Pagina on-line dal 19/05/2012

Francesco de’ Vieri (1524-1591), figlio di Giovan Battista Vieri e di Lucrezia Guicciardini, fu conosciuto come il Verino secondo per distinguerlo dal “Verino primo” (1474-1541), ovvero suo nonno paterno, umanista e filosofo neoplatonico fiorentino di ispirazione ficiniana, allievo di Iacopo da Diacceto. Proveniente da famiglia antica, ricca ed influente (i Vieri sono a Firenze, come speziali, già intorno al 1220, e tra gli antenati del nostro, spesso coinvolti nella vita politica della città, oltre al nonno, si incontra anche il poeta Ugolino de’ Vieri) (1), Francesco occuperà, nello studio pisano, dapprima la cattedra di logica, ed in seguito, dal 1559 al 1590, quella di Filosofia. Tra il 1580 ed il 1585, dovette dunque essere tra i docenti che guidarono, nello studio pisano, il giovane Galileo.
Come il nonno anch’egli fu platonico convinto, contrariamente all’indirizzo generale dello studio di Pisa, in cui diffuso era l’aristotelismo (suo deciso avversario nello studio di Pisa era l’aristotelicissimo Girolamo Borro); durante il suo periodo di insegnamento condusse letture pubbliche di filosofia platonica che però dovette interrompere per le proteste ed i malumori dei suoi colleghi. 
Di lui ci rimangono diverse opere, manoscritte e a stampa, tra le quali ricordiamo:
Discorso del soggetto, del numero, dell’uso et della dignità et ordine degl’habiti dell’animo (Firenze, 1568),
Trattato delle metheore (Firenze, appresso Giorgio Marescotti, 1572 in tre libri, e poi, con edizione accresciuta di un quarto libro, sempre per i tipi del Marescotti, 1581), che il Vieri cita anche nel presente scritto.
Il primo libro della nobiltà (Firenze, appresso Giorgio Marescotti 1574).
Discorso dell’eccellentiss. filosofo M. Francesco de’ Vieri cognominato il Secondo Verino. Intorno a’ dimonii, volgarmente chiamati spiriti… (Firenze, appresso Bartolomeo Sermartelli, 1576)
Compendio della dottrina di Platone in quello che ella è conforme con la fede nostra. (Firenze, appresso Giorgio Marescotti 1576).
Trattato della lode, dell’honore, della fama et della gloria (Firenze, 1577).
Discorso della grandezza, et felice fortuna d’vna gentilissima, & graziosiss. donna; qual fu M. Laura, (Firenze, appresso Giorgio Marescotti, 1580).
Lezzione di M. Francesco de Vieri fiorentino… dove si ragiona delle idee e delle bellezze (Firenze, appresso Giorgio Marescotti 1581).
Francisci Verini Secundi … Liber. In quo a calumnijs detractorum philosophia defenditur, & eius praestantia demonstratur. A Nicolao Vmbrosio Pisano artium doctore. … (Roma, apud Io. Angelum Ruffinellum, 1586).
Compendio della ciuile e regale potesta, con alcune notizie dell’arte militare, e di quella degli oratori (Firenze, appresso Giorgio Marescotti, 1587 ).
Ragionamento de l’eccellenza et de piu merauigliosi artifizij della magnanima professione della filosofia (Firenze, appresso Giorgio Marescotti, 1588)
Vere conclusioni di Platone conformi alla dottrina christiana et a quella d’Aristotile (Firenze, 1589)
Discorsi delle maravigliose opere di Pratolino et d’Amore (Firenze, 1587)
Lezzioni d’amore, un commento al Cavalcanti rimasto manoscritto pubblicato nel 1973 (Lezzioni d’amore, Edited with an introd. by John Coleneri, Munchen, W. Fink 1973).
Il Kristeller registra, nel suo Iter Italicum (p. 112), anche un Libro del Sole (che il Vieri non manca di citare nello scritto presente) manoscritto nel cod. 1823 (43 B 32) della collezione Corsiniana, indirizzato a Bianca Capello, moglie del Granduca Francesco.   
Il Breve discorso intorno all’arte dell’alchimia è stato composto tra il 1579 ed il 1580 (il Vieri afferma di essere allo studio di Pisa da 26 anni) ed era, come il testo stesso ci dice, progettato per essere incluso nella edizione accresciuta del Trattato delle Metheore che uscirà nel 1581. Tuttavia il testo non vi si trova incluso, ed anzi l’autore, nell’aggiunto quarto libro, giustifica l’assenza del suo trattatello sull’alchimia con la mancanza del tempo necessario a rivedere questo ed altri testi che pure avrebbe voluto includere nella riedizione della sua opera.
