Pagina on-line dal 19/05/2012

Michele Sartorio

UN POETA ALCHIMISTA.
Tratto da Ricoglitore italiano e straniero, rivista mensuale europea di scienze, lettere, belle arti, bibliografia e varietà. Anno III, parte II, 1836, pp. 14 – 31.

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Non ci si vantino più i tentativi della filosofia ermetica e trismegistica degli Egiziani; poco rileva il sapere che i greci dessero ai loro chimici il nome di creatori, come ce lo attesta Zosimo, o che siffatto nome egualmente assegnato ai poeti, abbia dato origine a quello di crisopei o fabbricatori dell’oro; o che la scienza del chimico fosse ristretta alla sola parola pirotecnica.
Che monta il sapere se gli Arabi nella loro puerile presunzione pensassero ridestare l’amore della chimica assegnandole un’origine celeste e intitolandola alchimia, parola composta della particella araba al e chimia, denotante eccellenza o superiorità; o, com’altri vorrebbe, da alchi, celeste, e ma, simile?
Paracelso, quello stupendo pazzo, su la testimonianza dei Salmi, disse la chimica “arte isopica”, perché essa, giusta l’opinione di lui, purifica e pulisce i metalli. Non sarà però inutile l’avvertire che la scienza venne migliorando, allorché sotto la denominazione arte spagirica indicava soltanto l’arte di segregare e comporre. Non parlo del nome assegnatole di metallurgia che meglio accenna allo stato presente delle nostre cognizioni sulla separazione e composizione de’ metalli: quella di docimastica è pure commendevole perché indica anche oggidì l’arte di assaggiare i metalli e le miniere.
Il nome collettivo sotto il quale si comprende l’alchimia, la panacea universale, la pietra filosofale vale a dire l’arte di tramutare i metalli in oro, o di trovare quell’acqua maravigliosa che deve dare una salute e una giovinezza eterna, è quello di filosofia ermetica. Alcuni adepti, e per adepti chiamai nel linguaggio tecnico della grand’arte colui che si è a lungo occupato dei segreti, e tra essi quali iniziati sin contavano niente meno che Noè, Mosè, Cleopatra, Caligola (mischianza invero strana): alcuni adepti, dico, con questa parola intendevano alcun che di più elevato, avendo perfino pensato taluno che si potesse col mezzo della pietra filosofale trarre dal nulla una creatura simile affatto all’uomo.
La pietra filosofale, asseriscono gli archimandriti della grand’arte, tiene il primo posto fra tutte le cose create. Natura senz’arte non può compierla, e arte senza natura non ardisce imprenderne il tentativo; essa è un capolavoro, un portento un non plus ultra che circoscrive la potenza d’ambedue. A malgrado di questa sì strana definizione estratta dall’opera di un adepto, l’alchimia, qual viene intesa generalmente, si limita a somministrare i mezzi di cangiare tutti i metalli in oro, e ad estrarre dai medesimi elementi una polvere e un liquore atto a prolungar la vita e la sanità al di là dei limiti che vengono ad esse ordinariamente assegnati. Raimondo Lullo, Paracelso, Nicola Flamel e tant’altri l’hanno posseduto il gran segreto, e a parer di costoro la composizione della pietra magica offre pochissime difficoltà (1). Non ostante però questa mirabile semplicità dei segreti componenti, più d’uno dei cosiddetti soffiatori si rovinò in poco tempo. Che se vi furono alchimisti di buona fede, i quali si sono rovinati cercando la gran pietra, vi furono anche molti impostori che fecero la loro fortuna, ora giovandosi d’un crogiuolo preparato all’uopo, in cui l’oro era nascosto in guisa di non poter essere veduto, ora amalgamando col piombo o col rame fuso alcune particelle di siffatto metallo, contenuto in un bastone cavo di cui si faceva uso per mischiare la preparazione. Nel secolo XVI il numero degli alchimisti, ingannatori o ingannati, si accrebbe in modo da farne una classe a parte.
Mi sarebbe qui facile il meritarmi, o lettore, la lode tanto scapitata a’ nostri giorni di dotto, d’erudito, di diligente, se volessi mostrarti con Plutarco, Plinio, Platone, Demetrio d’Abdera alla mano in qual maniera la chimica dopo aver trascorso gradatamente l’Egitto, la Grecia, fra le persecuzioni, i mutamenti degli imperi, gli orrori della guerra, si ricoverasse nell’Arabia verso il IV secolo dell’era volgare, ove piantò stabil sede sotto il magico nome di alchimia. Ma tutte queste peregrine notizie mi concilierebbero fors’anco gli onorevoli titoli di pedante, di noioso e peggio. I nostri dotti, e fra gli altri Cuvier, considerano l’alchimia un vaneggiamento del medio evo ignoto all’antichità. I pretesi libri d’Ermete, a giudizio di lui, sono evidentemente apocrifi, e vennero compilati dai Greci del basso impero. Pare però probabile che ai Giudei singolarmente l’Europa vada debitrice dell’alchimia, che venne poi con tanta fortuna coltivata da Raimondo Lullo, da Paracelso e da Arnaldo da Villanova. Per noi basterà dunque l’accennare che gli alchimisti si proposero due fini nei loro arditi tentativi: il primo era quello di far