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Il celebre ritratto di Benedetto Varchi finito da Tiziano intorno al 1540

 

 

 

INTRODUZIONE:

   

Opera incompiuta dell’umanista Benedetto Varchi (Firenze 1503- ivi 1565), la Questione sull’Alchimia è strutturata secondo la classica forma della quaestio di matrice aristotelica, con un esame dei pro e contro che riflette alcuni dei cardini principali di una polemica che si protraeva dal Medio Evo, e che continuava, nel XVI secolo, ad essere alimentata da detrattori e partigiani.
Bendetto Varchi non fu alchimista, ed il suo interesse per la materia non fu che episodico; ciò nonostante, proprio per il carattere occasionale della Questione, che non puntava a rivolgersi ad un pubblico specialistico ma rispondeva piuttosto alla richiesta di un autorevole potente del tempo (essa viene scritta alla corte fiorentina di Cosimo I, ad istanza di Pedro da Toledo, vicerè di Napoli e padre di Eleonora [1], prima moglie di Cosimo) desideroso di dirimere le difficoltà di un dibattito culturale che doveva essere percepito come attuale e rilevante attraverso la sintesi di un autorevole intellettuale del tempo, essa costituisce un indice prezioso della percezione che, dell’alchimia, poteva avere una parte della classe colta del XVI secolo.
Dal punto di vista filosofico, la critica recente ha rilevato come l’aristotelismo rigido ed “eterodosso” del Varchi (poco incline alla conciliazione operata dal tomismo tra i principia cristiani e la filosofia aristotelica), che appare provenire in maniera rilevante da quello del suo maestro Boccadiferro (1482-1545) [2], accoglieva tuttavia istanze sia averroiste (anch’esse del resto, rinvenibili nel Boccadiferro) che platoniche (provenienti, probabilmente da quel Francesco Verino Primo, allievo di Ficino, e da Francesco Cattani da Diacceto, cui il Varchi dedicherà anche una biografia). Una formazione complessa che rende la filosofia emergente dalla produzione del Varchi non lontana da un atteggiamento “concordista”, una volontà quindi di armonizzare costruzioni filosofiche diverse e tradizionalmente opposte, come l’aristotelismo (magari nella lettura semi-averroista del Boccadiferro) ed il platonismo.
La filosofia naturale dell’umanista toscano, appoggiandosi alla base aristotelica, integrava apporti da autori classici come Galeno, e commentatori come Averroé ed Avicenna.  
L’idea di natura che sottende la quaestio sull’alchimia del Varchi, è improntata ad un ideale compiutamente aristotelico, in cui il creato è entità eternamente ed assolutamente immutabile, e le variazioni che pure vi intervengono sono causate dal movimento necessario dei corpi celesti incorruttibili ed eterni. La natura è principio e causa efficiente di ogni quiete e movimento, essa non è conoscibile matematicamente, ma attraverso “supposizioni concesse”, analogie ed analisi appoggiate sull’investigazione dei sensi. Essa, pur non essendo di natura razionale, come le anime, agisce in maniera razionale e finalizzata ad un bene assoluto, principialmente appetito, una perfezione finale che rende materia e forma sempre tendenti, per virtù intrinseca, alla perfezione. Principio inviolabile, secondo la lezione lucreziana, essa è immutabile ed invincibile dall’arte e dall’ingegno.
Come osserva Vasoli a proposito di una lezione accademica del Varchi sulla natura, tenuta all’Accedemia fiorentina nella Quaresima del 1547, anche se alla fine della lezione l’autore rendeva grazie all’ineffabile maestà del Dio della natura:
« … Però in realtà aveva descritto un ordine del mondo dove era escluso ogni intervento provvidenziale, un universo eternamente fondato sulle leggi inviolabili che la ragione umana doveva riconoscere ed accettare nella loro perfezione» [3].
Se episodico è l’approccio di Varchi all’alchimia, interesse evidente per la scienza delle trasmutazioni era invece quello di Cosimo I, il grande signore che ottenne, grazie alle sue abilità politiche, il titolo di Granduca, e che fu responsabile del consolidamento e della fioritura toscana del XVI secolo. La corte di Cosimo, con la sua fonderia, è uno dei punti di irraggiamento della cultura alchemica italiana rinascimentale. Inutile, in questa sede, ribadire e rievocare ancora una volta le innumerevoli testimonianze dell’attenzione di Cosimo per l’alchimia, di recente estesamente riesaminate da Alfredo Perifano [4].  
L’opera, scritta nel 1544, cioè nel periodo dell’ascesa dell’influenza culturale del Varchi nella corte di Cosimo e nell’Accademia Fiorentina, appare dunque, più che un atto di omaggio al commissionario dell’opera Don Pedro da Toledo – o un grazioso pensiero verso l’amico di vecchia data Bartolomeo Bettini, dedicatario dello scritto, ricco mercante fiorentino residente a Roma e console di Cosimo – una vera e propria offerta al proprio principe, una dimostrazione di competenza e condivisione di interesse per un argomento caro a Cosimo ed a molti del suo entourage [5].
Nel protestare insistentemente la sua neutralità nella questione [6], il Varchi espone i contro ed i pro in favore dell’alchimia, uno dopo l’altro, smontando però, nei fatti, tutte le opposizioni contro la scienza delle trasmutazioni, pur senza assumere una posizione dichiarata. L’umanesimo dell’accademia fiorentina, del resto, aveva posto al centro della sua ideologia una esltazione dell’arte, e dunque della techne, come elemento distintivo del dominio dell’uomo sulla natura, espressione di quell’antropocentrismo filosofico rinascimentale che proprio dall’ambiente intellettuale della corte medicea prenderà le mosse. L’omaggio al principe, dunque, non avrebbe potuto che delineare, pur nella ostentata protesta di neutralità, un esito favorevole alla realtà delle meravigliose  possibilità dell’arte alchemica.  
