Magophon (Pierre Dujols) – Ipotiposi al Mutus Liber (1914) – Introduzione, traduzione e note di Massimo Marra

Pagina on-line dal 26/05/2012

Uscita a firma di Magophon nel 1914 questa Hypotypose era nei fatti dovuta alla penna di Pierre Dujols de Valois, l’erudito proprietario della Librairie du Merveilleux – libreria che aveva rilevato dal martinista della prima ora Chamuel, al secolo Lucien Mauchel (1867-1936). La Livrairie era uno dei centri di incontro più importanti dell’ambiente esoterico parigino.

Pierre Dujols era nato A Saint-Illide, nel Cantal, nel 1864. Traferitosi con la famiglia a Marsiglia, si forma dai gesuiti di Aix—en-Provence, poi diviene giornalista, prima a Marsiglia ed in seguito a Tolosa. Si trasferisce infine a Parigi dove, intorno al 1909, insieme al socio Alexandre Thomas, rileva la Librairie du Merveilleux. Siamo nella Parigi della Belle Époque, dell’esoterismo teosofico e martinista: nel milieu di Dujols troviamo Paul Vulliaud, René Guénon, i fratelli Abel ed Albéric-Alexandre Thomas, Jean-Julien Champagne. In questo ambiente di giovani martinisti nasce, in seguito alle comunicazioni ricevute in una seduta spiritica del gennaio 1908, l’effimero Ordre du Temple Renové, con a capo René Guénon, che si scioglierà intorno al 1911. A partire da quest’anno Pierre Dujols si ammalerà di una forma grave di artrosi deformante, che degenererà nei dieci anni successivi. A partire dal 1921, egli è completamente allettato ed in questo stato lo coglierà la morte cinque anni dopo, nel 1926.

Pierre Dujols era, secondo quanto la brochure (2) curata da suo fratello Antoine (1845-1892) – curiosa figura di taumaturgo – si perita di precisare, discendente dell’ultimo figlio di Caterina de’ Medici, il duca d’Alençon. Fu di grande erudizione ermetica – lo si evince dalle sue dotte note bibliografiche, di sovente utilizzate dal Caillet per la redazione del suo Manuel bibliographique des sciences psychiques ou occultes (3) – e fu l’autore degli appunti sul simbolismo ermetico delle cattedrali gotiche francesi che furono alla base della redazione, da parte di Champagne e Canseliet, delle opere di Fulcanelli. Alchimista pratico (aveva allestito un laboratorio), era aiutato nei suoi lavori dal suo allievo in scienze ermetiche, Lucien Faugeron.

Di là dall’uso compiaciuto di un codice criptato particolarmente ermetico, dalla Hypotypose di Dujols emerge subito un carattere specifico: il commentario di Pierre Dujols è figlio diretto della renaissance occultista di Papus e Barlet. L’iniziazione come techne, la sufficienza con cui si guarda alla preghiera – esplicitamente richiamata e più volte raffigurata nel Mutus Liber – che sappiamo probabile prodotto di un ambiente riformato – considerata “inoperante” rispetto ad una tecnica, all’improbus labor, non ha nulla dell’alchimia tradizionale così come la ritroviamo dal medioevo lungo tutto il rinascimento, ed è tipica dell’interpretazione scientista dell’occultismo fin de siècle. Si tratta del segno fondamentale dell’interpretazione di Dujols. L’alchimia di Magophon, in maniera del tutto inusitata rispetto alla tradizione dei patres dell’arte, è infatti interpretata come il «… substratum positivo che è l’assise dei santuari di tutti i culti sparsi sul globo». Essa, lungi dal rivestire il ruolo di un techne iniziatica tributaria di una metafisica compiuta, si costituisce quale fondamento ultimo di «…tutte le credenze imposte al volgo per mezzo di una mitologia appropriata (Bibbia, Veda, Avesta, I King etc.).». Elemento positivo e positivista, essa è il fondamento autentico sotteso ad una truffa metafisica universalmente diffusa e declinata.

Nelle Hypotypose il lettore troverà in nuce uno dei caratteri più squisitamente fulcanelliani: le surreali etimologie della cabala fonetica, tipiche di questo milieu. Le si incontrano nel caso del selago, l’erba descritta da Plinio il Vecchio – che proverrebbe da sel, sale ed agere, produrre – e nell’inedita traduzione del greco αυρ con luce.

Per quanti fossero interessati ad un primo approccio di ermeneutica simbolica alle tavole del Mutus Liber, consigliamo qui il testo di Mino Gabriele, Commentario sul Mutus Liber, uscito nel 1974 per le edizioni Arché e di recente ristampato.

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

Note:

(1) Le notizie biografiche su Pierre Dujols sono tratte dai lavori di Geneviève Dubois: Fulcanelli Devoilé (Dervy, 1992) e AA. VV. Ces hommes qui ont fait l’alchimie du XXe siècle, Geneviève Dubois éditions, Grenoble 1999.

(2) Valois contre Bourbons: simples éclaircissements avec pièces justificatives / par un descendant des Valois. (1879).

(3) Geneviève Dubois, Élements pour une biographie de Henri Coton-Alvart, in Ces hommes qui ont fait l’alchimie du XXe siècle, Geneviève Dubois éditions, Grenoble 1999, p. 34.

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Pierre Dujols de Valois.

IPOTIPOSI AL MUTUS LIBER.

Traduzione di Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

Questo titolo, indipendentemente da quanto possa apparire, non ha la minima pretesa. È del tutto tecnico, il solo genuinamente adatto al soggetto, poiché traccia, nella sua concisione, il piano del nostro studio. Una ipotiposi (da υπο sopra, e τυπος stampa, emblema) è una spiegazione posta sotto delle figure astratte. Ora, il Mutus Liber è proprio una raccolta di immagini enigmatiche.

Si è formata intorno al Mutus Liber una leggenda assurda. Una scuola – che non ha di ermetico che il nome – ha attribuito a quest’opera una reputazione di oscurità impenetrabile e, per questa ragione e, lo venera come un sacramento, senza comprenderlo. È un errore, così come il tradurre Mutus Liber con Libro Muto, senza parole; è un controsenso filosofico. Tutti i segni adottati dall’umana industria per manifestare il pensiero sono dei verbi. I Latini, intendendo questa parola congruamente, chiamano il disegno, la pittura, la scultura e l’architettura, per mezzo delle quali gli Ierogrammati riservano agli eletti gli arcani della Scienza, mutae artes, ovvero arti simboliche.

Cos’è un simbolo? Συμβολη è una convenzione, un segno di riconoscimento. Un simbolo è dunque ciò che noi oggi chiamiamo un “codice”, un sistema tacito di scrittura adottato per la corrispondenza diplomatica o commerciale, per le comunicazioni telegrafiche, semaforiche etc.. Per un uomo illetterato ogni libro è mutus. Un volume in ebreo, sanscrito, cinese, è un mutus liber, un libro muto, per la maggioranza, ancorché sia questa istruita nella propria lingua. Bisogna dunque rifarsi all’idea, semplicissima, che il Mutus Liber è un libro come gli altri e che può leggersi chiaramente se solo se ne possiede il codice.

D’altronde, le opere di alchimia in versi, in prosa, in latino, in francese o in qualunque altro idioma, non sono in sé che dei crittogrammi. Benché scritti con le banali lettere dell’alfabeto ed il vocabolario comune, essi non rimangono meno indecifrabili per chiunque ne ignori la chiave.

A dire il vero, tra i due processi crittografici quello del Mutus Liber è ancora il più trasparente, perché l’immagine oggettiva è certamente più comunicativa dei tropi letterari e delle figure retoriche, soprattutto in una materia tanto sperimentale quanto quella della chimica.

