Pagina on-line dal 19/05/2012
Henry Carrington Bolton in un ritratto d’epoca
Dei reperti architettonici di evidente valore ermetico, il più famoso è senz’altro la Porta Magica (o porta Alchemica) di Roma, in piazza Vittorio Emanuele. Di questo curioso reperto, tar le poche vestigia di un qualche rilievo della villa di Massimiliano Palombara, il nobile poeta-alchimista della corte di Cristina di Svezia, è facile verificare anche oggi la grande popolarità con una semplice ricerca su Google [1]. Un gran numero di pubblicazioni si sono avvicendate nell’ultimo secolo e mezzo per studiare ed interpretare il mistero connesso ai simboli ed alle iscrizioni della porta.
Quello che presentiamo qui è un lavoro che il chimico e storico della scienza Henry Carrington Bolton dedicò alla Porta Magica già nel 1895, ed è probabilmente, per quanto ne sappiamo, il primo lavoro contemporaneo dedicato all’argomento. Letto il 9 novembre 1894 ad un incontro della branca di New York dell’American Folk-Lore Society, esso fu pubblicato col titolo di The Porta Magica – Rome in The Journal of American Folk-Lore, vol. 8, n° 28 (gennaio-marzo 1895), pp. 73-78. Si tratta dunque di un lavoro di importanza storica, ulteriore testimonianza dell’attenzione che Carrington Bolton tributò al mondo, per lui così distante ma, si deve supporre, anche così affascinante, dell’alchimia. Di evidente formazione e fede positivista, il Bolton si interessò infatti ripetutamente di argomenti connessi all’ermetismo alchemico, sia a quello tradizionale rinascimentale e barocco (come in questo caso), che a quello a lui contemporaneo [2].
Il testo di Bolton sulla Porta Magica precede di ben quindici anni quello dell’ermetista italiano Pietro Bornia, ben più attento e competente, e reperibile su queste stesse pagine [3]. Nella decodificazione delle iscrizioni lo storico della scienza compie alcuni passi falsi, che sono segnalati nelle note del traduttore. Queste ultime sono contrassegnate tra parentesi quadra, mentre quelle dell’articolo originale, e dunque di mano del Bolton, sono racchiuse tra parentesi tonda.
Successivamente al testo di Bornia, del circolo ermetico raccolto intorno a Cristina di Svezia (Palombara, Santinelli etc. etc.) si sono occupate innumerevoli pubblicazioni. Particolarmente nota è l’attenzione dedicata alla Porta Magica da Eugene Canseliet, il celebre custode della leggenda di Fulcanelli, che si occupa diffusamente del reperto in Deux logis alchimiques en marge de la science et de l’histoire (Paris, 1945). Senza redigere un tentativo più o meno completo della bibliografia successiva, elenchiamo qui solo i titoli principali. Sulla porta ermetica anzitutto segnaliamo il saggio di Luciano Pirrotta, La Porta Ermetica, Athanor, Roma 1979. In tempi più recenti, vedi pure La Porta Magica: Luoghi e memorie nel giardino di piazza Vittorio. A cura di Nicoletta Cardano. Fratelli Palombi Editori, Rome 1990. Per una visione d’insieme dell’ambiente rosicruciano romano e dei suoi protagnoisti vedi il noto saggio di Susanna Åkerman, Queen Christina of Sweden and her Circle: The Transformation of a Philosophical Libertine. Brill, Leiden 1991. Sul Palombara vedi Mino Gabriele, Il giardino di Hermes: Massimiliano Palombara alchimista e rosacroce nella Roma del Seicento. (Con la prima edizione del codice autografo della Bugia – 1656). Editrice Ianua, Roma 1986. Della produzione alchimistica dei poeti rosicruciani romani si è a più riprese occupata Anna Maria Partini in una serie di pubblicazioni: Marchese Massimiliano Palombara, La Bugia: Rime ermetiche e altri scritti. Da un Codice Reginense del sec. XVII. A cura di Anna Maria Partini. Edizione Mediterranee, Rome 1983; Francesco Maria Santinelli, Sonetti Alchimici e altri scritti inediti. A cura di Anna Maria Partini. Edizione Mediterranee, Rome 1985; Giovanni Battista Comastri, Specchio della Verita – dedicato alla Regina Cristina di Svezia, Venezia 1683. A cura di Anna Maria Partini, Edizioni Mediterranee, Rome 1989; Francesco Maria Santinelli, Androgenes hermeticus composto da Minera Philosophorum e Radius ab Umbra completato da un Dialogo tra Maestro e discepolo che descrive l’intera Grande Opera. A cura di Anna Maria Partini, ed. Mediterranee, Roma 2000. Ultimamente, sempre ad Anna Maria Partini si deve un Cristina di Svezia e il suo Cenacolo Alchemico, ed. Mediterranee, Roma 2010.