Se si eccettuano le citazioni dal De mineralibus di Alberto Magno, Varchi non mostra di conoscere gli scritti propriamente alchemici. Pur elencando i nomi dei padri dell’arte e degli alchimisti medievali, egli non li cita in alcun luogo, se non per affermare che i loro libri non si ritrovano. L’intero andamento della quaestio è dunque scandito dalle citazioni di Aristotele e dei suoi più autorevoli commentatori, da Alessandro d’Afrodisia ad Agostino da Sessa, passando per Averroe e Michele Efesio; e poi ancora San Tommaso, Erasmo (1469-1536), Cornelio Agrippa (cui non si risparmiano severe rampogne) e, tra i contemporanei, il naturalista Luca Ghini (1490-1556), di cui Varchi aveva udito le lezioni all’Università di Bologna, e Marcantonio Zimarra (1475-1535). E, sempre tra le fonti contemporanee, è citato anche Vannoccio Biringuccio (1480-1539 c.), l’autore del De la Pirotechnia ed uomo pratichissimo di tutte le miniere, di cui il Varchi fu amicissimo.
L’alchimia di Varchi si divide in vera, sofistica e falsa.
La vera, l’unica di cui i filosofi si curano e l’unica che si loda, «tramuta e trasforma un metallo in un altro non solamente quanto alli accidenti, com’è il colore, l’odore, il sapore, la durezza, il peso, e tutte l’altre qualità, ma ancora quanto alla sostanza, di maniera che abbia tutte le medesime virtù e proprietà che i metalli naturali…». Ciò è naturalemnte possibile solo riconducendo i metalli stessi oltre la forma specificata, alla loro materia prima; dopo di ciò il metallo «si prepara, e dispone in modo che vi s’ introduce dalla natura quella forma di metallo che l’artefice ha disegnato et ordinato, di maniera che non l’arte o l’Archimista genera e produce l’oro, ma la natura, disposta però et aiutata dall’Archimista e dall’arte, non altramente che la sanità in un corpo malato non si rende né dalla medicina, né dal medico, ma dalla natura, disposta però e aiutata dal medico e dalla medicina».
La sofistica, ovvero apparente ma non vera è invece quella che «non muta veramente e trasforma la sostanza, ma li accidenti soli, e cosi non fa i metalli veri, ma somiglianti, ora diminuendo in parte e talvolta spogliando del tutto li accidenti separabili de’ metalli, introducendovi entro dei nuovi mediante varie conce e mescolamenti di diverse materie con fuochi, forni, vasi, et altri arnesi atti a ciò». Essa, nonostante sia spesso complessissima, è certo più facile della vera, ma ingegnosissima. È quella dei falsari, e perciò le sue produzioni archimiate «sono vietate sotto gravissime pene dalle leggi si civili come canoniche… E perchè da questa insieme col falsare delle monete e varie sorti di veleni possono e sogliono procedere mille gherminelle, et altre brutture e cattività, però è più che meritamente e dai buoni Principi e dalle Repubbliche bene ordinate sbandita, e perseguitata col fuoco».
La falsa è invece è «quella che promette non solamente di volere e poter seguitare et imitare la natura, ma di potere ancora e voler vincerla e trapassarla, il che è del tutto, non solo impossibile, ma ridicolo; e però la chiameremo Falsa. E questi tali sono quelli che promettono non solo di poter cavare di tutte le cose, mediante lor fuochi, et altre materie, certe sostanze che si chiamano spiriti, il che non è impossibile, ma ancora, cavati che gli hanno, ritornarveli, il che non è possibile per quella stessa ragione che i morti non si possono risuscitare». Si tratta dell’alchimia immaginaria e fallace di tanti sempliciotti, folli o in cattiva fede. Nell’ambito della concezione compiutamente aristotelica della natura del Varchi, ogni pretesa prometeica è ovviamente escludibile a priori.
In questa distinzione tra un’alchimia che, ponendosi come aiuto e sostegno dell’azione della natura, riesce a trasformare non solo gli accidenti, ovvero le proprietà superficiali ed apparenti, ma anche le sostanze, si riflette la preoccupazione di assumere alla base della trattazione, gli assunti ed i temi di un dibattito che aveva attraversato il XIII e XIV secolo, la quaestio de alchimia, appunto. Non è ovviamanente questo il luogo per trattare, per quanto brevemente questo argomento, su cui non mancano studi specifici di rilevante spessore [7]. Basterà ricordare come la traduzione di Alfredo di Sareshel della sezione dedicata alle meteore del Kitāb ash-Shifā (Libro del rimedio) di Avicenna (980-1037) corcolasse all’epoca acclusa al quarto libro delle Meteore di Aristotele, diffondendosi, attribuita proprio allo Stagirita, per tutto l’occidente col titolo latino di De congelatione et conglutinatione lapidum. Nell’opera Avicenna, dopo aver esposto la dottrina araba classica della generazione dei vari metalli nel seno della terra a partire da una commistione di diverse quantità relative di Mercurio e Zolfo, attacca l’idea della trasmutazione alchemica in un famoso passo dell’opera (lo sciant Artifices…).
Per Avicenna, l’arte, più debole della natura, può solo imitarla con prodotti necessariamente inferiori, e quindi gli artefici non possono trasmutare un metallo inferiore in uno superiore: al più potranno riprodurre gli aspetti accidentali ed esteriori dei metalli desiderati, realizzando, di fatto delle imitazioni adulterate. Tuttavia, al di sotto di queste caratteristiche accidentali (peso, colore, gusto, consistenza), giacciono, non percepibili ai sensi, le caratteristiche intrinseche, principiali, che si pongono ontologicamente al di là della portata dell’investigatore, e che, dunque, non sono in alcun modo manipolabili, poiché non si può manipolare ciò che non si può conoscere. 
Questo parere di Avicenna, a lungo diffuso con l’autorità della firma dello Stagirita, avrà un grande peso, ed influenzerà un gran numero di autori di ascendenza aristotelica, creando una polemica tra i sostenitori delle possiblità della techne (e dunque favorevoli alla possibilità della trasmutazione) e coloro che, fedeli al parere di Avicenna, sosterranno l’impossibilità della trasmutazione delle specie e dunque l’ontologica limitatezza dell’arte alchemica. La distinzione cui fa riferimento dunque il Varchi rivela la preoccupazione di chiarire l’ambito di dibattito cui lo scritto fa riferimento. Adottando la distinzione tra alchimia vera, sofistica e falsa, egli tentava un addolcimento della polemica tra sostenitori e detrattori dell’Arte che fosse compatibile sia all’andamento metodologico classico della questio che alle obiezioni dei commentatori aristotelici (Avicenna in testa) contrari all’arte.    