Appuntando queste poche pagine di commentario alle stampe allegoriche del Mutus Liber, ci siamo proposti, senza abbandonare il mantello del filosofo, di facilitarne la lettura, con un’interpretazione sincera, agli autentici ricercatori della scienza probi, pazienti, laboriosi come api diligenti, e non ai curiosi, frivoli e sfaccendati, che passano la loro vita a sfarfallare inutilmente di libro in libro, senza mai arrestarsi su di uno di essi per estrarne la mellifica sostanza.
Ma come! La grammatica, la geografia, la storia, le matematiche, la fisica, la chimica e il resto non divengono accessibili che dopo lunghi e penosi sforzi, mentre si vorrebbe entrare alla sprovvista nel “Palazzo del Re” senza osservare le convenienze e sottomettersi alle leggi dell’etichetta! Una lettura affrettata e superficiale non può rimpiazzare lo studio austero e grave. Le stesse scienze profane non sono penetrabili ed assimilabili che a seguito di un lavoro sostenuto e prolungato. Ci si può obiettare che l’università conta illustri grammatici, geografi, storici, matematici, fisici e chimici, ma che non vi si segnala mai il minimo alchimista. E che se l’ordinario di alchimia è sconosciuto, allora l’alchimia è una chimera. Questo argomento ad hominem non è privo di repliche: una cosa nascosta non è per questo inesistente, e l’alchimia è una scienza occulta; o, meglio ancora, potremmo dire che essa è la scienza occulta tutta intera, l’arcano universale, il sigillo dell’assoluto, l’energia magica delle religioni, ed è per questo che la si è chiamata Arte Sacerdotale o Sacra.

Esiste in tutte le credenze imposte al volgo per mezzo di una mitologia appropriata (Bibbia, Veda, Avesta, I King etc.) un substratum positivo che è l’assise dei santuari di tutti i culti sparsi sul globo. Questo mistero, riconosciuto nel catechismo come appannaggio dei Pontefici, che ne sono in pubblici dignitari, è l’alchimia su tutti i piani: fisico e metafisico. Il possesso esclusivo del sacrarium costituisce la forza delle Chiese; esse vegliano così sul “segreto massonico” con una cura gelosa ed inquieta, assecondate da una polizia ed una censura ombrose.

Non diciamo niente a caso, e ciò nonostante, queste affermazioni possono sembrare gratuite perché inverosimili, visto che, dall’invenzione della stampa, i libri ermetici sono sempre stati pubblicati liberamente con licenza delle autorità civili e religiose. E niente, in effetti si opponeva alla diffusione di questi libelli scritti in lingue conosciute ma con un codice interno, complesso al punto che i più grandi chimici di Scuola, da Lavoisier a Berthelot, vi si sono rotti la testa senza risultato. Non è qui il luogo di ricordare la sprezzante apostrofe di Artefio e gli avvisi alteri degli Adepti che dichiarano, senza ambage, di non scrivere che per coloro che sanno e per ingannare gli altri! Così si fa parlare nei Vangeli il Cristo, ed i discepoli si modellano sul Maestro.

Ma, per essere una scienza nascosta, l’alchimia è nondimeno una scienza reale, esatta, conforme alla ragione e, per di più, razionalista. In ogni tempo vi furono dei “facitori d’oro” e “gentiluomini vetrai”; ancora oggigiorno la trasmutazione opera miracoli. A seguito di recenti dibattiti sensazionali si è detto – e con quale stupore – che l’Amministrazione della Moneta avrebbe sequestrato, senza alcun altra forma di processo – ed a buon ragione! – la produzione di un alchimista contemporaneo: «voi non dovete saper fare l’oro!» gli si disse con aria sanzionatoria, rilasciandolo con le mani libere ma vuote. Era dunque proibito essere sapienti o l’alchimia era forse un segreto di stato? Ciò non comporta affatto la sciocca conclusione che i ministri che si succedono siano kabbalisti. I re regnano, ma non governano, secondo un celebre aforisma. Sembra proprio che nel retroscena vi sia qualche eminenza grigia che tira le fila! I famosi “recessi del Tempio” non sono forse aboliti come si suppone, e ci sarebbe un libro sorprendente da scrivere sulle filigrane delle banconote e le sigle delle monete.

Ma in questo caso, si dirà, perché l’oro è divenuto tanto raro da che la vita sociale ne è come paralizzata? I contanti non si sono volatilizzati, essi si sono spostati, e bisogna attendere che ritornino al loro punto di partenza attraverso un movimento economico inverso. Solo una lentezza eccessiva in questo ritorno può avere delle conseguenze incalcolabili.

La politica dei popoli è regolata da un patto metallico segreto che non può essere violato senza provocare le più gravi complicazioni internazionali. Si stamperanno dunque banconote a pieno ritmo ma non si conieranno più monete d’oro. E, ciò nonostante, non è l’oro che manca. Esso si ostenta ostensibilmente, e con quale fasto, su spalle innumerevoli, sui polsini, sulle dita e anche su gambe la cui estetica ed eleganza lascia talvolta a desiderare. Nulla sarebbe pertanto più facile, per lo stato, che lo scambiare la sua carta contro della materia preziosa e mettere al conio delle monete. È paradossale, ma è la verità. Vi è dunque in questa eclissi dell’oro in moneta una ragione profonda basata sulla saggezza. “Oro è chi oro vale”, dice un adagio. Se era lecito il conio per le nazioni che avevano esaurito le loro riserve normali, la sovrabbondanza avrebbe comportato il deprezzamento. Il tallone fiduciario non offrirebbe più alcuna garanzia e tutto equivarrebbe a moneta falsa. L’equilibrio finanziario sarebbe rotto, sarebbe la morte degli affari, la rovina mondiale. È per questo che la produzione “naturale” dell’oro è essa stessa limitata, tanto che si rifiuta la concessione di nuove miniere e perfino la sua estrazione a basso rendimento dalle sabbie fluviali e simili.

Ciò nonostante l’ora è prossima in cui la scienza reclamerà integralmente tutti i suoi diritti, ed in cui l’occulto diverrà nuovamente manifesto come lo fu in passato. Il colto Girtaner l’ha annunciato basando la sua opinione su delle leggi ignorate ma certe: «al XX secolo la Crisopea sarà di dominio pubblico». Questo avvenimento considerevole è evidentemente subordinato ad uno statuto sociale del tutto differente da quello che ci regge; ma noi stiamo andando forte, il mondo gira velocemente e chi può prevedere come sarà il domani!

Tuttavia, se l’alchimia si limitasse unicamente alla trasmutazione dei metalli, sarebbe una scienza inestimabile dal punto di vista industriale, ma abbastanza mediocre da quello filosofico. In realtà, non è così’. L’alchimia è la chiave di tutte le conoscenze, e la sua divulgazione completa è chiamata a sconvolgere da cima a fondo le istituzioni umane che si fondano sulla menzogna, per rifondarle nella verità.

Queste considerazioni preliminari ci sono parse opportune, prima di prendere caritatevolmente per mano il lettore, per condurlo negli inestricabili meandri del labirinto.

Siccome è nostro desiderio l’essere utili ai ricercatori, ma non possiamo d’altronde, in qualche pagina, scrivere un trattato tecnico, dobbiamo, prima di penetrare nella materia, orientare il discepolo verso l’opera che meglio sembra corrispondere alle figure del Mutus Liber. La maggior parte delle operazioni indicate in questa raccolta di simboli si trovano abbastanza ben descritte dal più noto dei filosofi in L’Entrata aperta al palazzo chiuso del Re di Ireneo Filalete.

Non è certo che non vi sia più nulla da aggiungere. Al contrario. La pratica di Filalete, che ci è presentata sotto apparenze amabili e persuasive, è tra le finzioni più sottili e perfide della letteratura ermetica. Ciò nonostante essa racchiude la verità, ma come talvolta il veleno racchiude il suo antidoto, se si sa isolarlo dagli alcaloidi perniciosi. All’occorrenza segnaleremo le trappole a misura che si presenteranno sul nostro percorso.

Il Mutus Liber si compone di quindici tavole, le une veridiche, le altre sofistiche, e disposte in uno di quei bei disordini che, seguendo i precetti di Boileau , è un effetto dell’arte.