Come nota Jean-Marc Mandosio (2), il Vieri, che non è, evidentemente, un assiduo frequentatore della trattatistica alchemica, ha però cura di consultare in merito le teorie di alcuni commentatori di Aristotele molto citati, come Timone Ebreo (XIV sec.) e Marco Antonio Zimara (1460-1523). Tuttavia, nella composizione delle argomentazioni, è evidente anche l’influenza della Questione sull’alchimia di Benedetto Varchi, rinvenibile altrove su questo stesso sito (clicca qui) scritta nel 1544 e ben più estesa, con la quale il testo del Vieri presenta non poche somiglianze. Il Varchi, del resto allievo del nonno, il Verino primo, sarà poi successivamente in contatto col nipote, ed è quindi abbastanza ovvio pensare, a trentasei anni dalla Questione del Varchi, ad un rapporto diretto di filiazione tra questo testo e le più stringate riflessioni del Verino secondo.
Il Discorso è dedicato a Francesco I de’ Medici, come il padre Cosimo interessato cultore di filosofia naturale ed affascinato dall’alchimia, colui che fece affrescare il bellissimo studiolo nel quale si ammira il Laboratorio dell’Alchimista di Giovanni Stradano.
La seguente trascrizione si basa sull’edizione del Ms. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magl. Cl. XVI, cod. 78, f. 2r, pubblicata da Sylvain Matton, con la presentazione di Jean-Marc Mandosio, in Chrysopoeia, tome V (1992-1996), pp. 545-569. L’accentazione è stata ricondotta a quella moderna, per il resto la trascrizione è conservativa.
Il trattato del Verino secondo è però presente, sempre nel catalogo della Biblioteca di Firenze, anche in un ms. della Laurenziana (Acquisti e Doni 29), in una versione più prolissa ma non dissimile. 
Nel testo che presentiamo in questa sede sono state ricondotte all’uso moderno punteggiatura, elisione ed accentazione. Per il resto la trascrizione è conservativa.

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.
 

NOTE:

(1) Sulla famiglia Vieri, vedi le notizie in Alfonso Lazzari, Ugolino e Michele Verino, studi biografici e critici. Contributo alla storia dell’umanesimo in Firenze (Clausen, Torino 1897, pp. 27-30) e relativa bibliografia.
(2) S. Matton / J-M. Mandosio, Le “Breve discorso intorno all’arte dell’alchimia” de Francesco de Vieri, in Chrysopoeia, tome V (1992-1996), pp. 545-569.  Del testo del Vieri si era già occupata Alessandra Del Fante in Un testo inedito di Francesco Verino secondo sull’alchimia, in Annali dell’Istituto di Filosofia di Firenze IV (1982), pp. 75-90. 

 
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BREVE DISCORSO DI Messer Francesco de Vieri detto il Verino secondo intorno all’arte dell’alchimia. 

 
Al Serenissimo Gran Duca Francesco Medici Gran Duca di Toscana

Se con l’Arte si potesse trasmutare un metallo nell’altro, Serenissimo Gran Duca et mio signore, non altramente che Dio et la natura trasmutano una cosa nell’altra, cioè la materia corporale, la quale in un tempo è sotto una forma, et in un altro ne levano quella et ve ne introducano un’altra; come per cagione di essempio, quella stessa sostanza, et materia che è sotto forma di pane et di vino, si muta nel ventre della madre in sangue, et una parte di questo poi prende la forma d’huomo, et poi di cadavero, poi di vermi, et questi si risolvano ne quattro elementi, de quali si fanno poi delli altri misti; se con l’arte, dico, detti Alchimisti si potesse così fare quanto à metalli et massimamente di trasmutare il manco nobile nel più nobile, come il piombo in argento ò in oro, quest’arte sarebbe per la sua gran potenza molto maravigliosa; et perché dell’argento et dell’oro ci serviamo negl’atti di giustizzia conmutativa del vendere et del comperare à ogni momento, et i prencipi et i