Henri Carrington Bolton nacque a New York il 28 gennaio 1843, figlio del medico Jackson Bolton e di Ann Hinman North. Formatosi nella città natale al Columbia college, da cui esce diplomato a diciannove anni, egli manifesta giovanissimo una forte inclinazione per la chimica che spinge suo padre ad attrezzargli un laboratorio domestico. Continua la sua formazione dapprima a Parigi, dove rimane per un anno, poi ad Heidelberg dove studia col celebre Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899) ed infine all’università Georgia Augusta a Goettingen, dove riceve il suo diploma di Dottore in filosofia nel 1866. Dal 1872 al 1877 è assistente in chimica analitica e capo del laboratorio di analisi quantitativa alla Columbia University School of Mines e, nello stesso periodo, è professore al Woman’s medical college di New York. Nel 1877 viene nominato professore di chimica e scienze naturali al Trinity college di Hartford, nel Connecticut, dove diviene celebre la collezione mineralogica che egli raccoglie. Nel 1885, grazie alla sua riconosciuta competenza scientifica e mineralogica, viene nominato dal presidente degli Stati Uniti membro della prestigiosa Assay commission, l’antica istituzione responsabile del saggio e delle prove di conformità delle monete americane. Appassionato viaggiatore fin dalla giovinezza, nel 1887, alla morte di sua madre, ritorna tuttavia a vivere a New York, e, nel 1892, viene nominato non-resident professor di Storia della Chimica alla Columbian University di Washington. L’anno dopo, nel 1893, sposa miss Henrietta Irving di New Brighton. In questo periodo Bolton è un’autorità riconosciuta di livello internazionale, membro delle più prestigiose istituzioni accademiche, scrittore – non solo di chimica e storia delle scienze, ma anche di antropologia, viaggi, numismatica, letteratura etc. – autorevole, apprezzato e ricercato conferenziere. Delle sue circa 300 monografie pubblicate (alcune anche tradotte in altre lingue, specie tedesco) quasi i due terzi riguardano la storia della chimica. Muore il 19 novembre 1903 a New York. Intitolata al nome del grande studioso, è oggi attiva una Bolton society, che promuove ed incoraggia la raccolta e conservazione di ogni tipo di materiale a stampa riguardante la chimica: http://www.chemheritage.org/visit/library/bolton-society/index.aspx
Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.
NOTE:
[1] Vi si trova, in lingua italiana, anche una pagina di Wikipedia abbastanza completa. Per una introduzione al particolare milieu rosicruciano raccolto intorno a Cristina di Svezia, il lettore può fare riferimento, tra le molteplici risorse on-line, all’interessante lavoro di Susanna Åkerman: Cristina Di Svezia (1626-1689), la Porta Magica ed I Poeti italiani dell’aurea Rosa Croce.
[2] Il lettore potrà trovare su questo sito in prima traduzione italiana il saggio Il Revival dell’Alchimia (1897) e la breve e coeva indagine iconografica Una reliquia dell’Astrologia (1897).
[3] Pietro Bornia, La porta magica di Roma – studio storico, estr. da Luce ed Ombra 1915.
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LA PORTA MAGICA DI ROMA.
Di Henri Carrington Bolton
Traduzione di Massimo Marra © – tutti i diritti riservati, riproduzione e diffusione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.
Quando Cristina di Svezia entrò a Roma attraverso Porta del Popolo su un cavallo ed in costume da amazzone, fu ricevuta dalla corte papale con grande pompa, e creò una sensazione abbastanza in linea col suo eccentrico personaggio.