Il testo del Varchi fu studiato per la prima volta in maniera più approfondita proprio dallo studioso che ne curò la presente edizione. Erudito e bibliofilo di statura eccezionale, Domenico Morieni esplorò come pochi la cultura e la storia letteraria toscana. Proveniente da famiglia di origini modeste, era nato a Firenze da Alessandro Togniozzo Moreni e da Maria Diamante Mariani il 12 agosto 1763. Entrato nel seminario di S. Martino in Lucca, si avvierà al sacerdozio sotto la guida di mons. Martino Bianchi, che lo condurrà per dieci anni attraverso gli studi teologici, filosofici e letterari. Ordinato sacerdote, nel 1788 egli è canonico a Firenze, ed a partire dal 1791, inizia la sua attività letteraria pubblicando diversi saggi sulla storia della chiesa fiorentina. Ben presto i suoi interessi si allargano e la sua fama si accresce, specie nel campo degli studi sulla storia e la cultura toscana, al punto da fargli ottenere, per interessamento dello stesso Granduca Ferdinando III, il canonicato dell’Ambrosiana Imperial Basilica di S. Lorenzo, basilica di cui intraprende ben presto la ricognizione storica attraverso le documetazioni archivistiche.
A partire dal 1789 è socio dell’Accademia Colombaria e, dal 1819, socio dell’accademia della Crusca.
Il suo nome è indissolubilmente legato alla Biblioteca Moreniana, annessa alla Riccardiana di Firenze, che raccoglie la vastissima collezione che la sua passione di bibliofilo ha radunato lungo l’intera sua vita.
Muore a Firenze il 13 marzo 1835.
Difficile comporre un elenco anche solo approssimativo della sua sterminata produzione saggistica. Per rimanere alle sole opere principali, per la maggior parte stampate nella stamperia fiorentina del Magheri, ricordiamo:

Notizie istoriche dei contorni di Firenze, Firenze, 1791-1795, voll. 6
Lettera bibliografica del canonico Domenico Moreni all’eruditissimno sig. canonico Carlo Ciocchi bibliotecario della publica libreria di Modena, in risposta a una sua concernente il piano della continuazione delle Istorie d’Italia del prop. Ludovico Muratori, Firenze 1803.
– P.N. Cianfogni, Memorie istoriche dell’Ambrosiana R. Basilica di S. Lorenzo di Firenze, a cura di D. Moreni, Firenze, 1804. 
Bibliografia storico-ragionata della Toscana, Firenze, 1805, voll. 2
– Annali della tipografia fiorentina di Lorenzo Torrentino, Firenze, 1811
Vita di Filippo di Ser Brunellesco scritta da Filippo Baldinucci, ora per la prima volta pubblicata con altra più antica inedita di anonimo contemporaneo scrittore, precede una memoria intorno al risorgimento delle Belle Arti in Toscana e ai restauratori delle medesime dell’editore caninico Domenico Morieni, Firenze 1812.
Continuazione delle memorie istoriche dell’Ambrosiana Imperial Basilica di S. Lorenzo di Firenze, Firenze, 1816-1817, voll. 2
Della solenne incoronazione del Duca Cosimo Medici in Gran-Duca di Toscana fatta dal som. Pont. S. Pio V, ragguaglio di Cornelio Firmano cerimoniere pontificio, ripodotto con note e illustrazioni dal canonico Domenico Morieni, Firenze 1819.
Novella del grasso legnajuolo: restituita ora alla sua integrità, Firenze 1820
Del viaggio in Terra Santa fatto e descritto da ser Mariano da Siena nel secolo XV. Codice inedito. Firenze, 1822.
Illustrazione storico critica di una rarissima medaglia rappresentante Bindo Altoviti, opera di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1824. 
Lettere di Francesco Redi, Firenze, 1825.
Serie di autori di opere riguardanti la celebre famiglia Medici, Firenze, 1826
Vitae Dantis, Petrarchae et Boccaccii, a Philippo Villanio scriptae, ex codice inedito barberiniano, Firenze 1826.
Pompe funebri celebrate nella ed Imp. e Real basilica di San Lorenzo dal secolo XIII a tutto il Regno Mediceo, Firenze 1827.
Vita Dantis Alighieri a J. Mario Philelpho scripta nunc primum ex codice laurentiano in lucem edita, Firenze 1828.
Lettere di Lorenzo il Magnifico al som. Pont. Innocenzo VIII, e più altre di personaggi illustri toscani, Firenze 1830.

L’edizione della Questione sull’Alchimia di Benedetto Varchi (Magheri, Firenze 1827), rappresenta una valida esemplificazione di quanto fosse ampia la curiosità erudita del Moreni per ogni sorta di produzione del Rinascimento toscano.

Su Benedetto Varchi si potrà consultare la bibliografia di base della sintetica scheda di Wikipedia all’indirizzo http://it.wikipedia.org/wiki/Benedetto_Varchi
Su Domenico Moreni una sintetica biogafia tratta dal portale della Storia di Firenze, ospitato sui server dell’Università di Firenze, all’indirizzo
http://www.dssg.unifi.it/SDF/dizionario/Moreni.htm
Sulla Questione sull’alchimia in tempi recenti si è soffermato Alfredo Perifano, dapprima in Benedetto Varchi et l’alchimie: une analise de la Questione sull’alchimia in Crysopoeia tome I, 1987, pp. 181-208, e poi in L’Alchimie à la Cour de Côme Ier de Médicis: savoir, culture et politique, Paris 1997, cap. III, pp. 91-99.
Abbiamo trascritto sia il testo introduttivo del Moreni che quello della Questione alleggerendo la punteggiatura per facilitarne la lettura; per il resto la trascrizione è conservativa.