governari degli stati nella giustizzia distributiva, di qui è che ella apporterebbe alle Repubbliche grandissimo commodo et utile; et perché non la potrebbe far questo senon con grandissima cognizione delle cose naturali, ella meriterebbe non solamente lodi, ma ancora honori, et non piccioli; ma quando pure quest’arte ò non sia possibile a esercitarsi, o molto difficile, sarà nondimeno bene haverne quella vera resoluzzione che sene dee havere, accioché non si perdino le spese tentando di far quello che è più vicino all’impossibile che al possibile, come sino a hoggi hanno fatto molti et molti, mossi non so se più d una estrema voglia di arricchire o da troppo vano desiderio che tengono delle cose occulte. Et quando pure quest’arte Alchimica sia impossibile, o quasi impossibile, ne caveremo almeno due utilità di non picciola importanza: l’una che conosceremo quanto l’arte di Dio et di Natura ecceda l’arte et l’ingegno nostro, et così quella admireremo et honoreremo tanto più; l’altra è che ci volteremo a un’altra sorte di Alchimia, con la quale quel poco di oro che haremo, et che è corruttibile come tutte le altre cose di quaggiù, et che di rado si mantiene ne terzi heredi, in un’oro sempre durabile convertiremo, et questi è la virtù principalmente della carità con i bisogni et co’ buoni, la qual sola ci fa degni dell’eterna beatitudine, commendabili a chiresta, et quieti in noi stessi. Egl’è dunque bene in tutti i modi che da me si esamini questo bel dubbio, et cotanto desiderato da grandi et da begl’ingegni, se l’arte degl’Alchimisti è vera et possibile o no; dove io procederò così.
Primieramente supporrò alcune verità dell’Arti in generale, et di questa in particolare che si domanda Alchimia, accioché si intenda meglio il titolo di questa quistione.
Secondariamente io argomenterò in favore di quelli i quali, in tutto e per tutto, niegano potersi con l’arte trasmutare un metallo nell’altro. Nel terzo luogo proverò il contrario et risponderà alle ragioni di quelli che la lievano via. Se a V. A. Serma parrà che io habbia ben risoluto così importante dubbio, et conforme a quella piena notizzia et esperienza che Ella ne ha, si potrà con sua buona grazzia aggiungere al mio libro della Metheora già da V. A. Serenissima approvato et lodato. Et quando cotal disputa ella non giudichi essere ben determinata, sene potrà fare un sacrifizio a Vulcano, o al meno, come le cose mal fatte et che non piacciono, lasciarla stare per sempre occulta. Et V. A. Serenissima accetterà al meno il grato animo mio, che è sempre intento a far le cosa grata et a servirla nella magnanima impresa della Filosofia, come io ho fatto sino a qui 26 anni continui nel suo studio di Pisa, con tanta fatica et diligenza quanta per me si è saputo e potuto, non ostante che io sia stato da molti anni in qua, et sia ancora al presente, da gli invidiosi, dalla povertà et da altri fieri accidenti combattuto et afflitto così fieramente, quanto in gran parte sa V. A. Serenissima, col favore et aiuto della quale, et del Re dell’universo, io spero di vincere ogni difficultà, et di dare fuori a pubblica utilità delli studiosi delle Virtù e delle scienze di molte altre mie fatiche, et Toscane et latine. Et tra queste principalmente sarà un raccolto o una tavola di più di mille distinzioni cavate da me in più et più tempo di Aristotile et de suoi migliori espositori, onde da filosofanti si potrà risolvere in Filosofia ogni dubbio possibile a risolversi. Bacio con ogni atto di reverenza le mani a V. A. Serenissima et la disidero dalla D. M. tanto più de beni dell’animo che di quelli del corpo et che di quelli della Fortuna, quanto quelli dell’animo eccedono di valore et di stabilità ogni altra sorte di bene.