Poco tempo prima aveva abdicato al trono che aveva occupato per ventitré anni, sebbene avesse compiuto solo ventinove anni, ed aveva abbandonato la religione del suo illustre padre Gustavo Adolfo, il campione settentrionale del Protestantesimo, per abbracciare quella di cui la Città Eterna era la fonte. Con l’eccezione di qualche visita occasionale nel nord Europa, Cristina passò i restanti trentaquattro anni della sua vita a Roma, occupata in intrighi di corte e nella coltivazione di quelle branche di conoscenza per le quali la sua educazione mascolina le aveva precocemente dato il gusto. La sua mente era disciplinata dall’incontro con uomini di vigore intellettuale, e, dotata di eccellente memoria, ella mostrava attitudine per i severi studi matematici e scientifici, così come per le belle lettere e le arti. Collezionava opere d’arte, antichità e rari libri appartenenti ad ogni dominio della letteratura, riunendo nella sua lussuosa villa gli uomini più colti e le donne più brillanti della corte papale.
Nel giardino della sua villa accoglieva poeti, saggisti e filosofi di entrambi i sessi, che si abbigliavano con costumi da pecorai e pecoraie per imitare la pastorale semplicità dell’Arcadia. Un anno dopo la sua morte questa associazione fu formalmente organizzata col nome di Accademia Arcadica dal Gravina.
Nel grande salone della sua villa si riuniva un altro gruppo, per “discorsi scientifici su tutti gli utili e gradevoli, eruditi e celestiali argomenti”. In questo gruppo c’erano filosofi naturali, matematici, astronomi e naturalisti che più tardi diedero vita all’Accademia Clementina, istituita su piani compilati da Giovanni Giustino Ciampini. Non solo tutti gli incontri si tenevano nel palazzo della regina Cristina, ma lei stessa ne era anche la presidentessa perpetua e patrona; lei sceglieva i membri, nominava le cariche e redigeva le leggi che governavano questa singolare società.
L’attività di Cristina non conosceva limiti; teneva corrispondenza con molti studiosi europei, incluso Torricelli, l’illustre fisico, Alessandro Marchetti, il poeta ed astronomo, Domenico Cassini, il direttore dell’osservatorio astronomico di Parigi, e Viviani, il pupillo di Galileo; prese a suo servizio Vitale Giordano ed Alfonso Borelli, pagando loro uno stipendio affinché conducessero le loro ricerche scientifiche. Quando il figlio del borgomastro Guericke spedì a Cristina una copia dell’in-folio squisitamente illustrato contenente la relazione di un esperimento sul vuoto condotto a Magdeburgo, lei rispose con una graziosa e lusinghiera epistola.
Nel diciassettesimo secolo scienza e filosofia erano ancora ingombre di false dottrine e credenze superstiziose, che per centinaia di anni tennero in schiavitù anche le menti più illuminate. I matematici discutevano gravemente della quadratura del circolo e del moto perpetuo, ed erano occupati nel calcolare eventi futuri destreggiandosi con i numeri biblici. Gli astronomi, anche mentre scoprivano le leggi fondamentali del movimento delle orbite celesti, si guadagnavano la vita redigendo oroscopi per i ricchi creduloni e praticando l’astrologia nelle sue varie fasi. I medici somministravano ai loro infelici pazienti dei nauseabondi rimedi, e scrivevano trattati sulle polveri di simpatia e le cure mediante trapianti. I naturalisti discutevano di salamandre, fenici, oche cirripedi, apparizioni e mostri. Gli alchimisti sprecavano i loro mezzi e le loro energie tentando di ottenere un solvente universale, un elisir di vita, e cercando di trasmutare i metalli volgari in argento e oro. Rimanevano ancora tradizioni della gloria della Casa d’Oro di Augusto, elettore di Sassonia, e dei trionfi alchemici ivi compiuti; ancora sopravvivevano memorie delle trasmutazioni effettuate innanzi a Rodolfo II, l’Ermete della Germania, ed alla sua pseudo-scientifica corte di Praga. Il dr. Dee, l’inglese, e Sendivogio, il polacco, avevano da poco terminato le loro carriere di impostori.
Sebbene i chimici di quel periodo, Kunckel, Becher e Homberg in Germania, con Lemery in Francia, stessero allora sviluppando una scienza utilitaristica, la filosofia della chimica non era ancora nata, e la misteriosa arte dell’alchimia ancora formava parte legittima della cultura più evoluta. Molte persone eminenti prestavano fede ai suoi seguaci. Sir Isaac Newton se ne era occupato a tempo perso quando era giovane, e l’onorato Robert Boyle, – il padre della chimica e fratello del conte di Cork – credeva ragionevoli le sue teorie; Leibnitz era segretario della Società alchemica tedesca, fondata a Norimberga nel 1654; il dr. Helvetius, il noto medico di Leida, aveva recentemente pubblicato il suo Vitulus Aureus, che narrava le curiose circostanze che portarono alla sua conversione. Letteratura simile abbondava.