 

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

 

Note:
[1] Non appare convincente l’ipotesi di A Perifano (cfr. L’Alchimie à la Cour de Côme Ier de Médicis: savoir, culture et politique, Paris 1997, p. 95) che ritiene che il Pedro da Toledo ad istanza del quale il Varchi compone la Questione sull’Alchimia, sia identificabile con un Pedro da Toledo castellano diverso dal vicerè di Napoli, ospitato in quel momento alla corte medicea. Perifano adduce a giustificazione della sua ipotesi il fatto che il Varchi non elenca i titoli del personaggio. Tuttavia, il fatto che non vengano elencati i titoli del vicerè, in un manoscritto d’occasione come quello della Questione, nato da una discussione tra cortigiani nelle camere private della corte, non appare rilevante. Il fatto che Varchi si rivolga a don Pedro come a S.S.R (Sua Signoria Reverendissima) ed il solo appellativo di nobile e giudizioso signore utilizzato in seguito, appaiono sufficienti proprio per identificare un personaggio che, per nobiltà e posizione, non aveva bisogno di altri identificativi. Inoltre l’affermazione, ripetuta per ben due volte, dell’autorità indiscussa del soggetto e dell’obbligo del Varchi nei suoi confronti (nella dedica lo scrittore afferma «Perch’io desideroso di compiacere a cui non posso e non debbo disdire cosa niuna», ed in seguito «… spinti dall’utorità di coloro a cui non potevamo non ubbidire né dovevamo») appare un esplicito riconoscimento di autorità che non sembra consona ad un semplice, per quanto nobile, cortigiano o ospite.
Né, d’altro canto, l’assenza dei titoli, milita in alcun modo, in sé, a favore di una identificazione del detto Pedro da Toledo con l’omonimo castellano di S. Eramo vicino Napoli, presente in quegli anni alla corte di Cosimo. In mancanza di prove documentali specifiche, a nostro avviso, si deve ritenere l’identificazione moreniana del Don Pedro citato da Varchi col vicerè di Napoli, ancora valida. 

[2] Sulla formazione e sul carattere dell’orizzonte filosofico del Varchi è intervenuto, recentemente, Cesare Vasoli (cfr. Benedetto Varchi e i filosofi, in Rivista di Storia della filosofia, I, 2007, pp. 1-25). A questo recente lavoro ed alla relativa bibliografia rimandiamo per tutto quanto concerne l’aspetto filosofico che emerge dalla produzione del Varchi. 

[3] Vasoli, Op. cit: p. 13. Più innanzi, però, il Vasoli precisa :«… Non mi sembra che si debba dubitare della sincerità di una sua religiosità non dogmatica, fondata sul messaggio evangelico e sull’amore divino che anche Platone e il Ficino ponevano come supremo fine dell’uomo “angelicato”. Né doveva ritenerla contrastante con il libero esercizio della filosofia e della sapienza, un altissimo dono concesso da Dio agli uomini» (Op. cit., p. 25). 

[4] A. Perifano, L’Alchimie à la Cour de Côme Ier de Médicis cit., in particolar modo il secondo cap., Côme et l’alchimie (pp. 79-90).

[5] Nel Capo I il Varchi si schermisce, cosciente del fatto che l’intento nascosto dell’opera di blandire Cosimo, attraverso l’occasione offerta da don Pietro e l’operetta dedicata al Bettini, è cosa che appare sin troppo evidente al lettore. A conclusione del suo panegirico sulla scienza de’ minerali, afferma: «… Ma per non parere, ch’io dica queste cose non tanto in favore della verità, quanto in grazia del molto giustissimo e molto clementissimo Duca Cosimo, Signore e Padrone nostro sempre osservandissimo, nel quale, insieme con tante altre singolarissime doti, quasi chiarissimi fregi della incomparabile bontà et ineffabili virtù sue, risplende ancor questa della cognizione e dello studio de’ Metalli, me ne tacerò al presente… ».

[6] Nel Capo I della Questione sull’Alchimia il Varchi afferma: «… se Dio m’aiuti osserverò di recitane tutto quel poco che io ne so, fedelissimamente senz’animosità nessuna, non essendo più ad una parte affezionato che all’altra…».

[7] Ultimamente è ritornato sull’argomento William R. Newmann in Promethean Ambitions: Alchemy and the Quest to Perfect Nature (University of Chigago Press, Chicago and London, 2004). Cfr. specialemnte il secondo capitolo, Alchemy and the Art-Nature Debate. Alle pp. 132-145 Newmann analizza anche la Questione del Varchi.

 

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