l’oro, come dicemmo, e l’argento col mezzo della pietra filosofale, a rintracciar la quale studiavano dì e notte per eseguire la portentosa trasformazione; il secondo era quello di scoprire una panacea universale per la guarigione di tutte le malattie. Per tal modo l’alchimia può dividersi in due grandi periodi: il primo abbraccerebbe lo spazio di cinquecento anni, principiando dall’ottavo secolo e giungendo fino al tredicesimo. In tutto questo tempo la maggior parte degli scienziati e non scienziati occupantisi di chimica non avevano che un solo fine, quello cioè di fabbricare l’oro e l’argento; non è meraviglia se una dottrina che aveva per fondamento l’interesse individuo, il più potente incentivo delle umane azioni (per nostra disgrazia), abbia dominato così a lungo. Il secondo periodo fu di minor durata: traviò le menti nel giro di trecento anni, dal secolo tredicesimo fino al sedicesimo. Più nobile, più conforme alla ragione e all’umanità n’era il fine; le ricerche, in allora meno celate e meno avvolte nel mistero, scendevano fino al popolo. Fortunati gli alchimisti se avessero potuto suggerire un mezzo di sottrarre la delirante umanità agli eccessi e ai tormenti delle conquiste, delle stragi, degli odii implacabili, più penosi, più insopportabili che non sieno, non che le malattie, la morte istessa. Era poi nella natura dell’alchimia il dare origine ad abusi ed errori: il segreto più inviolabile affratellava coloro che la coltivavano, e scrupolosamente il custodivano, facendo correre la persuasione, che la massima delle sciagure sarebbe piombata sul capo di chi ardito avesse rivelarlo senza una manifesta disposizione della divinità. Si abusava della credulità e della fortuna di taluni, ai quali si facean pagare a peso d’oro i manoscritti acquistati con la speranza che mediante la scoperta del famoso mistero potessero giungere all’immortalità. Eppure in mezzo a questi detestabili sutterfugi, a questi colpevoli inganni, sorgono alcuni nomi, che la storia ha conservati, ad atttestare lo zelo e la buona fede di gente che si consacrava alla scienza con lodevole proponimento di trarne alcun utile in pro de’ fratelli, e quindi non risparmiavano a cure per potersi sicuramente riuscire. E alchimisti furono Alberto il Grande (2), Rugero Bacone, Raimondo Lullo, Arnaldo di Villanova, Giovanni ed Isacco Holand, nel primo periodo; e nel secondo, Basilio Valentino, Paracelso e il suo discepolo Van-Helmont, finché Boyle, Agricola, Glauber, Kunchel, Bonio, Libario, Lémery e infiniti altri rovesciarono l’idolo funesto, per dar luogo al flogisto, a quel grande errore di Stahl che a ragione merita d’essere ascritto al novero delle grandi scoperte.
L’Italia, che pure deve fare bella mostra di sé in ogni arte e scienza, oltre molti dotti che con buon successo coltivarono  l’alchimia, diede all’arte misteriosa anche il suo poeta in Giovanni Augurelli, intorno al quale potete leggere un articolo smilzo smilzo nella Biografia Universale, steso dal Ginguené, credo, e una notizia estesissima nel volume VI della famosa raccolta Calogeriana. È legge immutabile che anche le più scabrose facoltà, le più astruse parti del sapere renitenti alle gentili espressioni delle grazie, abbiano ad essere assoggettate dalle menti italiane, tanto eminentemente poetiche, alle forme parlanti del bello sensibile, e atteggiate all’espressione più facile, più viva e più armonica. Per chi conosce e apprezza il Paradiso di Dante, e davvero che anco tra gli Italiani possiamo contar pochi di siffatti giudici e ammiratori illuminati, la cosa non giunge per nulla nuova. Dobbiamo alle cure diligenti e coscienziose del Roscoe alcune peregrine notizie intorno a quest’uomo, del quale parlano con qualche estensione anche il Tiraboschi e il Mazzucchelli. Moreri, scordandosi affatto che l’Augurelli fosse poeta, e solo ponendo mente all’argomento del maggior poema di lui, lo ha qualificato celebre chimico e null’altro. Giovanni Augurelli o Augurello, era nato, al dir del Roscoe, verso l’anno 1441, di qualificata famiglia in Rimini, donde fu spesso chiamato Giovanni Aurelio da Rimini. Ma qui avverte il cavaliere Bossi, che di tante belle aggiunte ha arricchito al traduzione del secolo di Leone X: «Se fosse vero che Augurelli morisse a Treviso nell’anno 1524, in età d’anni ottantatrè, come viene attestato da molti scrittori e da Roscoe istesso, l’anno della nascita di lui anziché raccostarsi, dovrebbe riferirsi verso il 1438». E qui non si vuole dissimulare, soggiungono le notizie della Nuova Raccolta Calogeriana, la debolezza ch’egli dimostrò, lasciandosi vincere ne’ suoi primi anni dalla beltà donnesca, dovendosi avvertire insieme che l’amorosa inclinazione della natura sortita e’ così bene temprar seppe, che ad onta della corruzione di quel secolo licenzioso, non fu dalla passione giammai a cosa vile inchinato. Ma nell’età di diciannove anni, siccome egli afferma, preso da onesto affetti di una gentil fanciulla in cui aveva:

