Pagina on-line dal 05/05/2012.

La vicenda dell’avventuriero Marco Bragadin, al secolo Mamugnà, di origine cipriota che percorre l’Italia e l’Europa truffando con le sue false tramutazioni nobili e signori, è forse tra le più emblematiche di quella categoria di ciurmatori che, a margine della fede nelle possibilità effettive della trasmutazione dei metalli, ebbe vasta rappresentanza tra il XVI ed il XVII secolo.
Sulla storia di questo picaresco imbroglione – emigrato a Venezia dopo l’invasione turca di Cipro – la cui tragica fine (per le sue truffe fu decapitato nel 1591 dal Duca Guglielmo V di Baviera) doveva divenire un monito continuamente invocato dai nemici della trasmutazione, ci siamo già brevemente intrattenuti in un nostro articolo, reperibile su questo stesso sito, nell’ambito del quale abbiamo trattato la vicenda di qualcun altro di questi abili (e meno abili) approfittatori.

Abbiamo, sempre a riguardo della storia del Bragadin, messo on-line anche la traduzione di un brano tratto da Voyages du seigneur de Villamont, Chevalier de l’ordre de Hierusalem, Gentilhomme du pays de Bretaigne, divisez en trois livres (A Paris, par Claude de Monstr’oeil et Iean Rchier, 1595), brano che costituisce una delle più rilevanti testimonianze contemporanee.

Una più ampia biografia di Marco Bragadin è reperibile nella voce di H. Kallfelz per il Dizionario Biografico della Treccani, oggi on-line.  
Questa breve ricognizione della documentazione (soprattutto corrispondenze) riguardante il Bragadin, rinvenuta nell’Archivio Generale di Venezia, si deve alla penna di Bartolomeo Cecchetti (Venezia 1838- Roma 1889), abile paleografo ed archivista formatosi alla Scuola di Paleografia di Venezia diretta dal Foucard, dal quale apprese, oltre alla formazione paleografica, anche, probabilmente, gli ideali liberali e patriottici coltivati per tutta la vita. La sua carriera, dopo una breve parentesi presso l’Ufficio registratura della Luogotenenza e la contabilità di Stato, si svolse tutta all’interno dell’Archivio Generale di Venezia, dove assunse, già a partire dal 1863, la direzione della sezione storico-diplomatica. I suoi ideali liberali lo portarono anche a subire, poco prima del passaggio di Venezia all’Italia, un arresto da parte del governo austriaco (il Cecchetti, nel luglio 1866, si era rifiutato di assecondare l’ordine di trasferimento dei più importanti fondi archivistici dell’Archivio Veneziano in Austria). Al successivo passaggio di Venezia all’Italia, egli fu nominato componente della commissione incaricata di definire con le autorità austriache la lista delle documentazioni d’archivio e delle opere d’arte sottratte al Veneto durante la Luogotenenza. Nel 1876 egli venne nominato direttore sovrintendente degli Archivi del Veneto, carica che conserverà fino alla morte.
Senza passare alla storia come storico geniale, Bartolomeo Ceccherini fu abile paleografo ed archivista, e la sua opera contiene più spunti rilevanti nell’ambito della ricostruzione storico-documentale, specialmente della storia veneta.
Il breve articolo che presentiamo uscì nel primo volume dell’Archivio Veneto, (1871, pp. 170-172), rivista di cui il Cecchetti fu uno dei più fedeli ed autorevoli collaboratori. 
Su Bartolomeo Cecchetti, per approfondimenti, vedi anche la completa voce del Dizionario Biografico Treccani.