La prima verità adunque, che si dee primieramente supporre in questo luogo sia questa, che tutte le notizzie o professioni con le quali in una ben ordinata repubblica gl’huomini si giovano l’uno all’altro sono di quattro maniere: o scienze specolatrici del vero, o attive e civili, o fattrici o instrumentali. Le specolatrici del vero sono, parlandone in genere, tre, perciò che o le contemplano di dio et delle nature intellettuali, et questo si appartiene alla metafisica o alla Theologia; o le considerano le sostanze sensibili et naturali come sono i cicli, gli elementi, gli effetti methereologici, le piante, gli animali et l’huomo; o terzo le ci danno notizia certa et per demonstrarioni fortissime, delle quantità con delle linee, delle superficie et de corpi et de numeri, et questo fanno le matematiche et i loro professori. La Theologia contempla le cose divine et ne adorna l’intelletto, parte più nobile dell’anima nostra; la Naturale le naturali, et questa si adopera l’intelletto insieme ed i sensi externi. La Mathematica le quantità et si fonda nell’intelletto e nel senso di dentro insieme, et massimamente nella fantasia. Le dottrine Attive et Civili fanno professione di regolare et di moderare le passioni dell’appetito sensitivo et dell’azzioni humane, et queste sono la Morale che modera li affetti e gl’atti d’un huomo solo, la Economia quegli della famiglia, et la Legale Filosofia quegli di tutta la Città et tutte l’altre che suono alla Civile et Regale Facultà, come sono l’arte della milizia, quella degli ambasciadori, della pittura, della scoltura et simili. Quelle poi che sono fattrici son tutte l’arti serventi al corpo, quanto al vitto l’agricoltura et altre simili; al vestito l’arte della lana, all’habitazzione l’arti de fabbricanti, al provvedere d’altronde di quello che manca in una Città et comunanza di popoli l’arte de mercanti, et alla sanità sue l’arte del medico. Nel quarto et ultimo luogo sono le facultà, le quali i greci et tutti i più giudizziosi addomandono istrumentali, come sono la Grammatica, che contiene le regole del parlare et della scrivere bene ogni suo concetto; la Logica quelle del dimostrare ogni verità con ragioni demostrative et necessarie, dove la cosa lo pastisca, come avviene nelle quantità mathematicali; la Dialettica quelle del disputare et del rispondere alle ragioni probabili; la sofistica quelle del sapere formare le ragioni sofistiche et di saperle risolvere; la Rethorica quelle del persuadere et dissuadere conmovendo gli affetti; et la Poetica, la quale di più usa l’artifizio dello imitare et la favola. L’Arte dell’alchimia, della quale si dee disputare, appartiene all’arti fattrici et che servono al corpo et a questa nostra vita corporale. Chi disidera havere di tutte a quattro queste maniere di professioni più piena et più particolare notizia, legga il mio discorso che io già ne feci, et lo dedicai a V. A. Serenissima et alla felice memoria della Serma Reina Giovanna d’Austria, lucidissima stella per religiosa pietà, per lo splendore del sangue et per castità singulare, et consorte di V. A Serenissima.
La seconda cosa che si dee supporre è che l’arte è imitatrice della natura, come questa è imitatrice di Dio, questa fa ogni cosa a qualche fine, et a quello procede con ottimi mezzi, et perché non intende, fa di bisogno che la sia al fine indirizzata da chi intende et non può errare. Che è Dio, come la saetta è indirizzata al berzaglio, che la non conosce, dal saettatore, che bene lo vede et l’intende; et noi con l’arte imitiamo l’opere di natura si perché ci serviamo de sensi nel conoscere et intendere, et le cose sensibili sono cose naturali le quali ancora sono imitabili perché con l’arte Divina son fatte, la quale è l’istessa scienzia di Dio, come io ho dimostro nel mio libro del sole, la quale riluce sino nelle cose che ci paiono vili, come ci dimostra et ci dice il prencipe dei filosofanti Peripatetici nel primo delle parti della animali all’ultimo capo. Di qui si può hora facilmente intendere quel luogo di Dante, non minore filosofo che egli si sia poeta et theologo, dove ei dice in questa maniera:

Filosofia mi disse a che l’attende
Nota non pur in una sola parte:
Come natura il suo corso prende
Dal divino intelletto, e da sua arte;
E se tu ben la tua fisica note,
Tu troverrai non dopo molte carte,
Che l’arte vostra quella quanto puote,
Segue: (come ‘l maestro fa ‘l discente),
Si che vostr’arte a Dio quasi è nipote.   