Raccolto il Re del cielo per sua vaghezza,
Beltà, virtù, fresc’anni e nobilitate,

Ne fece il soggetto de’ suoi giovanili volgari e latini versi, coi quali leggiadramente e castamente  insieme la celebrò, emulando anche in questa parte il più bel Tosco ch’egli s’era per esemplare proposto. I primi studii e’ li fece nel celebre studio di Padova, ove dimorò per venti anni.

Dulcibus sic dum teneor potentum
Ipse musarum studiis et oti
Debitus, dudum patriae duyo bis
Lustra reposcor
(3)

Ivi è probabile ch’egli cominciasse a dare pubbliche lezioni di belle lettere, giacché il Trissino nel Castellano lo qualifica come il primo che osservasse le regole della favella italiana dal Petrarca prescritte. Indi a non molto ottenne il favore la protezione di Nicolò Franco vescovo di Trevigi e passò a dimorare con esso lui in quella sede vescovile, dove fu fatto canonico e venne, com’era stato prima in Padova, onorato della cittadinanza. Dopo la morte di questo mecenate egli lasciò Trevigi e visse circa quindici mesi in Feltre per dedicarsi senz’alcuna interruzione allo studio della lingua greca. Infine si stabilì in Venezia, ove acquistò altissima rinomanza qual precettore privato, ed ebbe l’onore di annoverare fra i suoi discepoli Bembo, Navagero ed altri che in appresso gli procacciarono gran celebrità. Paolo Giovio il chiamava «il più dotto e candido d’ogni altro, che a’ tempi suoi insegnasse privatamente lettere greche e latine». Tuttavia è grido che gli studii di lui fossero interrotti da una mania violentissima per l’alchimia, al quale lo indusse a sprecare le migliori ore del giorno accanto a un fornello nella vana aspettativa di scoprire una sostanza ch’e’ supponeva atta a convertire i metalli più vili in oro. Pare però che vedendo deluse le proprie speranze si stogliesse dall’insistere in quella vana ricerca, e invece di perseverare nelle sue operazioni chimiche, prudentemente deliberasse di esporre l’astruso argomento dell’alchimia in versi latini, nei quali compose un poema in tre canti intitolato Crisopea (4), ossia l’arte di far l’oro, ch’egli dedicò a Leon X con pochi versi eleganti che servono d’introduzione, e che meritano d’essere letti. Da essa e da varii passi del poema si raccoglie che l’opera era scritta sotto il pontificato di Giulio II, nel tempo della guerra di Cambrai, e che la dedicatoria a Leon X fu premessa al libro molto di poi, allorché il poeta risolvette di darlo in luce.
Per questo poema crebbe assai la fama del nostro alchimista, e altri giudiziosamente in allora  avvertì contenere i versi di lui un metallo assai più ricco di quello ch’ei proponeasi insegnare al lettore di comporre.

Recte aurum ipse doces fieri, sed rectius aurum
Efficis auratis tu modo carminibus.

