivo tiro che gli aveva giocato.
L’avventuriero Delisle di cui avete parlato, si serviva di procedimenti meno complicati. Egli trasformava in oro delle piccole masse di piombo o delle medaglie d’argento attraverso il ben conosciuto procedimenti dell’imbianchimento col mercurio. Ma l’operazione che sopra ogni altra, gli servì per meravigliare la Provenza, consistette nel tramutare in oro dei chiodi di ferro. Per ottenere questo effetto egli fabbricava un chiodo d’oro e lo ricopriva di una leggera patina di ferro, in modo da farlo passare per un chiodo ordinario. Tuffando l’oggetto così preparato nella pretesa tintura, che non era altro che un liquore acido, egli dissolveva la patina superficiale del ferro ed appariva l’oro. La triste fine di questo avventuriero ci mostra, d’altronde, che egli aveva menato troppo a lungo per il naso la corte e la provincia.
Ma la triste fine di Delisle non è l’unica che abbia disvelato i colpevoli inganni dei soffiatori.
Sotto Luigi XII, un tal Dubois faceva un gran parlare di sé per vie delle sue trasmutazioni. Si trattava di un avventuriero che, dopo aver a lungo viaggiato come medico per il Levante, si fece cappuccino, per poi recarsi in Germania, dove gettò il saio ed abbracciò la religione riformata. Di ritorno in Francia egli si sposò con il titolo di signore di Meilleriei. Assicurava che la pietra filosofale di cui faceva uso proveniva direttamente da Nicolas Flamel; egli pretendeva di averla ricevuta in eredità da suo zio, pronipote del medico Perrier, a sua volta nipote di Pernelle, moglie di Nicolas Flamel. Dubois si vantava inoltre di conoscere il modo di comporre la polvere filosofale. Queste vanterie arrivarono all’orecchio di Richelieu, che fece arrestare l’alchimista intimandogli di ripetere le sue esperienze davanti al re. In presenza di Luigi XIII e del cardinale, Dubois muta in oro un pallottola di moschetto che era stata presa da una giberna di una sentinella. Il re si affretta a far nobile questo uomo così abile, e, addirittura, fa di più e lo nomina presidente delle tesorerie. Ma Richelieu si mostra più esigente e comanda a Dubois di comunicare il suo segreto. Ma l’alchimista rifiuta di confessare, e così il neo-presidente viene gettato in prigione, e si istituisce un processo a suo carico. Ma ai suoi rifiuti ripetuti di comunicare il segreto, Dubois vede riproporsi incessantemente la medesima domanda. Pressato in tal modo, il malcapitato comincia a dettare qualche procedimento, che, prontamente provato, viene riconosciuto falso. Non ottenendo nulla di più il cardinale, furioso, lo rinvia al tribunale, che lo condanna come mago e lo fa impiccare.
Alla fine del secolo scorso, in Inghilterra, si è molto parlato delle circostanze che portarono al suicidio di Price. James Price, era uno stimato chimico, che ebbe la sfortunata idea di occuparsi di alchimia, ew di vantarsi ben presto di possedere la pietra filosofale. A Londra egli condusse sette o otto trasmutazioni pubbliche. Fece stampare i resoconti delle sue esperienze, ed il re d’Inghilterra fu curioso di possedere i lingotti d’argento fabbricati dall’alchimista. Ma la Royal Society di Londra, di cui Price faceva parte, si sollevò intorno alla questione. Il chimico fu invitato a ripetere i suoi esperimenti davanti ad una commissione selezionata dalla Royal Society. Egli rifiuta a lungo il confronto, adducendo a scusa che la sua provvista di pietra filosofale si era esaurita e che gli bisognava molto tempo per prepararne dell’altra. Alla fine, egli si mette all’opera, ma la dimostrazione fallisce. Rinnegato dagli amici, spinto all’estremo da ogni lato, egli, alla fine,si avvelena.
Ma abbastanza tempo prima di Price, all’alchimista Honsüer non era toccata sorte più fortunata. Egli era riuscito ad ingannare il duca di Wurtemberg con un procedimento assai semplice, come vedremo. Il duce operava lui stesso sotto la direzione di Honsüer; quando il crogiolo era carico e l’esperimento era approntato, per evitare ogni sospetto di frode, egli faceva uscire tutti dal laboratorio e ne sequestrava la chiave. Ma l’alchimista aveva però avuto l’ingegnosità di far nascondere un ragazzino in una cassa. Quando il laboratorio era deserto, il ragazzino andava semplicemente a mettere dell’oro nel crogiolo, e poi si ritirava nel suo nascondiglio. Il principe era tanto più impaziente di riuscire nel suo esperimento, dal momento che egli aveva già speso più di sessantamila libbre d’oro col suo alchimista. Sfortunatamente, un curioso scopre il trucco. Come voi sapete, i principi tedeschi non manifestano senso dell’umorismo in questi campi. Il filosofo per fuoco, fu impiccato ad una forca dorata.».
Durante l’ultima parte della nostra conversazione il mio interlocutore era distratto ed agitato; egli lasciava trasparire evidenti segni di impazienza.
Egli, infine, si alzò:
«Ascoltatemi – mi disse – voi probabilmente avrete letto solo qualche scritto alchemico, con l’unica motivazione di raccogliere qualche testimonianza che vi sembrava piccante. Non è in questo modo che si arriva alla verità. Non vi arriva che attraverso una seria volontà di ricercarla.».
Dicendo queste parole, egli trasse dalla sua tasca, con tutta l’attenzione immaginabile, un vecchio libro che mi porge:
«Tenete – mi dice – io vi affido questo scritto, esso racchiude le verità della nostra arte, esposte con la più grande semplicità. Leggetelo con attenzione, e , soprattutto – aggiunse posando le dita sulla prima pagina del libro – meditate bene la sentenza che orna il frontespizio».
Detto ciò, il mio filosofo cominciò a ritirarsi con passo lento. Mentre si allontanava, io mi affrettai ad esaminare il volume prezioso che egli mi aveva affidato. Si trattava di uno dei tanti scritti che ci hanno lasciato gli alchimisti, e non mi pareva né più chiaro né più ragionevole di tutti gli altri. I miei occhi, si portarono su quella famosa sentenza che l’alchimista aveva raccomandato alla mia attenzione. Era la massima del Mutus liber:
Lege, lege, lege et relege, labora, ORA, et invenies.