La terza verità che io suppongo in questo luogo è cavata da Aristotile nel primo libro de principii naturali, et è questa, che l’arti fanno i loro effetti di qualche sensibil materia in uno di questi cinque modi: o trasmutandola di una figura in una altra, come il bronzo di figura di cavallo in figura d’huomo o di vaso; o secondariamente aggiungendo alla materia altra materia, come fa l’arte di quelli che fanno le statue di mestura; o terzo rimovendone qualche cosa con lo scarpello, come quelli che fanno le statue di marmo; o quarto componendo le parti della materia insieme con l’arte, come fanno gli architettori; o finalmente alterando e transmutando di una forma sostanziale in un’altra l’istessa materia applicando l’agente naturale al patiente, come fa la agricoltore ben coltivando al terra e gettandovi i semi, donde ne nascono et grani et biade, mercè di essa terra come pazziente naturale, et mercé del sole et del caldo come agenti similmente naturali, et come fa il medico nel preservare i corpi nostri nella sanità o nel renderla loro per mezzo de rimedii naturali et del calore naturale del corpo nostro. Simil a quest’arte è quella dello spirito o demonio nel tentarci commovendo in noi gl’humori o i fantasmi delle cose, che ci muovono per mezzo del piacere e del dispiacere a errare: de quali spiriti io ragionai già in uno de miei libretti, come sa V. A. Serenissima. Così era fatta l’arte cabalistica, la quale applicando gli agenti naturali particolari et gl’universali o celesti lumi a’ pazzienti, facevano cose maravigliose et stupende,  le cui regole e’ non iscrivenono, ma a voce le insegnavono a’ gentili spiriti et a quelli che per bontà di costumi l’erano per usar bene. Una particella di questa si domanda alchimia, la qual voce viene da questa voce greca χúμι, chimi, che significa fondere et trasmutare un metallo nell’altro.
La penultima supposizione sia questa, che tutti gli effetti i quali son fatti da qualche cagione et a qualche fine, sono di alcuna di queste tre maniere: o da Dio et dalla natura solamente, come i cieli, le stelle, gli elementi, le piante, gl’animali et gl’huomini; di così fatte cose il filosofo naturale può essere solamente contemplatore della loro natura et delle loro proprietà et così il prencipe come filosofante, ma non può già farne alcuna, se bene volesse fare un mosca o una formica; siché vegga V. A Serenissima quanto sia piccola la potenza humana in queste cose rispetto a quella di Dio et di Natura; anzi più oltre quello che sanno o hanno saputo i più eccellenti di tutti i filosofi non è quasi niente a comparazzione di quello che di tutte le cose dell’universo sene dee sapere, et a paragone di quello che ne sanno l’intelligenze et Dio, se bene rispetto al sapere degl’idioti et non letterati la scienza de più gran filosofi sia molta et maravigliosa. Alcuni altri effetti a rincontro sono in tutto diversi da quei primi; peroché non si fanno se non dagl’huomini con la loro arte come sono gl’edifizii, le vesti, le scarpe, le selle, i freni et altre simili. Altri finalmente participano della condizione di quei primi et di questi secondi, perochè qualche volta si producano da Dio et dalla Natura solamente, come la sanità ne corpi quando la cagione del male è leggiera et atta a vincersi facilmente dalla natura de corpi nostri; et alcuna altra volta ci è di bisognio dell’arte, come avviene nelle malattie nelle quali di pari combattono la natura et la causa del male: in questo caso la natura aiutata dal arte vince et si libera dal male, et così il corpo ritorna sano. Quando la cagione della malattia supera la natura di gran lungha, in guisa che con l’aiuto dell’arte la non può superare la cagione interna del male, in questo caso, per non infamare i rimedii dell’arte, si dee lasciare l’infermo pronosticando che esi morrà, non a lui, ma suoi, come di questo benissimo ci avvertiscono i più eccellenti medici.
Secondo quelli i quali tengono che con l’arte Alchimistica si possa trasmutare un metallo nell’altro, i metalli saranno di quegl’effetti che si producano da Dio et dalla Natura, et alcuna volta ancora per mezzo dell’Arte; et questo è quello che qui da me si cerca. 