Il tempo in cui Augurelli dedicò il suo poema a Leon X, se non era per vero dire il più opportuno pel protetto, era opportunissimo pel protettore, giacché il pontefice aveva allora bisogno di qualche provento che lo mettessi in istato di sostenere le grandi sue spese, e lo risarcisse delle immense somme da esso sborsate nel rimunerare uomini d’ingegno, e ne dare feste e spettacoli. «L’indirizzò, dice Giovio, a papa Leone, che era d’ogni ricchezza aperto disprezzatore, acciocché sua beatitudine, la quale prodigamente usava l’oro nel sostentare i begli ingegni, e nelle spese continue, festevole e regali, senza ingiuria degli uomini, sapesse onde ampiamente cavare ricchezze infinite.» (5).
Né meno adatto fu il premio che Leone donò ad Augurelli, giacché, come fu più volte riferito,  gli regalò una borsa grande e bellissima, ma vuota, con queste parole: «Io vorrei pur darti dell’oro; ma promettendo tu l’infallibile scienza di farlo, ti sarò anco di troppo se avrai ove riporre l’oro da te composto». Così si legge nel frontespizio dell’edizione di Basilea della Crisopea; ma il fatto prova in contrario, poiché quel pontefice gli diede il canonicato, che fu, come dicono le notizie mentovate, una borsa piena, la quale non si votò sino che visse. Tiraboschi opina che Augurelli non iscrivesse sul serio il suo poema, e che invece consacrasse il suo tempo a migliori occupazioni che lo studio dell’alchimia non fosse, e avverte nello stesso tempo confessar il poeta nei suoi canti di scrivere giocosamente, e di non render mai ragione dell’arte pretesa di far l’oro. Nulladimeno, dove si eccettuino pochi versi alla fine, tutto il poema è scritto con molta serietà, e perfino in questi versi egli accenna soltanto di aver condito le lezioni del sapere con le arguzie ingegnose dello spirito.

Doctos salibus sermones puris
Tentavi…

Oltre di che si può opporre che tema siffatto non avrebbe potuto svolgersi fuorché da persona la quale avesse molto atteso all’alchimia, giacché l’opera è stata accolta come canonica dai professori dell’arte misteriosa.
La Crisopea è dal poeta in tre libri divisa. Si occupa nel primo a mostrare la possibilità dell’arte aurifica colla ragione e colla supposta esperienza; nel secondo, dichiara sin dove ella giunga, e con qual moderazione si debba usare, rigettando le cabale degli alchimisti e mostrando le utilità della chimica per i molti trovati profittevoli alle arti, e specialmente alla pittura ne’ colori. Pretende Augurelli che il segreto consista in una maravigliosa polvere, della quale aspersi mutinsi in oro i metalli; ma soggiunge che trovarla, con tutto il metodo da sé insegnato, è grazia che a pochi il ciel largo destina; e trovatali non deve comunicarsi a chicchessia, per isfuggire l’invidia. Nel terzo finalmente descrive a parte a parte la casa, la stagione, il modo e gli ordigni co’ quali si ha da procedere al lavoro della ricercata polvere. Il singolare si è che il nostro poeta, nel trattare il suo argomento, protesta, l’arte da sé insegnata differire affatto dalla volgare alchimia, della quale non dubita profferire:

Nec miseram magis affirmes veraciter ullam
Artem aliam; quam quae externis alchimia rectis
Dicitur
;

E descrittine partitamente i danni ch’essa reca, conchiude:

Quare agitae exemptam tenebris hanc cernite lucem
Mortales, caecisque viis avertite gressum.