Nella casa nordica di Cristina, l’alchimia aveva mostrato un eccezionale vigore ed era patrocinata dalle teste coronate delle due divisioni politiche della Scandinavia. Ferdinando III, re di Norvegia e Danimarca, era uno zelante cultore di scienze ermetiche, ed aveva assunto un alchimista italiano, Borri, per condurre ricerche per la pietra filosofale. Questo Borri fingeva di essere assistito da un demone che appariva al suo comando, e causava al suo patrono stravaganti perdite di tempo e denaro. Dopo la morte di Ferdinando, nel 1670, Borri scappò a Roma, e, poiché Cristina aveva già impiegato i suoi servizi quando soggiornava temporaneamente ad Amburgo, è assai probabile che il furbo furfante la cercasse nella capitale italiana.
Il padre di Cristina, il grande Gustavo Adolfo, aveva favorito gli alchimisti e le loro pretese. Proprio nell’anno in cui Cristina gli successe al trono, Ambrosius Muller aveva condotto con successo una proiezione alla presenza del re, producendo, si dice, argento ed oro del valore di 30.000 ducati, e per commemorare ciò il re fece coniare, con entrambi i metalli, monete che recavano simboli alchemici.
Con tali precedenti ed in una simile atmosfera non è sorprendente che l’ex regina seguisse le più affascinanti manie, e coltivasse le pseudo-scienze dell’alchimia e dell’astrologia. Ella collezionava i più rari libri di alchimia e corrispondeva con i discepoli di Hermes di alta reputazione. Johann Kunckel, che in seguito fu invitato nella capitale svedese da Carlo XII, per sovrintendere alle miniere del regno, scoprì, nel 1669, la sostanza meravigliosa, il fosforo, e per un po’ il processo fu tenuto segreto. Sapendo ciò, Cristina scrisse all’Elettore di Brandeburgo per ottenere per sé la composizione dell’elemento luminoso.
Vediamo così la chiara inclinazione di questa talentuosa ed eccentrica donna verso l’alchimia. Poco tempo prima dell’anno 1680, mentre risiedeva alla Villa Palombara, situata sul colle Esquilino, stava aspettando un alchimista dalla Scandinavia, forse proprio il Borri menzionato sopra. Quest’uomo alluse oscuramente alla sua misteriosa conoscenza e le mostrò un antico manoscritto illustrato contenente il segreto della trasmutazione espresso in caratteri simbolici. Dopo una lunga opera di persuasione, la regina ottenne dall’alchimista una promessa di esibire i suoi poteri, ed ad un giorno ed un’ora determinati, questi effettivamente compì una trasmutazione alla sua presenza. La deliziata regina sarebbe rapidamente stata destinata alla più grande delusione, poiché l’alchimista non comparve mai più nel suo circolo, né tantomeno fu mai più trovata alcuna sua traccia. Ella aveva, comunque, conservato il manoscritto coi suoi simboli segreti, e ne fece oggetto di studio nella speranza di apprenderne l’arte ermetica. Dal momento, comunque, che né lei né i suoi colti accademici erano in grado di interpretarne i simboli, ordinò che essi fossero incisi sul marmo bianco della porta che portava alla sua villa, nella speranza che qualche passante potesse decifrarli.
Sebbene la Villa Palombara sia scomparsa da lungo tempo, questa porta, conosciuta come Porta Magica, è ancora preservata in una località precedentemente occupata dai giardini. La seguente descrizione del monumento è tratta da note prese dallo scrivente sul posto, nel gennaio 1894.
In un angolo di Piazza Vittorio Emanuele, una piazza circondata da edifici moderni di nessun interesse, vi sono le orgogliose rovine dei cosiddetti Trionfi di Mario, che in realtà sono i resti della torre serbatoio di Aqua Julia, nelle cui nicchie erano anticamente i trionfi. Questa rovina è ora convertita, in parte, in una pittoresca fontana, ed è coperta di cespugli e sempreverdi; di fronte, separati solo da un sentiero di ghiaia, ci sono i resti del muro di mattoni di Villa Palombara in cui fu costruita la Porta Magica. Su ciascun lato della porta vi sono grottesche statue di marmo attualmente mutile. Alla base e davanti vi sono grosse rocce irregolari, coperte di cespugli e rampicanti, e sulla sommità del muro fiorisce un albero di considerevoli dimensioni.