LA PRIMA TAVOLA, che serve da frontespizio, è veramente di importanza capitale. Dalla sua comprensione dipende tutto il successo dell’Opera. Vi si vede, in un cartiglio formato da due roseti intrecciati, un uomo addormentato su una roccia su cui vegetano degli arboscelli rattrappiti di quercia kermes, Un’acqua limpida ne sgorga con riflessi metallici. A lato del dormiente, su di una scala – La Scala dei Saggi – due angeli suonano la tromba per risvegliarlo. Al di sopra, un cielo notturno propizio al riposo: le stelle brillano e la luna staglia il suo corno di abbondanza.

Questa pagina iniziale comporterebbe una critica non imputabile all’autore istruito, ma piuttosto all’artista profano che, nella riproduzione delle figure, ha prodotto, senza dubitarne, un pesante controsenso. Ed è già gran cosa segnalarlo, senza che sia necessario insistervi oltre. Le glosse ermetiche ne avvertiranno il discepolo che non giudicherà inutile informarsi.

L’uomo addormentato è il soggetto dell’Opera. Qual è questo soggetto? Gli uni dicono che è un corpo, altri affermano che è un’acqua. Gli uni e gli altri sono nel vero, perché un’acqua, denominata “la bella d’argento”, zampilla da questo corpo che i Saggi chiamano la fontana degli Innamorati della Scienza.

È il misterioso selago dei Druidi, la materia che dà il sale (da sel per sale, ed agere per produrre). Il segreto del magistero è liberarne ancora lo zolfo ed utilizzarne il mercurio, poiché tutto è nel tutto. Certi artisti sostengono di dirigersi altrove per questo fine, e noi non negheremo che l’idrargirio di cinabro possa essere di qualche aiuto nel lavoro, se si sa debitamente prepararlo da soli; ma non si deve impiegare che con discernimento ed a proposito. Per noi, colui che perviene ad aprire la roccia con la verga di Mosè – e questa non è una confidenza secondaria – ha trovato la prima chiave operativa. Allora, su questa pietra ruvida, fioriranno le due rose che pendono dai rami del roseto, l’una bianca e l’altra rossa.

Ci si domanderà, e non senza ragione, qual verbo magico è capace di strappare dalle braccia di Morfeo il nostro Epimenide, che sembra veramente sordo ai clamori delle buccine. Questo Verbo viene da Dio, è portato dagli angeli, i messaggeri del fuoco. È un soffio divino che agisce in maniera invisibile ma certa, e ciò non è un’iperbole. Senza il concorso del Cielo il lavoro dell’uomo è inutile. Non si innestano gli alberi né si semina in tutte le stagioni, ciascuna cosa ha il suo tempo. L’Opera filosofica è chiamata Agricoltura Celeste, e non per nulla; uno dei più grandi autori ha firmato i suoi scritti col nome di Agricola, e due altro eccellenti adepti sono conosciuti sotto il nome di Gran Contadino e Piccolo Contadino.

Il discepolo dovrà dunque meditare a lungo questa prima tavola, confrontarla con gli apologhi in lingua volgare. Possa essere sufficientemente fortunato da intendere da sé la voce del cielo; ma che sappia, prima, che egli le presterà orecchio invano, se non si è egli stesso nutrito delle Sante Lettere.

LA SECONDA TAVOLA non segue l’ordine delle operazioni. Essa rappresenta l’uovo dei filosofi, e pertanto nulla fin qui, ha potuto farne conoscere gli elementi che debbono comporlo. Per darne un’idea dobbiamo deliberatamente affrontare un certo numero di simboli.

Ogni uovo comprende un germe – la vescicola di Purkinje (2) che è il nostro sale; il giallo, che è il nostro zolfo, e l’albume, che è il nostro mercurio. Il tutto è racchiuso in un matraccio che corrisponde al guscio. I tre prodotti sono qui personificati da Apollo, Diana e Nettuno, il Dio delle acque pontiche.

La tradizione vuole che questo matraccio sia contenuto in un secondo, e quest’ultimo racchiuso da un terzo fatto del legno di una vecchia quercia. Flamel dice espressamente. «fai attenzione a questa quercia» e Vicot, cappellano dei signori di Grosparmy e Valois, lo raccomanda con non meno interesse. Questa insistenza è significativa, e noi ricorderemo che nella prima tavola, sulla roccia dei Saggi spunta la quercia kermes, l’Hermes degli adepti, poiché nella lingua ebraica, K ed H non sono che una medesima lettera, alternativamente usate l’una per l’altra. Ma che si faccia attenzione, il Kermes minerale porta alla trappola tesa da Filalete, Artefio, Basilio Valentino e tanti altri, e non si deve perdere di vista che i filosofi si compiacciono di certi bisticci verbali. Ερμες è il mercurio artificiale che amalgama il composto.

La grandezza dell’uovo è importante. In natura l’uovo varia da quello del regolo a quello dello struzzo, ma, dice la saggezza, in medio virtus. Dobbiamo anche dire qualcosa del vetro filosofico. gli autori ne parlano poco, ed anche con riserva. Ma noi sappiamo per esperienza che il migliore è quello di Venezia. Occorre di buono spessore, limpido e senza bolle. Un tempo si impiegava anche il grosso vetro di Lorena, fabbricato da gentiluomini soffiatori; ma un buon pratico deve apprendere a farsi da solo i suoi matracci.

La figura inferiore di questa seconda tavola rappresenta un athanor tra un uomo ed una donna in ginocchio, come se fossero in orazione, il che ha portato certi spiriti deboli a credere che la preghiera intervenga nel lavoro come elemento ponderabile. È un fattore inoperante. La cosa importante è utilizzare le materie opportune; ma lo slancio della creatura verso il creatore può influire favorevolmente sulle operazioni, poiché la luce viene da Dio. Che nondimeno ci si affranchi da queste suggestioni poco efficaci nella pratica. La preghiera dell’artista è molto più il lavoro, lavoro ostinato, sovente duro, pericoloso ed incompatibile con mani troppo bianche. Contate dunque soprattutto sull’improbus labor.

Anche la TERZA TAVOLA non è al suo posto. Essa ci conduce nell’impero di Nettuno. Si vedono trastullarsi nelle sue onde il delfino caro ad Apollo e dei pescatori su di una barca che tendono i loro utensili. In un’altra barca un uomo è steso in una posa noncurante. Nel secondo cerchio troviamo un paesaggio con, da un lato, un Ariete, dall’altro un Toro, che ritroveremo più oltre e studieremo in un momento più opportuno. In basso a sinistra, una donna tiene un paniere che è il simbolo della lanterna grigliata dei filosofi; a destra un uomo getta la sua lenza nel mare che si trova nel terzo cerchio (quello che racchiude gli altri due). Il terzo cerchio, a sinistra, è animato da un volo di uccelli, una sirena in basso ed Amphitrite (3) in alto. In margine il sole e la luna, e, planante su questa scena nautica, Giove portato dalla sua aquila. Tutta questa raffigurazione ha per fine dimostrare che l’operatore deve dispiegare tutte le sue facoltà e mettere in opera tutte le risorse dell’arte per catturare il pesce mistico di cui parla d’Espagnet.

L’autore avrebbe dovuto insegnarci anzitutto a tramare il filo necessario a questa Pesca miracolosa. Ripariamo alla sua dimenticanza; il filo deve essere incombustibile e rimanere inalterabile. Con l’apparato ben disposto nelle acque profonde, ci si munirà di una lanterna il cui splendore attirerà la preda nelle reti. Seguendo altri simbolismi, si può impiegare la lenza; ma l’arcano è nella preparazione della rete, e la parola è di circostanza, poiché non si tratta d’altro che di prendere il pesce d’oro.

Si troverà il segreto di questa operazione in un’opera classica intitolata Le Filet d’Ariadne, dal momento che non possiamo riassumere il procedimento in qualche riga, in questo quadro ristretto. Quanto alla maniera di accendere la lanterna magica indicata dal paniere, essa non è descritta che in opere rarissime, ed in maniera confusa. È dunque necessario dirne qualche parola.