Pretende poi l’Augurelli che un solo vaso di vetro serva alla grand’opera, e dall’assiduo studio della più intima filosofia, e dalla sincera professione d’una salda virtù favorita dal cielo, anzi che dal soffiare ne’ fornelli, o da verun’arte certa, s’abbia a sperare la scoperta del sospirato segreto. Dal che altri volle dedurre l’allegoria del poema di lui, cioè coprir esso sotto l’arte di fabbricare l’oro, la scienza della vera felicità, alla quale non si giunge fuorché col difficile studio della sapienza, e per le ardue prove della virtù. Questo poema, in cui s’incontra il migliore che allora la naturale filosofia comprendeva, egli lo scrisse, com’abbiam detto, in Venezia mentre infuriava la guerra famosa denominata di Cambrai dalla lega ivi conchiusa di molti principi contro la repubblica di Venezia, i cui mali vengono da lui maestrevolmente descritti nel secondo libro. Il buon senso che mostra il nostro italiano in varie parti del suo poema, ne indurrebbe ad abbracciar e l’opinione di coloro che riguardano l’Augurelli tutt’altro che un delirante alchimista. E invero, il grand’arcano, il ristauratore delle pietre preziose, l’oro potabile comune, la tintura o pietra de’ filosofi, l’essenza dei cedri del Libano aventi la più grande analogia coll’elixir universale, coll’acqua del sole o la polvere di proiezione, i quali tutti altro non sono infine che modificazioni della pietra filosofale, e promettitori di ricchezza e immortalità a coloro che li possiedono, o almeno una lunghissima vita immune da infermità, non possono dirsi gli argomenti discussi nella Crisopea. Il poema, con metodo opposto a tutti i libri che parlano d’alchimia, non  ribocca di certe ricette spacciate infallibili per comporre la gran pietra che può proprio paragonarsi all’araba fenice. Eccovene una delle meno lunghe, così potessi dire delle più facili a praticarsi. «Pongasi in un’ampolla di vetro forte a bagno di sabbia dell’Elixir d’Aristea, con balsamo di mercurio, ed un peso eguale del più puro oro di vita o precipitato d’oro, e il calcinato che rimarrà al fondo si moltiplicherà centomila volte». Gli è vero che non è facile il procacciarsi l’elixir d’Aristea e il balsamo di mercurio; ma ci sono tanti espedienti per riuscire al medesimo intento, che sarebbe un vero peccato lasciarsi scoraggiare, molto più che all’uopo si possono evocare con buon esito gli spiriti cabalistici. Sebbene con raccapriccio, pure ci ha degli autori che opinano potersi ottenere la scoperta della magna pietra col solo mezzo della magia nera e del demonio Barbù, che viene salutato, e ciò sia detto con la debita riverenza, per il più gran professore d’alchimia che possieda l’inferno. Se volete saper di più di questo curioso poema, procuratevelo e leggetevelo da capo a fondo, se pure il latino non vi lega i denti, che io non ho tempo di dirvene altro. Solo mi spiace di non possedere la vena d’un Balzac, d’un Janin, perché davvero l’autopsia morale, tanto alla moda ai nostri giorni, d’un poeta cabalista dovrebb’essere una ghiotta cosa. Ecco un bell’argomento di esercitare la fantasia de’ miei confratelli; io lo raccomando ad essi, perché ne sappian trar profitto, non fosse altro, per oggetto di varietà. Il nostro poeta visse fino ad età molto provetta, e morì improvvisamente, nell’anno 1524, mentre stava disputando nella bottega di un libraio di Trevigi, nella qual città fu egli sepolto. Sul sepolcro gli fu scolpito il seguente epitaffio scritto da lui medesimo:

Aurelii  Augurelli  Imago est. Quam  Vides
Uni Vacantis  Literarum  Serio Studio et iocoso dispari cura tamen
Hoc ut vegetior sic fieret ad seria illo ut iocosis uteretur firmior.