Finalmente et discendendo più al particolare si dee supporre che in tre maniere principali si può immaginare che questa arte (come ministra di dio et di Natura) faccia una nuova spezzie dei metallo, ò vero prendendo tanto de quattro elementi, che basti a fare quella spezzie di metallo che intendiamo di produrre, et di fare di nuovo vedere al mondo; et in questa guisa è impossibile che con l’arte si faccia alcuna sorte di metallo; o veramente, et questi è il secondo modo, pigliando dello argento vivo et del zolfo, et purificatogli et col fuoco a misura usato convertire un metallo nell’altro come il piombo in oro, i quali son simili nella gravità e nella morbidezza; et così si ingegnono molti delli Alchimisti  del fare di piombo oro. Il terzo modo è con certa acqua et con polvere d’oro tutto mescolando col piombo, et facendo in guisa che divenga oro fine et vero et non cattivo et finto. In questi due ultimi modi sta la disputa tra i filosofi naturali. Et convengono che nel primo modo solamente da Dio et dalla natura si possa di nuovo fare alcuna spezzie di metallo, per questa ragione, perché solo Dio sa quanti gradi di fuoco, d’aria, di acqua et di terra ci bisognia, et sotto quale costellazzione a punto si faccino i metalli. Da me dunque ancora si cerca se l’Alchimia può trasmutare un metallo nell’altro in uno di questi due modi, cioè di quello dove entrano il zolfo e l’argento vivo, del quale ne fanno fede la maggior parte degli Alchimisti, et di quello dove concorrono certa acqua et la polvere d’oro, del quale similmente si servono i medesimi Alchimisiti, et l’hanno imparato dalla natura, la quale alcuna volta inora le cose con simil polvere. Appiano Alessandrino, nella guerra de Romani contro a Mitridate Re di Ponto et dell’Asia dice così: «Pompeo havendolo perseguitato insino alle isole de Cholchi, deliberò non passare più oltre, non li parendo necessario circuire l’Isola di Ponto, né la Palude Meotide, né fare molti gran preparamenti contra chi era già caduto dal Regnio. Ma visitò ‘e Cholchi, dove volle intendere la historia delli Argonauti et la peregrinazzione de figliuoli di Giove et di Hercole. Dicesi che in quella Regione sono più fontane che producono oro, et escono dal Monte Caucaso, le quali hanno la rena quasi invisibile, dove li paesani distendono alcune pelli ne’ luoghi più profondi, et con esse ragunano la rena, et queste pelli dicono che paiono simili al colore dell’oro».
Queste son tutte quelle verità le quali si dovevano da me proporre a questa disputa, affine che più facilmente si intendesse il titolo di essa; et così speditomi dal primo capo, col favore di Dio et poi di Vostra Altezza Serenissima, vengho al secondo, che consiste nell’argomentare in favore della prima opinione, che niega questa arte delli Alchimisti. Et la prima loro ragione sia questa, se con l’arte si potesse da noi d’un metallo farne un’altro, l’arte nostra sarebbe d’ugual forze con l’arte di Dio et di Natura; ma ella è di minore virtù, come bene dice Averroe nelle disputazioni fisiche, et con gran fondamento, perché quanto Dio et le cagioni universali donde depende la Natura sono le più eccellenti che l’huomo, tanto l’arte et il potere loro sopravanzano l’arte et il potere degl’huomini; adunque se bene Iddio con le altre cagioni universali quali sono le intelligenze motrici de cieli et i celesti lumi con le altre cagioni naturali, posson produrre una nuova spezzie di metallo, et per aventura alcuna volta convertino una men nobile in una più nobile, non può però far questo l’arte degl’huomini.  
La seconda argomentazione che fa per costoro è quest’altra. Se gl’Alchimisti con la loro arte potessero fare qualche spezzie di metallo o trasmutare uno in un’altro, come il piombo o l’argento in oro, ricercandosi in ciascuno misto certa proportione di caldo, freddo, humido et secco, segno di ciò che distemperata et guasta questa proportione de quattro elementi  et delle loro qualità, si corrompe quel misto, come noi distemperato il nsotro corpo; et agl’huomini è occulta questa proporzione, adunque e’ non possono con l’arte et con l’ingegnio loro fare un metallo et uno effetto, come si fa da Dio et dalla Natura.
La terza prova si forma da me in questa maniera. Se da gl’Alchimisti si fa alcun metallo, questo si fa per virtù di questo nostro fuoco di quaggiù; ma questi ha più presto virtù di corrompere le cose che di generarle; adunque e’ non possono con l’arte loro fare alcuna spezie di metallo, ma questo è solo di Dio et della Natura, che si servono del calore generativo de cieli.