Certi autori, e non dei minori, hanno sostenuto che il più grande artificio operativo consiste nel catturare un raggio di sole ed imprigionarlo in un flacone chiuso con il sigillo di Hermes. Questa immagine grossolana ha fatto rifiutare l’operazione come cosa ridicola ed impossibile. E, ciò nonostante, essa è vera alla lettera, al punto che l’immagine fa corpo con la realtà. È piuttosto incredibile che non ce ne si sia ancora accorti. In qualche modo, questo miracolo, il fotografo lo compie servendosi di una placca sensibile che si prepara in differenti maniere.

Nel Typus Mundi, edito nel XVII secolo dai Padri della Compagnia di Gesù, si vede un apparecchio, anche descritto da Tiphaigne de Laroque (4), per mezzo del quale si può rubare il fuoco al Cielo e fissarlo. Il procedimento non potrebbe essere più scientifico, e noi dichiariamo candidamente che qui riveliamo un grande mistero, almeno nella sua applicazione alla pratica filosofale.

Le aquile che volano a sinistra, nel gran cerchio, designano le sublimazioni del mercurio. Esso ne fanno da tre a sette per la Luna e da sette a dieci per il Sole. Esse sono indicate dal volo degli uccelli e sono indispensabili, poiché preparano la veste nuziale di Apollo e Diana, senza la quale la loro unione mistica sarebbe impossibile. È per questo che Giove, il Dio che governa l’aquila, presiede a queste operazioni.

La QUARTA TAVOLA mostra come si compie la raccolta del flos coeli. Dei drappi sono tesi su dei pioli per ricevere la rugiada celeste. Al di sotto un uomo ed una donna li torcono per spremerne il divino liquore, che cade in un grande vaso a questo fine disposto. A sinistra si vede l’Ariete, a destra il Toro.

Il flos coeli ha messo alla tortura lo spirito dei cattivi soffiatori. Gli uni vi hanno visto una sorta di influsso magico, perché per costoro la magia è una potenza sovrannaturale acquisita col concorso degli spiriti, buoni o malvagi che siano. Gli altri, più realisti e vicini al vero, vi hanno riconosciuto la rugiada mattutina. Il flos coeli è chiamato, in effetti, acqua dei due equinozi, dal che si è dedotto che esso si ottiene in primavera ed in autunno ed è una mescolanza di due fluidi. Alcuni credendosi più accorti, andavano a raccogliere questo misterioso prodotto in una sorta di alga o lichenoide il cui nome volgare è nostoc. Nelle sue Sept Nuances de l’Oeuvre philosphique Etteilla, che forse valeva più della sua reputazione, sembra aver ottenuto qualche soddisfacente risultato da una muffa analoga; ma bisogna leggere il suo opuscolo con buone lenti.

I Rosa-Croce, secondo la testimonianza di Thomas Corneille (5), buon ermetista come suo fratello, il grande tragico si chiamavano anche Fratelli della Rugiada Cotta. Nondimeno Filalete schernisce sdegnosamente i raccoglitori di rugiada e di acqua piovana, nei quali, ciò nonostante, l’abbate di Valmont riconosce qualche virtù (6).

Al discepolo il farsi una opinione secondo il proprio giudizio. Ma è fuor di dubbio che un agente che viene tenuto segreto, detto “Manna Celeste”, giochi un ruolo importante nel lavoro.

Noi dobbiamo dichiarare, in buona fede, che l’ariete ed il toro della tavola, che si prendono sempre per segni dello zodiaco sotto i quali raccogliere il flos coeli, non hanno alcun rapporto con i simboli astrologici. L’ariete è l’Hermes Crioforo (7), che è lo stesso di Giove Ammone; ed il toro, le cui corna delineano il crescente, attributo di Diana ed Iside che si identificano con la vacca amante di Giove, è la Luna dei Filosofi. Questi due animali personificano le due nature della Pietra. La loro unione forma l’Azim degli Egiziani, l’Asimah della Bibbia, mostro ibrido rappresentante l’oricalco, l’orice di ottone o bronzo, il bronzeo toro di Falaride, il vitello d’oro o di crisocalco [non è qui fuori luogo ricordare che Helvetius ha scritto un trattato d’alchimia sotto il titolo di Vitulus Aureus (vitello d’oro)] che differisce, certo, dal similoro di Mannheim ed ha qualcosa del mechior. Infine, a dirla tutta, è l’elettro dei poeti; ma bisogna intendere bene questa parola che racchiude l’arcano magico. Filalete insegna che l’oro degli ermetisti è, per certi versi, simile all’oro volgare. Aggiungeremo ancora che, secondo la Mitologia, la pietra divorata da Saturno si chiamava Betulus, che è, insomma, il medesimo che vitelus, nome latino del vitello, e che vitellus è anche il giallo dell’uovo. La pasta degli azzimi ne era il geroglifico. I sacerdoti delle sponde del Nilo non toccavano mai i pani del sacrificio con uno strumento tagliente d’acciaio o di ferro; per essi era un sacrilegio. Da ciò l’antico costume, ancora in uso di rompere il pane. Ugualmente, durante il rito cattolico, l’officiante seziona l’ostia con la patena di argento dorato. Tutta questa logomachia nasconde l’argento dorato dei Saggi o l’amalgama filosofico del mercurio, dell’oro e dell’argento dell’arte, reso indissolubile dal Flos coeli.

Si apprenderà, non senza sorpresa, che le corse dei tori sono una raffigurazione drammatica della Grande opera. Tutti i giochi hanno un’origine ermetica. La coccarda rossa che porta l’animale, alla quale è attaccato un premio accordato al vincitore, è l’immagine della Rosa dei Filosofi. La cosa importante, è essere un buon Matador. Così, secondo la tradizione spagnola, «per accedere al governo bisogna trionfare del toro» – il toro mistico, evidentemente. Questa vittoria conferiva la “cavalleria”, la vera nobiltà, quella della Scienza, e, di conseguenza, lo scettro. È per questo, sotto Luigi XIII, i capi della Kabbala di Stato erano soprannominati i “Matadors”. La specie non è estinta, benché nascosta ed invisibile.

La QUINTA TAVOLA inizia il discepolo alle operazioni di laboratorio. Vi si assiste ad una serie di varie manipolazioni. È evidente che si tratta della cottura del liquore raccolto nella tavola precedente. Un uomo ed una donna lo versano chiaramente in un vaso posto sul fuoco. Nella figura sotto l’uomo vi aggiunge un prodotto viscoso e tiene, con l’altra mano, una sostanza che non è difficile da scoprire, se si pensa che l’uovo di Ermogene è analogo agli altri. Sullo stesso piano, a lato, un personaggio nudo, decorato da una mezza luna ed abbracciato ad un fanciullo, riceve un flacone in cui si notano quattro piccoli triangoli. Essi rappresentano le proporzioni degli elementi messi in opera, ossia una parte di zolfo per tre di mercurio. I corpi lunari intervengono, in quest’operazione, e ciò è indicato da uno scudo con una luna d’argento su campo rosso.

La Luna dei filosofi non è sempre l’argento, ancorché questo metallo convenga al lavoro in un certo momento. Per deviare il profano, gli Adepti danno questo nome al mercurio ed al suo sale, la cui preparazione presenta le più grandi difficoltà. Perché il mercurio sia adatto alle operazioni, è necessario animarlo. Questa animazione si compie per mezzo dello zolfo preparato a questo scopo. Si troveranno in Filalete delle indicazioni pratiche che, nondimeno, non devono sempre essere seguite parola per parola. È tuttavia esatto che bisogna purgare il mercurio dai suoi elementi eterogenei separando il puro dall’impuro, il sottile dallo spesso. Si vede, in questa tavola, la donna che si appresta a schiumare il composto. È una presentazione modificata ma in fondo esatta del lavoro. Nell’Opera è l’elemento femminino, in effetti, che opera la selezione per virtù dei suoi elementi costitutivi; ma l’artista vi deve prestare la mano ed assecondare con prudenza la natura.