Oltre la Crisopea e un altro poema latino intitolato Geronticon, ovvero della vecchiaia, dedicato al proprio scolaro Pietro Lippomano, da poi vescovo di Verona, ci rimangono di lui parecchie poesie sotto il nome di Jamblici Sermones et Carmina, le quali vennero da prima pubblicate da Aldo in un elegante volume in 8° nel 1505 in Venezia, e furono spesso ristampate da poi. Il merito di queste poesie è stato diversamente apprezzato dai critici posteriori, ma esse rivela senz’altro vena poetica, facile, naturale, felice maneggio dei più bei modi, acquistato sugli scritti degli antichi, e gran purezza e correzione di stile cui poterono raggiungere ben pochi autori di quell’età; anzi i suoi giambi sono forse dei migliori che si sieno scritti nel secolo di Leon X. Quindi Giammatteo Toscano, poeta egli pure non inelegante, dopo avere accuratamente bilicato i giudizii dei precedenti scrittori, e singolarmente l’opinione sfavorevole di Giulio Cesare Scaligero, opinione che venne qualificata per mordace da quello stesso Francese summentovato che sulle parole dello Scaligero stesso censurò così scioccamente i versi del nostro poeta, ebbe francamente ad asserire che in una quistione d’indole siffatta Scaligero non era un buon giudice, e che gli scritti dell’Augurelli erano degni dell’immortalità.
La Crisopea venne tradotta in francese da Francesco Habert; gli Italiani, che pure a vagheggiare le cose inutili non rimangono certo tra gli ultimi, non pensarono per ora a volgarizzarla né se hanno senno, credo vi penseranno altro. Mi nasce un pensiero: poiché la foga dei poemi didascalici in Italia non è mai cessata, e perché non potrebbe, a preferenza di altri argomenti aridi e seccagginosi, un maschio ingegno cantare le prodigiose esperienze della chimica e farsi emulo di Arato e di Lucrezio? Oramai la chimica entra da per tutto: l’umile servo che cura de’ vostri alimenti si giova de’ trovati di lei; la madre di famiglia con la scorta di essa provvede con maggiore intelligenza all’ordine e al risparmio della casa; il filosofo appena ne conosce i principii, senza curarsi dei particolari, regola meglio la propria vita e le proprie abitudini, approfittando di tutti i benefizii ch’essa gli offre; il medico si appropria le scoperte di lei, estende la propria scienza, fa rifiorir la fiducia tra le famiglie desolate, e spesso avvera speranze che egli stesso non avrebbe mai saputo concepire. Tradotta innanzi ai tribunali, la chimica illumina la mente e tranquilla la coscienza de’ giudici, e infama il colpevole che ardì profanarne i benefizii, volgendoli a danno dell’umanità; le arti le vanno  debitrici del loro splendore, la guerra di terribili strumenti, l’agricoltura del suo più immediato progresso, e il mondo intero le dee il giusto tributo di viva riconoscenza. Nelle mani di un Berthollet la chimica diviene uno strumento di pubblica ricchezza per le felici applicazioni ch’ei ne fece alle manifatture e al commercio. Disperando di scrutare la materia fin nelle ultime sue particelle, Berzelius attribuisce agli atomi una differenza di intensità elettrica nei loro poli; Dalton rende regolare la loro congiunzione giusta le severe espressioni delle matematiche; Petit e Dulong determinano queste leggi medesime per tutti i corpi semplici, dopo aver conosciuta l’eguale capacità degli atomi elementari per il calore; Thénard, fedele alla bella nomenclatura immaginata da Lavoisier, rende più chiaro e preciso il linguaggio della scienza; Becquerel dimostra con belle indagini sperimentali lo sviluppo dell’elettricità nelle combinazioni chimiche, e si studia di determinare le relazioni fra il calore e l’elettricità racchiusa ne’ corpi; Faraday, Davy ed altri benemeriti, mercè delle pressioni e del raffreddamento, sforzano i gas a liquefarsi. Infine Davy, mettendo in bell’armonia le preziose tecniche di Sthal e Lavoisier, spiega tutti i fenomeni della combustione, mostrando al mondo attonito altro non essere il flogisto che l’elettricità. Né qui si arresta il corso di tanti prodigi; non paghi d’interrogar la natura coi metodi secreti di composizione e decomposizione di questo e di quell’altro corpo, noi cerchiamo investigar e le leggi generatrici, distruttrici e conservatrici dei diversi stati della materia.
La chimica, troppo circoscritta nel suo circolo, toglie a prestito dalla fisica mezzi ch’ella forse ha fin qui trascurati di troppo: essa chiede alla scienza matematica la concisione e il rigore del linguaggio di lei per meglio esprimere i propri concetti, La materia non ha più potere, essa è assoggettata a leggi immutabili:

Uomo ardir, pacifica
Filosofia sicura,
qual corpo mai, qual limite
Il tuo poter misura?