Finalmente in favore di questa opinione si può così argumentare. Se quest’arte fosse vera, in tante et tante centinaia d’anni che ha durato il mondo, et col favore et con la spesa de grandi et de ricchi, se ne sarebbero trovate (come dell’altre arti) le vere regole, di maniera che sempre, o il più delle volte che gl’alchimisti si mettessero a volere trasmutare un metallo nell’altro, riuscirebbe loro; ma sino a qui quest’arte non è venuta a cotale perfezzione, e non visi è accostata, adunque ella non è vera, anzi come dannosa si dee scacciare dalle Repubbliche nelle quali si tien conto del ben pubblico et del privato, atteso che, nel metterla in pratica, si impoverisce in luogo di arricchire; et tutte l’arti convengono in questo fine universale che è il guadagno, se bene poi le son differenti nel proprio, che è questi o quel bene, come del medico la sanità, del capitano degli exerciti la vittoria, et così discorrendo dell’altre. Se gl’atleti furon così detti dalla misera lor vita, che era l’affaticarsi per non istar mai bene, anzi per condursi inutili del corpo al potersi provedere delle cose necessarie, similmente si dee credere che gl’Alchimisti siano così stati chiamati non perché eglino habbino virtù di transfondere et transmutare un metallo nell’altro, ma perché e’ transfondono et transmutono loro stessi, et quelli che credono loro, in guisa che le ricchezze, molte o poche, si distruggono et convertono in povertà. Potrebbonsi per questa così fatta opinione addurre delli altri argomenti; ma per essere breve bastinci questi, in quali ben risoluti daranno non meno occasione di risolvere tutti gl’altri che di ragionare di questa facultà a’ belli spiriti et a’ grandi tra loro, et con i professori di quest’arte, non meno incerta che vana et inutile, come per le ragioni sopradette si è dimostrato.
Nel terzo ed ultimo luogo io proposi di argomentare in contrario, et di provare con Timone, col Zimarra et con molti valent’huomini, che questa arte dell’Alchimia è vera, et possa transmutare un metallo nell’altro; il che si dee fare ora da me, et insieme risolver gl’argomenti che facevano per la prima opinione. La prima argomentazzione adunque sia questa. Se un medesimo aspetto in ispezzie si può generar da Dio et dalla Natura come il fuoco, et ancora dall’arte nostra, questo istesso si può credere d’ogni altro effetto naturale per la medesima ragione; ma Dio et la natura producono dell’aria, o dell’acqua, o della terra il fuoco, come si dimostra da Aristotile nel secondo libro della Generazzione et della Corruzzione, et noi facciamo questo medesimo quando, percontendo con l’acciaiolo la pietra fochaia, facciamo che l’aria che si interpone fra questa et quello si assottiglia di maniera che si converte in fuoco; et con specchio concavo abbruciamo il panno nero, così come con una  guastada d’acqua messa a rincontro al sole, in cui raggi si uniscono in guisa che, opposto loro un panno nero o esca, vi appiccono il fuoco. Se adunque quest’elemento si può produrre non solo da Dio et dalla Natura, ma ancora da noi, adunque questo istesso ancora può avvenire de metalli.
Di poi con l’arte si generano delle vespe et delle pecchie, della vacha et del cavallo messi fura a putrefarsi, et son misti con l’anima, adunque tanto più facilmente si potranno dalli Alchimisti fare i metalli, che non hanno anima. Più oltre l’acciaio, che è una specie di ferro finissimo, non solo si produce da Dio et dalla Natura, ma ancora dall’arte per via del fuoco levandone quelle scorze più terrestri et con il fuoco spesso infocato consumando l’humido et così faccendo più duro et convertendolo in acciaio, come sperimentano i fabbri; ma dirado il fanno perché, così facendo, il ferro si consuma et ne torna lor danno, come confessa Aristotile nel quarto libro delle sue Metheore; così più volte strutto dal fuoco, il piombo si purga dalla stiuma, et finalmente diventa stagno, come confessa Alberto Magno nel suo libro de Metalli et delle pietre prezziose; se dunque il piombo purgato per via del fuoco si converte in istagno, questo similmente per via di fuoco si muterà in rame, et poi in argento, et finalmente in oro; et questo sarà un quarto modo di fare d’un metallo un altro.
Più oltre il medico (come ancora la natura et Dio) rende la sanità et la vita a gl’huomini, et l’agricoltore con l’arte dello annestar fa in guisa che su un medesimo tronco sono diverse spezzie di piante producenti diversi frutti, come su un pero diverse spezzie di pere, su un limone limoni, cedri et aranci. Alberto Magno racconta, nel suo commento sopra Porfirio, che, prendendo dell’uova del corbo, et mettendole sotto al concio che fuora è riscaldato dal sole, et rinvolte in argento vivo, ne nascono corbi con le penne bianche. Et il Conciliatore sopra i problemi di Aristotile racconta che con l’arte si possono havere delle pesche senza nocciolo facendo passare un ramucello di pesco per un ramo di salcio o di vetrice, et legando forte tanto che si appichi, et poi tagliando et spicchando detta marza dal pesco. Se dunque l’arti posson fare di questi effetti maravigliosi, potrà ancora la Alchimista mutare un metallo nell’altro.