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

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UN ALCHIMISTA A VENEZIA

Bartolomeo Cecchetti

A Torbiato, nel territorio bresciano, sullo scorcio dell’anno 1589, trovavasi un ex-cappuccino, messer Marco Bragadin di Cipro, allora venuto di Francia, che scialava da gran signore. Banchettava splendidamente, ed era visitato da molte distinte persone, fra le quali Alfonso Piccolomini e il duca di Mantova; aveva per amici alcuni gentiluomini, quali il conte Marcantonio Martinengo di Villachiara.
Il consiglio dei Dieci, avuto sentore delle ingenti spese che andava facendo il messere, volle saperne la fonte, ed ebbe, che il Bragadin riteneva i suoi copiosi scudi da un suo secreto di convertire l’argento vivo in oro. I rettori di Brescia (Lettera 30 ottobre 1589 al Consiglio dei X) aggiungevano ch’egli aveva già preparato di quella sua pietra filosofale tanta da farne più di centomila zecchini, e trasmettevano al consiglio dei Dieci alcune oncie dell’oro da lui formato.
Corsero colloqui e lettere per indurre il Bragadin (sollecitato dal Duca di Mantova a recarsi nel suo Stato) a Trasferirsi a Venezia, per arricchire, colla maravigliosa invenzione, il suo principe naturale.
Giungeva egli infatti a Padova (25 novembre 1589), accompagnato dal Conte Martinengo, da altri gentiluomini bresciani e vicentini, scortato da due compagnie (circa 100) di cappelletti, da alquanti bombardieri della città di Vicenza e da 50 cavalli mandati ad incontrarlo; ed era accolto onorevolmente nel palazzo pubblico del podestà e vicecapitano di Padova, cav. Zuanne Soranzo.
Arrivato a Venezia, cominciarono gli esperimenti; il Senato invitò i Provveditori in Zecca a trovarsi col Bragadino, «e ragionar seco, o con alcuno delli suoi più confidenti per penetrar con ogni destrezza e prudenza nella verità di questo negotio, et in quello che si possa assicurarsi et promettersi della riuscita di esso».
Non si poté però subito persuaderlo a ripetere la proiezione, dinanzi Sua Serenità; ora diceva voler attendere alle cose dell’anima; ora esser sturbato dalla grande frequenza di nobili in sua casa; ora incerto se accettare le larghe offerte e gl’inviti direttigli dal Duca di Baviera Ferdinando, che vagheggiava anch’egli (come il duca di Mantova e tutti gli Stati antichi e moderni) il nobile metallo. Ma finalmente nel giorno dell’Epifania, il 6 gennaio 1590, venne in palazzo ducale assieme al Martinengo, che, innocente o di mala fede, gli teneva bordone, e si offerse di formar l’oro sotto gli occhi del doge Pasquale Cicogna, «uomo di santi ed illibati costumi, e di religiosa carità». E qui le scritture officiali contemporanee ci dipingono i Consiglieri, i Capi della Quarantia, i Provveditori di Zecca, un nipote del doge, il suo scudiero e altri….
L’esperimento ebbe luogo nella stanza medesima, e fra gli alari del caminetto del doge; fu comperato il mercurio dal suo scudiere, gettato nel crogiuolo sotto gli occhi di tutti, aggiuntavi una polvere colore arancio – la polvere trasmutatrice, ed un pezzetto di altra materia detta da Bragadin di nessun valore, ed invitato il doge a seguire attentamente i fenomeni del processo. «Serenissimo principe, Vostra Serenità sia contenta di venire ancor lei, perché l’opera si fa a sua contemplatione. – Et sua Serenità si levò, et venne a vedere, standovi un poco; et il clarissimo Querini si sentò per alquanto spatio sopra una sedia vicino al foco», che era ravvivato dagli stessi patrizi. Raffreddato il crogiuolo, ne fu estratto un pezzo d’oro.  
Così era finita la commedia – mentre uno dei più increduli, il consigliere Donà, stava, sempre lontano senza curarsi di veder cosa alcuna.
Il Bragadin assicurava che dal suo oro «erano stati fatti cimenti grandi, et è stato conosciuto finissimo». Ma così non la pensarono i Provveditori della Zecca, che riportarono due giorni dopo il risultato dell’assaggio fattone eseguire – e l’oro apparente fu dimostrato una lega di argento e di rame.
Pochi mesi dopo, il ciurmadore (sulla cui vita passata, mezzo-secolare, mezzo-fratesca, e tutta intrighi, s’era fatta intanto luce) si trafugava quasi vittima delle persecuzioni, raccomandando da Bassano (6 agosto 1590) a Giacomo Alvise Corner « di smorzare  colle sue parole qualche opinione a sé sfavorevole». Veggansi tutti i documenti relativi al Bragadino nei codicetti n° 80, primo e secondo, già della collezione Brera, ora nel R. Archivio Generale di Venezia.
Questo episodio vale a dimostrare che, qualunque fossero lo stato delle scienze sperimentali, e le credenze superstiziose dei tempi passati, il governo Veneto si mostrava superiore agli altri nello scoprire il vero, sotto gl’inganni di que’ Sedicenti filosofi che furono quasi tutti più frodatori che illusi.