Che inesausta miniera d’inspirazioni per un poeta, il quale sappia ammirare nelle sapienti leggi della natura il sublime potere del Creatore! Che immensi spazii non rimarrebbero a trascorrere ad una fantasia vivida e perspicace! Ma guai se a tal cimento si accingesse un poeta di forme soltanto, un poeta il quale non sapesse che architettare sonori versi con la maestria, voglio anche concedervi, d’un Caro, d’un Parini, d’un Monti: esso vi scambierebbe l’universo in un’officina farmaceutica, in un laboratorio; e mentre vi darebbe una minuta, forbita descrizione di storte, pesaliquori, con qualche opportunissima invocazione a Mercurio, Venere, Vulcano, Giove, vi lascerebbe poi al buio su la parte più vitale dell’immenso tema…
Ridete? Fate conto che molti poemi didascalici italiani, letti, vantati, lodati da uomini di cima, ed anche ristampati le tre o quattro volte, per questa pedantesca osservanza d’inutili minuzie non corrispondono al fine dell’argomento meglio d’un poema su la chimica o fisica che ristringesse i benefici effetti di queste scienze sorelle agli ornamenti ch’esse prestano al lusso, o tutt’al più ad alcune lievi modificazioni della materia.
Gli Italiani hanno già sentita la convenienza, di rivolgersi, a cantare i grandi fenomeni della natura, e non pochi, riusciti più o meno felicemente, si cimentarono in temi siffatti.
Le piante, la fisica, il sistema de’ cieli, la pluralità de’ mondi, l’oro, il vetro, le perle, la macchina elettrica, il prisma, la fata Morgana, i terremoti, il corallo ec. inspirarono più d’una felice immagine a Simone Algarese, all’abate Barotti, al conte Rezzonico, a Gaspare Cassola, al bassanese Giuseppe Barbieri, al Pindemonte, al Nicolini, al conte Marenco ec.
Ma forse per ben riuscire ad opera degna de’ tempi, ci vorrebbe un poema che tutti rivelasse i tesori dell’ampio regno della natura, e che dalla particolare considerazione di tanti singoli prodigi il poeta s’innalzasse a sciogliere l’inno di gratitudine alla gloria di Colui che tutto move. Argomento arduo è questo, e solo degno d’un animo fervorosamente religioso che sapesse interpretare con un criterio superiore a quello che può offrire la scienza umana le arcane disposizioni della Provvidenza.
Tornando alla filosofia ermetica da cui incominciò il nostro discorso, non sarà inutile l’accennare che le ricerche instituite sull’alchimia ci hanno guidati ad una scoperta assai curiosa. Non si tratta nientemeno che di una scrittura probabilmente simbolica che era propria a siffatta scienza immaginaria nel secolo XIII. Essa dicesi adoperata dal celebre re di Castiglia Alfonso X, di cui molti frammenti curiosi ci vennero conservati in un’opera spagnuola quasi sconosciuta. A prima giunta questa scrittura cabalistica sembra aver  qualche analogia colla scrittura astrologica di cui Cardano ci offre qualche modello; ma osservandola attentamente, troviamo in essa una relazione più immediata cogli alfabeti greco ed arabo. Sarebbe forse curioso per lo studio della filosofia e della scienza studiare i manoscritti del re Alfonso esistenti tutt’ora negli archivii di Spagna,. E studiarci di dicifrare quanto egli ha scritto sulla filosofia ermetica, i cui principi tiranneggiarono le menti sì a lungo. Alfonso era il fortunato depositario di tutta la scienza orientale de’ suoi tempi; e forse le sue stesse idee strane e bizzarre non sono in tutto da prezzarsi, perché frammiste a fatti utili. Alfonso si gloriava di possedere il segreto della trasmutazione dei metalli; egli andava debitore della sua scienza, a quanto si dice, ad un Egiziano da lui fatto venire appositamente da Alessandria. «La pietra ch’essi chiamavano filosofale, io sapevo farla, ed egli me l’aveva insegnata; noi la facemmo in compagnia; indi io la feci da solo; per tal guisa io accrebbi i miei capitali». Forse l’autore delle tavole alfonsine nascondeva sotto queste parole un significato politico; e chi sa se si troverà un Champollion, un Janelli che giunga ad interpretarne i geroglifici. Chi il crederebbe? Girolamo Ruscelli si vantava posseditore di certo miracoloso «secreto da potere con segni, strumenti, e con le parole stesse rappresentare e ritrovare tutti quei pensieri e quei concetti che sopra qualsivoglia cosa potessero dirsi, senza pur lasciarne fuori un solo». Se ciò è, ecco in quel solenne pedante un’astrusa altissima scienza ch’egli avrà imparata, non tra gli Egizi o Caldei, ma molto più in là che in Abruzzi, dove si legano le vigne con le salsicce; ovvero portata d’oltremare, di colà appunto dove già frate Cipolla trovò, e seco in Italia recò un’ampolla, alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone. Di tutti poi coloro che erano giunti al fine d’un secreto così misterioso, il Ruscelli teneva per fermo che fosse stato per primo quel gran Rabbi Moisè, o Raimondo Lullo. Dubita pure che questo secreto fosse penetrato anche da un altro Raimondo cognominato Sabonde. Egli crede se non per arte, almeno per vivacità e divinità d’intelletto, fosse noto, se non in tutto, in buona parte, almeno a Platone e ad Aristotile. Sospetta che anche Cicerone e l’Ariosto avessero avuta dalla natura come intestata, così egli dice, l’ombra di sì grand’ordine e secreto; ma in guisa che non s’accorgessero d’averlo. Oh perché tra costoro non fa sua bella figura anche Confucio! Si arrende poi il pedante a confessare che atteso il grandissimo studio suo, fosse giunto egli ancora a possederlo, e in prova ne adduce un certo suo sonetto, lusingandosi che il leggerà troverà segni sufficienti per credere ch’ei lo sapesse: e in cotal guisa viene bonariamente a concederlo anco a chi non lo sa; perciocché se altri, in leggendo quel suo cotal sonetto dee avvedersi di tal secreto, è necessario pur ch’è lo sappia. Oh gran bontà de’ cavalieri antichi!
Van-Helmont può considerarsi per ultimo scienziato che si occupasse della pietra filosofale, e ben si può dire ch’egli facesse far passi giganteschi alla scienza. A Bekker tuttavia è riservata la gloria d’aver saputo sgombrare con mano esperta la chimica dall’alchimia, mercè della perspicacia d’un ingegno non comune e fors’anco mercè dei motteggi di alcuni filosofi, i cui pungenti sali dovevano presto o tardi produrre il loro effetto. Per tal guisa tutto si combacia, e quell’intelligenza stessa che abbatte presta la mano al genio di edificare. Ai dì nostri, ridendo dei vani sforzi di chi cercava la pietra filosofale, i nostri padri hanno scoperto la chimica; indagando il bene vero e unico, l’umanità si è perfezionata e si perfezionerà ancor più. Ogni uomo che è ito in traccia del bene sovrano, si con Platone, sia con Zenone, sia col Vangelo, si è sempre trovato, data la debita proporzione, nella via del perfezionamento, laddove l’uomo che è rimasto scettico, infingardo e indifferente, non ha mai fatto alcun progresso nella via del bene. Può e dee certamente l’uomo tendere alla perfezione; sta nell’essenza sua l’aspirar sempre al meglio e il cercare d’accostarsi alla suprema intelligenza che a tal uopo gli offre i mezzi opportuni. Con questi noi possiamo nobilitare, ringagliardire le facoltà dell’anima, mettere in armonia fra loro intelletto e immaginazione, intendere il mistero di nostra morale esistenza, mettere in virtuosa calma il cuore, purificare le passioni e trionfare degli accidenti della fortuna. Perfezionando sè stesso coi mezzi religiosi e morali, l’uomo perfeziona anco la società temporale in cui vive; chè quanto più saranno i cuori da pietà, da virtù, da carità fraterna avvinti, altrettanto più forte e felice, diverrà la società; più saranno dolci e sagge le leggi, e più benefiche riusciranno le istituzioni, più generale e sicuro il vero benessere. Fondato, consolidato il sociale edifizio sulle basi eterne della morale, le arti industriose, eccitate da onesti bisogni, dalle scienze dirette, lo compiono, lo abbellano e il mantengono prospero e fiorente al di fuori, mentre nell’interno il genio delle arti secondato da sante ispirazioni, accende e tien desta la sacra immortal fiamma che dal cielo emana a rischiarare le menti avvolte nelle tenebre dell’errore.