Le altre figure rappresentano le digestioni e distillazioni. Non insegneremo nulla di nuovo al lettore sensato, dicendogli che un uomo pieno di formule chimiche atte a risolvere sulla carta tutti i problemi scolastici, non ha nessun diritto di definirsi chimico. Bisogna dunque che la pratica accompagni la teoria. Il rigore della prima ripara gli errori della seconda. Il discepolo dovrà dunque sforzarsi di realizzare tutti i suoi concetti.

La TAVOLA SEI è la continuazione della quinta. Si noterà che le operazioni sono sempre effettuate da un uomo ed una donna che simbolizzano le due nature. L’azione esteriore di questi agenti indica il lavoro interno dei corpi che reagiscono l’uno sull’altro. Nella prima figura l’agente femminile gioca un ruolo passivo, e quello maschile un ruolo attivo. Quest’ultimo è lo zolfo, quella è la luna.

Si desidera senza dubbio sapere, a questo punto, qual è questo zolfo misterioso di cui parlano sempre i filosofi, senza tuttavia designarlo in altro modo. È lo zolfo dei metalli. Il segreto dell’arte consiste nell’estrarlo dai corpi maschi per unirlo ai corpi femmina, il che presuppone la loro previa decomposizione. La scienza attuale sembra considerare questo fatto come una impossibilità assoluta. Grandi chimici del XVIII secolo hanno dimostrato, in comunicazioni indirizzate ai corpi accademici, che l’operazione è realizzabile e che essi l’avevano effettivamente realizzata. Noi abbiamo tra le mani un magnifico zolfo d’argento ottenuto per un mezzo analogo, e che si avvicina molto alla tintura dei Saggi. Ma, per arrivare a questo risultato, c’è bisogno di una certa pratica e di una conoscenza approfondita del regno minerale.

Diffidate degli autori che parlano di triturazioni, di decantazioni, di separazioni ottenute attraverso ciò che essi chiamano “giri di mano”. L’azione manuale non concorre ai risultati che al modo di una cuoca che prepara il suo lesso. Quando gli ingredienti sono nella marmitta, l’acqua cuoce il composto, portato alla temperatura richiesta dal fuoco esterno. Completata la cottura, non vi è più che da estrarre i prodotti ed impiegarli secondo la formula. Ma ogni intervento intempestivo è pregiudizievole e nuoce all’Opera.

Dobbiamo poi particolarmente segnalare la figura che rappresenta la rosa ermetica ottenuta attraverso le precedenti sublimazioni. Su questa vi sarebbero molte cose da dire. Tutti i trattati di alchimia non sono che dei “Romans de la Rose”, in senso proprio come figurato. Prima cura dell’artista consiste nel tener conto del vero e del falso. Ciò domina e costituisce la letteratura ermetica.

Cos’è la Rugiada? È il fiore dell’albero filosofico che presagisce il frutto. Ora, l’albero dei filosofi è il mercurio vegetale, la Rosa è dunque l’efflorescenza della linfa metallica messa in movimento dal fuoco esteriore che eccita il fuoco interno dei corpi. Ma i Saggi parlano di due fuochi differenti destinati a questa funzione. Il discepolo deve dunque pensare che esiste, al di fuori del fuoco naturale, un altro agente così denominato, e che questo fuoco segreto è il fermento dei metalli che gioca nel lavoro un ruolo analogo a quello del lievito nella pasta del panettiere. Ma che l’aggiunta di questo nuovo elemento non agiti il pensiero dei figli della scienza. Così come il lievito è fatto dalla farina e dell’acqua acidificata, il fermento dei metalli è un prodotto dello zolfo e del mercurio, portati allo stato conveniente dall’arte. Le proporzioni sono analoghe a quelle impiegate nella panificazione.

La nostra tavola ci mostra una seconda rosa più piccola, ed una terza ancora più minuta. Vi sarebbero dunque più rose? Si e no. Vi sono due rose in principio, a seconda che si operi per l’oro o l’argento; ma, in fondo, non ve ne è che una. Ciò nonostante il Mutus Liber ne presenta tre, ben determinate. Ciò è esatto, ma esse sono figlie l’una dell’altra, vale a dire che sono a tre livelli di potenza differenti. Nel regime della cottura, Filalete insegna che si ottiene prima la rosa bianca, che egli chiama luna; la rossa gialla, o zafferano; la rosa rossa, o perfetta. Non impieghiamo la terminologia esatta di quest’autore, ma parliamo abbastanza chiaramente da farci ben intendere.
L’ottenimento di queste rose è subordinato alla putrefazione. La putrefazione dà luogo ad una successione di colori. Il primo è il nero; esso è la chiave degli altri. Niente nero, niente putrefazione, e, senza putrefazione, nessuna trasformazione. Se simile accidente si producesse, vorrebbe dire che i materiali messi in contatto non hanno le qualità volute, oppure sono mal preparati. Vedete Filalete per il resto, e non consideratene che la fine.

La SETTIMA TAVOLA è molto importante ma è difficile da comprendere. Vi ritroviamo i quattro piccoli triangoli che indicano il rapporto già spiegato; ma arriviamo ora ad un’operazione delicata, perché è qui che Saturno divora suo figlio.

Si conosce la favola di Saturno e di Giove. Cos’è Saturno, e cos’è Giove?

La nomenclatura chimica che si ritrova presso gli autori vi farà riconoscere a quali metalli sia associno questi due nomi. Ma faremo notare in tutta coscienza che il Saturno ed il Giove dei Saggi non sono gli stessi dei chimici profani. Che si faccia attenzione e che non si facciano saldature da idraulico o da lattoniere. Noi non lavoriamo su prodotti bruti, ed ancorché le nostre materie siano tutte prese dalla famiglia dei metalli, esse non sono adatte all’opera che dopo aver subito una preparazione che le rende “filosofiche”.

Se si adotta la via umida, si procederà secondo arte mettendo in contato i nostri due elementi, in modo che uno assorba l’altro, il che darà un prodotto nuovo che prenderà dai due senza che sia ormai possibile farne l’analisi chimica. La via secca presuppone evidentemente una combinazione ottenuta per un procedimento adattato alla natura dei corpi. Ma che non si uniscano le due vie: i liquidi si uniscono ai liquidi ed i solidi ai solidi.

In questa operazione il fuoco gioca un certo ruolo. Una delle figure rappresenta Saturno che divora suo figlio nel mezzo di un braciere. Bisogna prestare qui la più grande attenzione ai discorsi dei filosofi. Questo assicura che il fuoco elementare è il distruttore dei corpi, e che la loro fusione ne volatilizza l’anima; quello dichiara che i Saggi bruciano con l’acqua ma, allo stesso tempo, proibiscono i liquori corrosivi, come ad esempio gli acidi.

Il discepolo si trova chiuso in un circolo vizioso, da cui è difficilissimo uscire con vantaggio. Bisogna prendere il mezzo delle due dottrine per accordarle insieme. È un’acqua che racchiude il fuoco del Cielo, è la rugiada o Flos Coeli, che noi abbiamo visto spremere in una tavola precedente. Si sa che la rugiada racchiude un principio acido che, letteralmente, brucia. Gli oggetti sottomessi alla sua azione non tardano a cadere in polvere. Ciò nonostante, dobbiamo far osservare che la rugiada filosofale differisce, in realtà, dalla rugiada comune. Essa è, nondimeno, formata del vero piano dell’Aurora uniti ad una sostanza terrestre, che è il soggetto dell’Opera.