Questa seconda opinione mi pare che più si accosti al vero, non tante per le allegate ragioni, le quali hanno più del probabile che del necessario, quanto ancora et molto più perché il negare l’Alchimia è un negare la virtù alli agenti naturali applicati dall’arte alla materia, et pure nella agricoltura et nella medicina si vede che operano; et perché se l’alchimia fosse in tutto e per tutto falsa, né mai transmutasse un metallo nell’altro, non si sarebbe in ogni secolo mantenuta nelle menti degl’huomini come ella si è; da che dunque è famosa, adunque ha certo che di verità della quale ne è maestra l’esperienza. Et finalmente io penso che quest’arte sia in qualche parte vera, che altramente sarebbe un negare che negl’huomini non fussi quella maniera d’arte con la quale, benché dirado, si trasmuta un metallo nell’altro. Si come alcune ne sono dell’arti, le quali conseguono il loro fine con regole fermissime sempre, come l’arte del fabbricare, della lana, del legnaiuolo, del fabbro et tante altre, et alcune ottengono quello che intendono di fare, non sempre, ma il più delle volte, come lo agricoltore le ricolte de grani, vini, biade et altre simili cose, il medico la sanità, et il maestro della nave il desiderato porto. Mosso adunque principalmente da questi tre fondamenti, io penso che l’Alchimia sia un’arte che partecipi del vero, et tanto più maravigliosa che utile, quanto più dirado ella ottiene il suo intendimento; et dalle repubbliche dee più presto essere admirata che messa in pratica.
Alle ragioni adunque in contrario addotte si dee rispondere, et primieramente alla prima, dicendo che se l’Alchimia transmutasse un metallo nell’altro sarebbe da più che la Natura et Dio, che ciò non fanno, o uguale quando gl’Alchimisti ciò facessero da per loro stessi, et non come ministri della natura et di Dio, come ‘e fanno; et quando alcuni artefici fanno alcune cose che non può fare l’arte, come una casa uno scabello, un freno, una sella, non perciò sono da più che Dio et la Natura, si perché si servono per materia delle cose naturali, si perché vanno in qualche modo imitando l’opere di Dio et di Natura, come il fabbricare le case con diverse stanze dalle pecchie, il tessere et le ragne del ragnatelo, l’uso de cristei dalla cicognia, l’arte del provvedere per il verno le cose necessarie dalla formica, et così discorrendo.
Alla seconda si dee dire che se bene non si sanno i gradi de quattro elementi et del calore che gl’unisca et digerisca, in guisa che se ne faccia qualche metallo, et così si provi che immediate de primi quattro elementi non si possa fare un metallo, non è però che di un metallo già fatto, et in molte condizioni simile ad un’altro, quest’altro non sene possa fare o per via di zolfo, argento vivo et fuoco, o d’acqua et polvere d’oro, o terzo purificando col fuoco tanto un metallo che si converta nell’altro, che è un quarto modo di dire, come disopra si disse, che del ferro si fa lo acciaio et del piombo lo stagnio.
Al penultimo argumento si può dire che il fuoco del quale si servono gli Alchimisti, in quanto ne l’usano con certa misura et proporzione, è conforme al calore celeste, et così conferisce alla generazione de metalli et non alla destruzione di essi, si come il calore del corpo nostro quando è moderato converte bene il cibo et il bere in ottimo nutrimento, ma quando è fuori del moderato o poco o troppo, fa il contrario.
All’ultima argomentazzione rispondono gli Alchimisti che la loro arte è vera, ma in  tanti anni non è venuta mai alla perfezzione per la troppa spesa che si corre in farne l’esperienza tanto che si imparino le regole a punto;  perciò che vedendosi prima i ricchi consumare le loro sostanze che stare in capitale, non che fare l’acquisto di roba, prima si lievano dall’impresa che ne venghino a fine; et così questo argomento più presto conchiude una somma difficultà di quest’arte che la impossibilità.
Questo è quanto io (non havendo esperienza alcuna di questa sorte dell’alchimia) ho giudicato fondandomi solamente su le ragioni, strumenti de filosofanti, doversi determinare di quest’arte, più per far cosa grata a Vostra Altezza Serenissima et alli studiosi della dottrina della metheora, che perché io pensi haverne discorso a pieno et profondamente, lasciando ciò fare a quelli i quali della filosofia naturale et dell’Alchimia insieme fanno più professione di me, et che hanno l’animo più libero da ogni molestia che io non ho.
Il fine.