 

Note:

(1) Prestando fede a Van-Helmont, egli avrebbe veduta e tocca più volte la pietra filosofale. Essa aveva il colore del zafferano in polvere, ed era brillante così come il vetro polverizzato. Gliene fu data un quarto di grano stemperato in otto once di mercurio. Essa lo cangiò in argento purissimo. Oltre la trasmutazione dei metalli, gli alchimisti pretendevano dare alle pietre preziose un grado di perfezione ch’esse naturalmente non hanno.

(2) La parola amalgama, conservata anche oggidì, si vuole che sia apparsa per la prima volta nelle sapienti opere di Tomaso d’Aquino, opere che verranno meglio apprezzate in avvenire per le cure d’un sommo filosofo italiano vivente.

(3) Carmina, lib. II, p. 17,.  Ed. Ald. 1506.

(4) Raro è questo poema insieme colla introduzione, non vedendosi essa inserita nelle raccolte ordinarie delle opere di quell’autore… Ambedue vennero pubblicati in varie collezioni di scrittori d’alchimia, particolarmente nella Biblioteca chimica curiosa di Mangeto, v. II, p. 371, Ginevra 1702, in fol. Ad infirmare il giudizio di alcuni scrittori francesi, che in generale hanno un gusto poco squisito per la poesia latina, basterebbe citarne la introduzione elegantemente scritta, da cui ognuno potrebbe formarsi un concetto dell’abilità dell’Augurelli. «Augurelli così sta scritto nel Nuovo Dizionario storico, ha fatto odi senza delicatezza di sentire, giambi senza grazia, arringhe ed orazioni dove non si trovano che parole».

(5) Jov. Iscrit. Lib. I, pag. 129.