In cima, ai lati e sulla superficie della porta di marmo bianco, sono scolpiti simboli alchemici, con un’iscrizione in ebraico e dodici in latino (1). Questi simboli sono in parte semplici segni dei metalli, e parte invece combinazioni arbitrarie di questi tra loro e con caratteri cabalistici. Le iscrizioni e i simboli possono essere solo in parte interpretati, ed è necessario aggiungere che essi sono senza un reale significato sia per i chimici che per i filosofi.
Sopra la porta è scolpito un largo anello all’interno del quale vi sono due triangoli incrociati, ed all’interno di uno dei triangoli c’è un segno composto da una croce latina congiunta ad un cerchio, a sua volta contenente un altro piccolo cerchio. Nel cerchio esterno più grande c’è scritto:
(a) Tria sunt mirabilia Deus et Homo, mater et virgo, Trinus et Unus.
«Tre sono le cose mirabili: Dio e Uomo, la Madre e la Vergine [e Dio che è ] Uno e Trino».
Nel cerchio più piccolo alla base della croce:
(b) Centrum in trigono centri.
«Il centro nel triangolo del centro».
Sulla porta, alla sommità dello stipite, ci sono le parole ebraiche.
«Lo spirito di Dio»
La prima lettera potrebbe aver avuto in origine una piccola proiezione, nel qual caso sarebbe stata Lameth invece di Resh, e la iscrizione si sarebbe allora letta:
«La tavola di Dio»
Sullo stipite della porta, sotto le parole ebraiche, c’è l’iscrizione:
(c) Horti magici ingressum Hesperis custodit draco et sine Alcide Colchicas delicias non gustasset Jason.
«Un drago custodisce l’entrata al magico giardino delle Esperidi; e senza l’aiuto dell’Alcide (Ercole) Giasone non avrebbe gustato le delizie della Colchide».
Gli autori alchimistici erano avvezzi dichiarare che la spedizione degli Argonauti simbolizzava la ricerca della Pietra del Filosofi. Questa teoria è vecchia quanto Dionisio di Mitilene, che visse all’incirca intorno al 50 a. C..
Glauber, il medico tedesco, registra questa interpretazione col seguente pittoresco linguaggio: «quando gli antichi filosofi descrivevano con le loro parabole poetiche la laboriosa navigazione di Giasone verso la Colchide, ove risiedeva un enorme dragone vomitante fuoco, i cui occhi non erano mai chiusi e che diligentemente sorvegliava il vello d’oro, essi volevano significare che Giasone apprese da sua moglie Medea a somministrare a questo sempre desto dragone una medicina commestibile da deglutire, che lo avrebbe ucciso e fatto scoppiare; e che Giasone avrebbe poi dovuto prendere il dragone e immergerlo totalmente nel lago Stigio. Giasone, in questa ingegnosa favola, rappresenta geroglificamente il filosofo; Medea l’accurata meditazione; il laborioso e periglioso navigare la molteplicità dei lavori chimici; il dragone a guardia che vomita fuoco denota il salnitro e lo zolfo; e il vello d’oro è la tintura o anima dello zolfo, con l’aiuto della quale Giasone restaurò la salute del suo anziano padre ed acquisì per sé stesso immense ricchezze. Con le pillole di Medea si intende la preparazione dello zolfo e del sal mirabile (2). Con l’immersione totale del dragone nel lago Stigio si indica la fissazione dello zolfo attraverso l’acqua Stigia, che è Aqua Fortis. Dal che è sufficientemente chiaro quanto oscuramente gli antichi filosofi abbiano descritto la loro fissazione dello zolfo col nitro, e quanto segretamente essi la nascondessero dagli occhi degli indegni».
Il pilastro sinistro della porta ha tre simboli e tre iscrizioni; il primo è un segno alchemico non facilmente interpretabile, al di sotto del quale leggiamo:
(d) Quando in tua domo nigri corvi parturient albas colombas tunc vocaberis sapiens.
«Quando nella tua casa i negri corvi partoriranno le bianche colombe, allora potrai essere chiamato sapiente».