NOTE:

(1) Nel 1834, un anziano preparatore di chimica, il signor Tiffereau di Nantés ha presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi diverse memorie contenenti al descrizione dei procedimenti che gli avrebbero permesso di fabbricare artificialmente dell’oro durante il suo soggiorno in America. È facendo reagire dell’acido azotico sull’argento che il signor Tiffereau vide prodursi, come residuo dell’azione di quest’acido, particelle insolubili che egli considerò come oro. A nostro avviso, questi depositi metallici insolubili nell’acido azotico, ottenute dall’autore nelle esperienze eseguite in America, dipendono dalla presenza naturale, nell’argento impiegato, di qualche metallo inattaccabile dall’acido azotico, come l’oro, il platino, l’iridium etc.. In effetti, il signor Tiffereau, avendo provato a ripetere i suoi esperimenti, in un laboratorio della zecca ed alla presenza del signor Levol, preparatore e chimico sperimentale, ha fallito completamente i suoi obiettivi, e non ha potuto presentare alcuna traccia di quell’oro artificiale che egli afferma di essere riuscito a produrre in America. Nella prima edizione di quest’opera noi abbiamo riprodotto una parte delle memorie presentate dal signor Tiffereau all’Accademia delle Scienze; si trattava di un documento che ci pareva interessante per la storia scientifica della nostra epoca. Tale riproduzione è divenuta inutile dal momento che l’autore ha pubblicato in un piccolo volume la raccolta delle sue relazioni. Tale raccolta ha per titolo: I metalli sono corpi composti, I vol. in 8° di 134, pgg, , 2° ediz. Vaugirard 1837.

(2) Si designa in chimica, col nome di equivalente o numero proporzionale, di un corpo semplice o composto, la quantità in peso di questo corpo che deve combinarsi ad un altro per formare un composto: questa quantità è invariabile.

(3) Dumas, Philosophie chimique, pag. 319.

(4) Per rafforzare l’argomentazione che precede, bisognerebbe invocare il risultato delle esperienze dirette che il signor Despretz ha compiuto per indagare la questione della semplicità dei cosiddetti corpi elementari. Despretz ha concluso, dopo una lunga serie di esperimenti, in favore della semplicità di questi elementi. Non potendo in questa sede dilungarci sui dettagli e le conseguenze da trarre da queste esperienze, rinviamo il lettore alle memorie di questo fisico inserite nei Comptes rendus de l’Académie des Sciences, seduta del 15 novembre 1858, ed alla medesima raccolta per le critiche che Dumas ha creduto di dover fare in proposito, nel 1859. Si troveranno queste memorie contraddittorie di Dumas e Despretz nel nostro Année Scientifique, terzo e quarto anno.

(5) Ars trasmutatoria, opera apocrifa tradotta in francese nel 1557, che gli alchimisti non mancano di attribuire al papa, per vendicarsi delle avverse misure che Giovanni XXII prese contro di essi.