Quando Saturno ha completato il suo orribile festino si deve, dice Filalete, far passare su di lui tutte le acque del diluvio, non in maniera da annegarlo, ma per correggere gli effetti di una digestione laboriosa eliminando le tossine risultanti dalla fermentazione. Il che si chiama “sbiancare il negro”. L’operazione è rude ma efficace se vi si persevera, perché occorre riprenderla più volte. Questo lavaggio con grande acqua spoglia il corpo delle sue impurità, ne corregge gli umori e lo rende disposto alle operazioni seguenti. Lo si distilla allora ermeticamente al fine di non perderne nulla; se ne precipita il sale che si presenta in piccoli cristalli assai igrometrici, che si devono prontamente sottrarre alle influenze dell’aria. Per questo li si racchiude, come si vede in un’altra figura, in un flacone dal collo smerigliato che si terrà da parte.

L’OTTAVA TAVOLA ci fa vedere il mercurio dei filosofi realizzato, mentre la tavola due non ne presentava che gli elementi costitutivi. Esso è il prodotto del Sole e della Luna che sono ai suoi piedi. Le aquile volano intorno a lui perché nel matraccio gli si fa subire le sublimazioni necessarie, il che è indicato nella parte bassa della tavola dall’athanor dove si è messo l’uovo ad incubare.

Il mercurio dei filosofi, animato e sublimato secondo le regole, deve circolare a lungo nel vaso, dovendo produrre i fortunati effetti che da lui si attendono. Ma vi sono più mercuri nell’opera, e Filalete, particolarmente, ne segnala un secondo sotto il nome di latte di vergine. Esso differisce dal primo in qualcosa, benché entrambi siano della medesima essenza. Filalete, Ripley ed altri arrivano fino a dire che si tratta del mercurio comune. Basilio Valentino, lo bandisce con una maledizione. Certi hanno creduto che il latte di vergine potesse essere ottenuto da una combinazione dei due. Noi conosciamo un artista che ha realizzato questo tour de force per il piacere di vincerne la difficoltà, senza pretendere di ottenerne altri risultati. Siamo dunque in grado di certificare l’operazione come realizzabile, il che non implica che noi aderiamo al suo impiego nella pratica. Bisogna accogliere con la più gran riserva tuti i nomi bizzarri imposti dai filosofi a certi ingredienti. Questo differenti epiteti non servono che a mascherare la sequenza delle operazioni, in modo che il medesimo prodotto, a seconda che sia o meno esaltato, porta un tal nome o talaltro. Ed è vero, dopo tutto, che l’alcool benché estratto dal vino, ne differisce per il nome, per l’aspetto, per la potenza e per gli effetti, allo stesso modo in cui il vino differisce dall’uva da cui è tratto…

La NONA TAVOLA ci riporta al flos coeli. Perché questo ritorno, ed a che fine farvi ricorso nuovamente, dal momento che ne siamo già approvvigionati?

Non è che l’autore del Mutus Liber voglia inviarci nuovamente in campagna per averne altro, ma è costretto a ripeterne il simbolo poiché questo agente celeste deve entrare in una seconda combinazione.

Vediamo, in una delle figure di questa tavola, Mercurio mentre compra un vaso di quest’acqua divina da una contadina. Dunque egli ne ha bisogno per un qualche uso. Filalete, prescrive, effettivamente, di lavare il mercurio a più riprese, in modo da fargli perdere una parte della sua natura oleosa. Egli descrive accuratamente questa operazione che compie con l’acqua celeste portata ad una certa temperatura, nondimeno moderata, perché basta un nulla in eccesso di calore perché la parte ignea del flos coeli riprenda il cammino degli Astri. Filalete è un grande maestro, la sua parola fa autorità ed egli presenta il lavoro con un’ingegnosità così convincente che nessun sospetto di frode potrebbe sfiorarvi. Ma noi dobbiamo sventare qui un trucco; questo autore ha confuso a bella posta, nella sua opera, la via secca e quella umida. Sui applicherebbe dunque a torto ad una tecnica ciò che conviene all’altra. Ma, fatta questa osservazione, riconosciamo che lo spirito astrale giochi un ruolo permanente nelle operazioni.

E poiché noi impieghiamo la locuzione di Cyliani (8), soffermiamoci sulle interpretazioni inverosimili alle quali questo termine abbastanza recente ha dato luogo. Degli scrittori di ieri hanno visto in questo spirito astrale un’emanazione magnetica dell’operatore. Secondo loro bisognerebbe, durante un periodo determinato, subire un addestramento fisico e morale per praticare con successo questa sorta di fakirismo o di yoga. La forza del prodotto deve essere proporzionale alla potenza del fluido, di modo che la polvere di proiezione ottenuta moltiplichi a 100, 1000, o 10000 etc. a seconda del potenziale dell’artista. Questi estrosi pretendono così di impregnare la materia di spirito astrale come si caricherebbe un accumulatore di elettricità. Ecco a cosa porta l’analogia mal intesa ed applicata a sproposito.

Noi non nomineremo questi teorici singolari la cui sincerità è rispettabile, ma dobbiamo segnalare il fatto per mettere in guardia il discepolo studioso e troppo fiducioso contro le letture rischiose di autori senza mandato e consacrazione, che non hanno mai prodotto che dei libri, ma passano per dei Maestri.

La DECIMA TAVOLA rappresenta la congiunzione. La prima figura espone, nei piatti di una bilancia, da un lato il sale indicato dalla stella; dall’altro lo zolfo designato da un fiore che, col cuore forma sette petali. Sono le proporzioni del rapporto. Un uomo versa su questo fiore un liquido racchiuso in un flacone. È il mercurio. Egli tiene, nell’altra mano un altro recipiente pieno di spirito astrale per utilizzarlo alla bisogna. La donna piazza tutti questi prodotti in un matraccio a collo lungo; ma che ci si ricordi qui ciò che abbiamo detto a proposito del ruolo della donna nell’Opera, i due agenti personificati in tal modo sono le materie stesse, ed i diversi accessori che le accompagnano chiariscono il loro stato di esaltazione.

Nella seconda serie l’artista sigilla il matraccio col sigillo di Hermes. Egli ne presenta il collo alla fiamma d’una lampada, in modo da riportare il vetro ad uno stato pastoso e duttile. Deve in seguito ritirarlo con precauzione, in modo da assottigliarlo al punto volto, assicurandosi che non vi si produca alcuna capillarità da cui potrebbe sfuggire lo spirito del composto. A questo punto, dopo aver sezionato il vetro, egli riversa su se stessa la parte aderente al matraccio per formarne uno spesso rotolino. Oggi, questa operazione si esegue facilmente col gas, con l’aiuto del cannello. Qualche pratico, di consumata abilità, impiega un procedimento automatico di maggior perfezione. Infine, qualunque sia il mezzo adottato, si piazza in seguito l’uovo nell’athanor e comincia la cottura.

Non diremo nulla dell’athanor. Il Mutus Liber ne presenta la forma e le disposizioni interne. Filalete le descrive accuratamente. Non aggiungeremo alle parole di quest’autore che una annotazione importante: la costruzione del forno è in parte, allegorica, e vi è molto da apprendervi dal punto di vista della regolazione del fuoco e del regime dell’Opera.

In ultimo luogo, l’Ouvrage secret de la Philosophie d’Hermes, attribuita a d’Espagnet e sempre vantaggiosamente citata, sarà utile da seguire, perché vi si trova lo Zodiaco dei filosofi.

L’ultima figura di questa tavola mostra che la congiunzione si è operata; il Sole e la Luna sono uniti. Il lavoro ha dato i colori richiesti. Essi sono qui sintetizzati in un cerchio in principio nero, poi bianco ed infine giallo e rosso. Il prodotto ottenuto, come enunciato dalle cifre, moltiplica per dieci.