Al centro del pilastro sinistro c’è il simbolo del ferro, che si suppone denoti lo scudo di Marte; ma esso non è correttamente inciso, poiché la freccia dovrebbe essere inclinata rispetto al circolo, in questo modo (simbolo di Marte). Sotto c’è l’iscrizione:
(e) Qui cit comburere aqua et lavare igni facit de terra caelum et de caelo terram pretiosam.
Leggendo “scit” per “cit”, significa: «Chi sa come bruciare con l’acqua e lavare col fuoco, fa dalla terra il cielo, e dal cielo terra preziosa».
Il terzo simbolo del pilastro sinistro è composto dal segno dell’argento (una luna crescente) e da quello dell’oro (un circolo con un punto centrale), a cui è attaccata una piccola croce, che indica ogni sostanza corrosiva. Sotto vi sono le parole:
(f) Azoth et ignis de albando Latonam veniet sine veste Diana.
«Azoth e fuoco imbiancando Latona, Diana verrà senza veste».
Al lato destro dell’angolo in alto del vano c’è un oscuro segno con questa iscrizione:
(g) Diameter sphaerae thau circuli crux orbis non orbis pro sunt.
«Il diametro della sfera, il tau del cerchio, la croce di una sfera non sfera, trova queste cose»[1].
A metà del pilastro di destra c’è il simbolo del rame, talvolta chiamato lo specchio di Venere, con queste parole, parzialmente cancellate:
(h) Si feceris volare terram super caput tuum — us pennis — uas torrentum convertes in petram.
«Se farai volare la terra sopra la tua testa – – con ali, tu trasformerai – – di torrente in roccia» [2].
All’angolo in basso a destra, c’è un complesso simbolo composto dalla mezzaluna crescente dell’argento, dal cerchio dell’oro e dal segno del corrosivo, insieme ad oscure aggiunte. Sotto ciò c’è questa iscrizione:
(j) Filius noster mortuis vivit et ab igne redit — i conjugio gaudet occulis.
«Il nostro figlio morto vive e ritorna dal fuoco — si congiunge in matrimonio coi suoi occhi» (?) [3].
In basso al vano c’è un altro simbolo complesso non risolvibile, ed un’iscrizione in parte a sinistra ed in parte a destra del carattere:
(k) Est opus occultum veri sophi aperire terram ut germinet salutem pro populo.
«È l’opera occulta del vero sapiente aprire la terra perché germogli al salute per il popolo».
Sulla soglia sono appena leggibili le parole:
(l) Sesedes nonis (?) [4] che sono indecifrabili.
Sono debitore al Rev. Prof. Samuel Hart D. D. per l’assistenza nella traduzione dell’ebraico e delle iscrizioni altine, ed a Reginald Bolton per l’incisione che accompagna questo scritto, eseguita a partire da un rozzo schizzo dello scrivente.
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NOTE DELL’AUTORE:
(1) Cancellieri Francesco, Diss. Epist. Sopra la statua del Discobolo scoperta nella Villa Palombara, Roma 1806.
(2) La stessa scoperta di Glauber, la sostanza ancora familiarmente nota come Sale di Glauber.
NOTE DEL TRADUTTORE:
[1] In questo caso Carrington Bolton propone una traduzione non condivisibile, frutto di un’evidente forzatura ermeneutica. Molto più corrispondente la traduzione generalmente ammessa: «Il diametro della sfera, il tau del cerchio, la croce di una sfera non giovano ai ciechi».
[2] Anche qui la trascrizione e la relativa traduzione sono essenzialmente errate: il testo, così come è stato correttamente ricostruito, è il seguente: Si feceris volare terram super caput tuum eius pennis aquas torrentium convertes in petram, che si traduce: «se farai volare la terra al di sopra del tuo capo, con le sue penne convertirai in pietra le acque dei torrenti».
[3] Assai significativo il punto interrogativo che qui Carrington Bolton inserisce dopo la sua proposta di traduzione. In effetti anche in questo caso la trascrizione è inaffidabile, ed il testo recita: Filius noster mortuus vivit rex ab igne redit et coniugio gaudet occulto, ossia: «Il nostro figlio morto vive, torna re dal fuoco e gode dell’occulto matrimonio».
[4] Ancora un espressivo punto interrogativo di Carrington Bolton, che non legge correttamente il motto palindromo si sedes non is che, da sinistra a destra è traducibile con «se siedi non vai», mentre da destra a sinistra significa «se non siedi vai».