La TAVOLA UNDICI proclama che l’operatore è entrato nel regime del Sole, vale a dire che ha ottenuto l’oro dei filosofi, che non è l’oro volgare. Abbiamo già parlato di quest’oro misterioso. Benché Giove giochi un ruolo dominante nel processo operatorio, non si tratta punto del bisolfuro di stagno, ma del vero “oro musivo” o segreto (9). Confesseremo, ciò nonostante, in tutta verità, esso non è un prodotto della natura, ma dell’arte. Chimici contemporanei, che si sono creduti competenti, hanno pensato di identificarlo nel vetriolo comune, che essi ritenevano di rendere filosofico. Essi hanno mal compreso Basilio Valentino. Lo stroma della dissoluzione di questo sale, considerato da essi come “oro nascente”, non è che un fugace miraggio e non lascia, all’analisi, che delusione.

Un autore, celebre per altri titoli, che ha goduto, in certi milieux, di qualche prestigio – bisogna qui nominare Strindberg per prevenire contro i suoi smarrimenti (10) – si è arenato in una tecnica puerile e ridicola. Il suo Libro d’oro è un’aberrazione che meriterebbe un pietoso silenzio. Filalete e gli altri consigliano, a chi ignora l’oro artificiale, di cercarlo nell’oro volgare, segnalando tuttavia questo lavoro come lungo ed arduo. Bisogna, in questo caso, fargli subire delle manipolazioni difficili e pericolose, perché si può trasformare questo metallo in fulminante, e le Memorie del XVIII secolo riportano più d’un incidente mortale occorso durante questa preparazione. Ma se il discepolo è istruito alla buona scuola, egli certo eviterà questa insidia sofistica ed opererà ermeticamente; egli eviterà così questo temibile pericolo. I maestri sanno raggiungere lo scopo seguendo altre vie che si guardano bene dall’indicare, ma che non sono introvabili se si ragiona con la propria testa piuttosto che con gli ingannevoli libri dei Saggi. «Per fare l’oro occorre dell’oro», dice l’assioma classico; è giusto, benché vi siano due ori differenti per portare a buon fine l’opera. Questa tavola mostra che si ricominciano a questo punto tutte le operazioni precedenti. Bisogna elevare il mercurio ad un più alto grado di sublimazione per mezzo delle aquile, ridistillarlo per dargli una maggiore animazione.

La TAVOLA DODICI ci insegna come si può portare questo mercurio ad una scala superiore. Bisogna, a questo fine, ricominciare le imbibizioni di flos coeli fino a che il mercurio, che ne è avido, ne sia impregnato a saturazione.

La TREDICESIMA TAVOLA è una ripetizione della decima, perché nell’opera tutte le operazioni si susseguono e si rassomigliano; ma questa nuova congiunzione, che si opera con materie sublimate all’estremo, non è che l’inizio delle moltiplicazioni. Il lavoro è il medesimo della tavola dieci, e nella cottura, si vedranno riapparire dei colori. La durata di questi decresce a misura che aumenta la potenza moltiplicativa, di modo che non occorre che un giorno, alla fine, per ottenere il risultato che, all’inizio, richiedeva mesi. La cifre di questa tavola esprimono la potenza delle trasmutazioni per mezzo delle cotture reiterate.

La QUATTORDICESIMA TAVOLA è principalmente consacrata alla strumentazione. Vi si vede il matraccio ermeticamente sigillato colla sua guarnizione, tale quale lo abbiamo descritto. Il mortaio ed il pestello per le triturazioni, la spatola per scremare, le bilance per determinare il peso giusto, il forno per le prime operazioni prima dell’impiego dell’athanor.

Ricordiamo che bisogna intendere le triturazioni, la decantazione, la scrematura e tutto il resto in maniera filosofica, benché una triturazione, una decantazione ed una scrematura siano effettivamente necessarie per rendere i materiali adatti alla lavorazione; ma, in seguito queste operazioni si compiono da sé, e, per così dire, automaticamente per la reazione dei corpi gli uni sugli altri. Il discepolo dovrà meditare profondamente sulla donna alla conocchia, e seguirla con sagacia nelle sue manipolazioni; esse non sono irrilevanti, e tutto in esse parla al vero figlio della scienza. Noi non possiamo in questa sede trasgredire le volontà dell’autore, che testimoniano del suo deciso intento di lasciare il simbolo esprimere da solo tutto il suo pensiero. Se queste righe cadessero sotto gli occhi di un adepto, egli approverebbe la nostra riserva, che ciò nonostante sfiora l’indiscrezione.

Ma, per il resto, qui potest capere capiat.

La QUINDICESIMA ED ULTIMA TAVOLA rappresenta l’apoteosi di Saturno, vittorioso di suo figlio Giove che l’aveva detronizzato e che ora giace, inerte, al suolo. È la solarizzazione del più vile dei metalli, la sua resurrezione e glorificazione nella luce. I due tralci di rosa del frontespizio sono carichi di bacche rosse e bacche bianche, piene di semi attivi di cui ciascuno ha il potere di mutare in oro o argento tutti i metalli impuri. Sedicenti mistici – che negano la possibilità dell’opera metallica e non hanno trovato nelle allegorie dei filosofi che un trattato d’ascesi di cui sarebbero assai imbarazzati di spiegare ciascun simbolo – questi pseudo-mistici vedono in queste tavole una immagine della resurrezione dell’uomo e del suo ritorno alla patria celeste, e si estasiano beatamente su questa scoperta che non sono lontani dal considerare geniale.

Ma se ridiventiamo puri spiriti, è perché il nostro corpo racchiude nella sua forma grossolana l’essenza spirituale, e, in queste condizioni, non si potrebbero rifiutare ai metalli le medesime proprietà. Lo spirito o il fuoco, per quanto in apparenza freddo, è dappertutto nei metalli che si trasformano in fulminati infiammabili e detonanti al minimo urto. Ora, la trasmutazione è un fenomeno che fa passare la specie dal piano inferiore al piano superiore per mezzo di un agente spirituale, vero seme denominato polvere di proiezione. Questo meraviglioso prodotto si ottiene per mezzo della morte e putrefazione reale di una sostanza metallica, la quale, trasfigurata, ha la proprietà di modificare a sua volta gli esseri della sua natura. Questi sotto la sua azione, subiscono allo stesso modo una pronta morte e resurrezione, che li eleva al loro più alto grado di dignità. Gli Ermetisti comparano questa trasformazione a quella del grano. Il seme si corrompe nella terra, assimila gli elementi grossolani del suolo e, col lavoro di una lunga digestione, li tramuta in puro frumento nel rapporto di cento ad uno. Questa digestione è più o meno attiva a seconda dell’ambiente. I certi climi la mietitura ha luogo tre mesi dopo la semina, e sotto il tropico, la vegetazione ha qualcosa di pressoché istantaneo. È dunque del tutto razionale che un fermento dotato di una grande potenza proiettato nei corpi sottomessi ad una temperatura elevata, possa fare evolvere con una rapidità che ha del prodigioso.

L’evoluzione è la legge della vita: il minerale diviene vegetale ed il vegetale animale, per via di intussuscezione; ma questo transito è subordinato alla mediazione di un agente esterno, pianta o animale. Se dunque i metalli sono ammessi dalla sorte a passare da un regno all’altro con l’aiuto di un appropriato elemento, è ancor più logico che un certo oro perfetto e quintessenziato, riportato al suo stato radicale e spermatico, abbia la virtù di esaltare e convertire in se stesso i suoi omogenei. Non è forse così che il germe umano, in gestazione, assume e trasforma le sostanze degli esseri di un’origine meno nobile? La nutrizione è una continua metamorfosi. Allo stesso modo in cui, nei tre regni, tutto converge verso l’uomo, così nei minerali, tutto porta all’oro. Ma non bisogna da ciò dedurre che la natura, alla lunga, faccia dell’oro dal piombo. Per far ciò essa ha bisogno del soccorso dell’arte, vale a dire del fermento magico che ne opera la trasmutazione.

L’oro è chiamato sole, perché, in greco, αυρ è la luce; esso è il cielo dei metalli, la spiritualizzazione della specie. I metalli divengono dunque oro come, da un certo punto di vista, il nostro corpo diviene spirito per il lavoro della fermentazione postuma. La putrefazione, nauseabonda e schifosa, è ciò nonostante la prestigiosa fata che opera tutti i miracoli del mondo. È un errore grossolano credere che, nell’uomo, l’anima abbandoni il corpo con l’ultimo soffio. Essa stessa è interamente carne, perché la materia è una modalità dello spirito a differenti stati, sotto la dipendenza di una scintilla maggiore e più sottile, che è il dio di ciascun organismo, e se la Scienza nega la realtà dello spirito perché non ne ha mai trovato traccia, essa disonora il suo nome. Un cadavere, rigido e ghiacciato, non è affatto morto in senso assoluto. Una vita intensa, ma fortunatamente incosciente e senza riflessi sensibili, continua nella tomba, ed è da questo orribile e più o meno lungo combattimento – che è il Purgatorio delle Religioni – che la materia, distillata, trasmutata e vaporizzata dall’azione del Sole, si slancia nel piano amorfo, che ha i suoi gradi dall’aria fino alla luce elementare, e da questa al fuoco principiale dove tutto finisce per risolversi e da cui tutto emana nuovamente.

Crediamo di aver adempiuto al nostro impegno con tutta la probità richiesta, e di aver fatto brillare qualche luce nuova in un regno oscuro. Al discepolo, ora, di compiere l’Opera. Quanto a coloro che pretendono di acquisire la Saggezza senza merito e solo per qualche obolo vile e disprezzabile, gli diciamo, come il San Gerolamo della leggenda al ricco e fannullone Cratus: «la Filosofia non vi è congeniale».

Quanto a voi, figli della scienza, ricordatevi del segno eloquente che vi indirizzano le figure finali della quattordicesima tavola e della glossa che chiude il Mutus Liber. Se avete compreso, lavorate nel silenzio e chiudete ancora per qualche tempo la bocca sul Mistero.

NOTE:

(1) Pierre Dujols allude qui, evidentemente, a Nicolas Boileau-Déspreaux (1636-1711), il più importante teorico dell’estetica classica del ‘600, anche detto, per questo, il législateur du Parnasse.

(2) Magophon fa evidentemente riferimento Johannes Evangelista Purkinje, (1787 – 1869) celebre anatomista, neurofisiologo e biologo ceco. Il suo nome è associato a numerose scoperte in campo anatomico e fisiologico. Osservò e descrisse, tra le altre cose, la “vescicola germinativa” dell’uovo di pollo, ovvero quella parte dell’uovo in cui si trovano il citoplasma formativo e il nucleo. A tale vescicola fa riferimento Dujols.

(3) Amphitrite è, nella mitologia greca, la dea del mare e consorte di Poseidone.

(4) Charles François Tiphaigne de la Roque – o de la Roche – (1729-1774) si laurea in medicina alla facoltà di Caen, ma passa alla storia come scrittore fantastico dal piglio satirico, dalla penna graffiante soprattutto per il mondo dei savants di ogni specie. Oltre alle opere narrative, i suoi interessi letterari spaziarono nei domini dell’agricoltura, dell’economia e della storia. Nonostante la breve vita gli si deve una intensa produzione, all’interno della quale ricordiamo Amilec ou la Graine d’Hommes (1753), le Bigarrures Philosophiques (1759), Giphantie (1760, il titolo è un anagramma di Tiphaigne) e L’empire de Zaziris sur les humains ou la Zazirocratie (1761). Nel milieu di Dujols doveva essere diffusa la lettura di questo autore. Nel primo volume di Les Demeures Philosophales (ed. it. Le dimore filosofali, Mediterranee 1988, vol. 1), Fulcanelli cita Tiphaigne de la Roche con deferenza, definendolo «uno dei più saggi adepti del XVIII secolo» (cfr. p. 92 dell’edizione italiana cit.).

(5) Thomas Corneille, Le dictionnaire des Arts et des Sciences, Rolin, Pari 1732, tome 2, all’articolo Rose-Croix p. 360. Su Thomas Corneille (1625-1709), vedi la pagina di Wikipedia.

(6) Pierre Le Lorraine de Vallemont (1649-1721), fisico e letterato francese, la cui opera più famosa è senz’altro La Physique occulte, ou Traité de la baguette divinatoire et de son utilité pour la découverte des sources d’eau des minières des trésors cachés, des voleurs et des meurtriers fugitifs, (1689). On-line è disponibile una bella edizione del 1693.
Qui tuttavia Pierre Dujols fa riferimento ad un’altra opera, Curiosités de la nature et de l’art par la végétation, ou l’Agriculture et le jardinage dans leur perfection (Paris, 1705, poi più volte ristampata, on-line è reperibile l’edizione del 1709), in cui sovente l’autore, che fa uso massiccio di procedimenti di chiara matrice alchimistica, si intrattiene sulle molteplici virtù della rugiada o dell’acqua piovana, che egli usa, filtrate e debitamente lavorate, in vari procedimenti per la crescita e la moltiplicazione di piante e sementi. Tra le altre cose, alle pp. 682-683, Il Vallemont descrive un procedimento molto simile a quello descritto nella tavola IV del Mutus Liber, che dà un’idea abbastanza precisa del tono e del linguaggio dei procedimenti descritti da quest’autore: «con un grande panno ben netto, attaccato a quattro pioli in un prato, raccogliete otto pinte di questa medesima rugiada, e versatela in un vaso di vetro che sia adatto. Rimettete i vostri semi imbevuti della rugiada nel loro vaso, prima che il Sole si levi, perché questo farebbe evaporare la rugiada, e posate come prima questo vaso in un luogo temperato. Quando avrete raccolta abbastanza rugiada, bisogna filtrarla e poi distillarla, affinché non vi resti nulla di impuro. Le fecce che restano, saranno calcinate per estrarne un sale piacevole a vedersi…».

(7) «… A Tanagra, in Beozia, si salutava quale salvatore delle greggi dall’epizoozia, invece, Hermes, il quale avrebbe preso sulle sue spalle un ariete e lo avrebbe condotto intorno alla città in un rito che avrebbe allontanato il flagello. Si tratta di Hermes “crioforo”, “portatore dell’ariete” (che in greco è kriòs), che è forse uno dei modelli formali del “Buon Pastore” cristiano.» F. Cardini, L’Ariete, in Abstracta n. 24 – marzo 1988, pp. 46-53, articolo oggi disponibile on-line su Airesis.

(8) Esprit astral è proprio una locuzione tratta dall’Hermès Devoilé.

(9) In effetti l’oro musivo era proprio il bisolfuro di stagno (SnS2) che veniva usato, per la sua duttilità, dai pittori e dai miniatori per ottenere un blando effetto dorato in sostituzione all’oro. Tuttavia qui Magophon fa allusione, evidentemente, ad una materia diversa e “filosofale”.

(10) E’ noto che il celebre scrittore e drammaturgo August Strindberg (1849-1912) si interessò fattivamente di Alchimia, e tentò per tutta la vita la trasmutazione dei metalli vili in oro, al punto che la sua terza moglie, l’attrice norvegese Harriet Bosse (1878-1961) dichiarò che «egli era più orgoglioso delle sue scoperte scientifiche che di ciò che faceva come grande autore». Il suo epistolario alchemico con François Jollivet Castellot (1874-1939), fondatore e presidente della Societé Alchimique de France e direttore del giornale l’Hyperchimie (di cui Strindberg fu uno dei redattori più autorevoli), sarà pubblicato nel 1912 col titolo di Breviaire AlchimiqueLe Livre d’Or, che presentava una serie di esempi di oro artificiale di Strindberg ritrovati postumi in un armadio dall’amico Ander Eliason, con il quale Strindberg spesso corrispondeva in merito alle sue esperienze di trasmutazione, esce invece nel 1914, ed è quindi di una novità libraria che doveva aver fatto scalpore in certi ambienti, quella di cui parla Dujols. Sui tentativi strindberghiani di fabbricazione dell’oro vedi on-line l’articolo di George B. Kauffman dal Gold Bulletin 21, 1988, e la relativa bibliografia.