Pagina on-Line dal 12/05/2012

È l’unica traduzione italiana d’epoca integrale del Conte di Gabalì di Montfaucon de Villars. Il testo dell’abate francese era stato però già plagiato ne La chiave del Gabinetto del cavagliere G. F. Borri Colonia (Ginevra) 1681, una raccolta di scritti apocrifa ed in larga parte frutto di plagio, probabilmente di mano del libellista libertino Giovanni Girolamo Arconati Lamberti (c.a 1645-1733). Le prime due lettere della Chiave sono infatti una versione pressoché letterale del Conte di Gabalì (mentre l’ultima è una traduzione fedele di De l’âme des Betes di A. Dilly, uscita a Lione nel 1676, vedi la voce Borri, a cura di S. Rotta nel Dizionario Biografico degli Italiani, ed. Treccani). Le lettere de La chiave del Gabinetto, che appaiono intinte di un cartesianesimo ben lontano dalle idee dell’eretico Francesco Giuseppe Borri (1627-1695), sono reperibili su questo stesso sito (clicca qui).
Per quanto riguarda questa settecentesca traduzione italiana, l’indicazione dello stampatore Pickard e del luogo di stampa (Londra), è un falso. Il libro proviene dalle stamperie napoletane del Principe Raimondo di Sangro (1710-1771).
La trascrizione è conservativa e rispetta scrupolosamente la scrittura originale. Le uniche modifiche riguardano la punteggiatura e l’accentazione, che sono state ricondotte all’uso moderno, e la riduzione e regolarizzazione dell’uso delle maiuscole.

Per una introduzione al testo del Montfaucon de Villars, vedi, su questo stesso sito, il ns. Gli amanti delle silfidi: la storia degli spiriti elementari di Paracelso e dell’abate Montfaucon de Villars

Massimo Marra © – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

IL CONTE DI GABALI’ OVVERO RAGIONAMENTI SULLE SCIENZE SEGRETE.
Tradotti dal Francese da una Dama Italiana. A’ quali si è aggiunto in fine
IL RICCIO RAPITO
Poema del signor Alessandro Pope tradotto dall’Inglese dal Signor Antonio Conti, Patrizio Veneto.
Londra, dal Pickard, 1751.

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PARTE PRIMA.

Avviso dello Stampatore.
Di queste due bellissime operette italiane io ne son debitore a Mylord Holdernesse: avendole egli portate seco da Venezia me ne ha fatto un dono per comunicarle al Pubblico. La prima è una traduzione del Conte di Gabalì fatta da una virtuosa Dama Italiana; la seconda è il Riccio Rapito tradotto anche in verso sciolto dal celebre Abate Conti. Non m’impegnerò qui a far l’elogio degli originali: il Pubblico è tropo persuaso del merito degli Autori di questi due libretti ingegnosissimi, di cui è gran tempo che ne loda le bellezze e lo spirito. Mi contento solamente di dire che siccome il Conte di Gabalì e ‘l Riccio rapito tralle mani delle due abilissime Persone che gli han tradotti, niente han perduto di quella maravigliosa vivezza con cui furono scritti dall’abate di Villars e dal nostro Pope, così han ricevuta una certa nuova grazia dalla dolcezza della Lingua Italiana, che gli rende, se non più nobili e più gentili, almeno più graditi e più cari. Il gusto che la nostra Nazione dimostra per questa Lingua mi fa sperare per questa mia edizione un gradimento universale. Sopra tutto io mi lusingo che sarà essa per apportare alle nostre Dame utilità insieme e piacere; conciosiacché non v’è tra esse chi non intenda bene questa lingua; e moltissime anzi ve ne sono che vagamente la parlano e leggiadramente la scrivono. Oltre ciò essendo il Riccio Rapito un di que’ Libri ch’esse più frequentemente leggono per divertimento, più dilettevole certamente e più comodo, riuscirà loro l’avervi accoppiato il Sistema del Conte di Gabalì, senza la cui cognizione perde molto ed è men piacevole quel poema. L’esser poi questo sistema tradotto da una Dama, e tradotto con tanto spirito e con tanta proprietà, farà una non disaggradevole adulazione pe ‘l loro sesso.

NOMI De’ signori sottoscritti per questa Edizione.
Noel Somerset Scudamore, Duke of Beaufort, Marquis and Earl of Worcester.
Cha. Powlet, Duke of Boltono, Marquis of Winchester. Gover. Of the isle of Wight, &c.
John Russel, Duke & Earl of Bedford, Marquis of Tavistock, First Lord of Admiralty.
Cha. Douglas,, Duke of Dover, Marquis of Beverly (also duke of Queensbury in Scot.).
Rob. Montagu, Duke and Earl Manchester, Viscount Mandeville, Lord of the Bedcham.
Tho. Osborne Duke of Leeds, Marquin of Carmathen.
John Manners Duke and Earl of Rutland, Marquis of Gramby.
Henr. Herbert, Earl of Pembroke and Montgomery, Baron Herbert, Groom of the stole to his Majesty, and a Lieut. Gen.
Rich Boyle Earl of Burlington, Viscount Dungarvan.
Geo. Boothe Earl of Warrington, Baron Delamere.
John Ashburnham Viscount of St. Asaph.
W. Graham, Earl and Baron Graham, Duke of Monstrose &c..
Ben Mildmay, Earl Fitzwalter, Viscount Harvich, Treasurer of his Maj. Housch.
John Laroche Esq.
Charles Pelham esq.
Thomas Farster Esq.
Richard Liddel Esq.
Brigader James Tyrell.


AGLI AMICI LEGGITORI LA VOLGARIZZATRICE.
Non ci ha esercizio del quale io mi sia in ogni tempo dilettata, quanto quello del rendere nel nostro idioma Italiano tutte quelle operette scritte nel Francese, le quali tra le moltissime che se ne trovan date alle stampe mi sien parute più degne d’esserci rendute.
Or, siccome nell’applicarmici niun altro intendimento ho sempre avuto, se non se quello solamente di soddisfare alla mia propria inclinazione, così niuno mai de’ miei volgarizzamenti ha veduta altra luce che quella della mia stanza. L’originale però di questo, di cui ti fo dono ora, mi è sopra tutti sembrato sì degno d’esser letto in ogni favella dalla Gente di buon gusto, che gli ho procurata io medesima quell’uscita al Pubblico cui ho sempre diligentemente vietata a tutti gli altri. Chicchessia dunque, piuttosto che accagionar me di leggierezza o di superbia, accagioni di troppo merito il suddetto Originale, laddove di questa mia fatica non sì pienamente, come vorrei, si sentisse soddisfatto.
E, perché ne faccia sapere altrui tutto quel tanto ch’io ne so, dico prima d’ogni altro ‘l suo chiarissimo autore è l’Abate di Villars. Egli, con questo Conte di Gabalì, ha tentato di guarire il fanatismo de’ Cabalisti nella stessa guisa, appunto, nella quale il famoso Michele Cervantes imprese di guarire col suo D. Chisciotte il fanatismo de’ cavalieri erranti. Tutto il libro si trova condotto con una continua ironia, ma è scritto con tale vivacità e finezza, che ci ha molti i quali si son dati a credere che avess’egli inteso di spacciare un dogma, e non già una satira.
Nel secolo passato fece gran romore la Società de’ Fratelli dinominato della Croce Rosea, i quali, professando sopra tutto di coltivar la Scienza Cabalistica per rispetto alla sospiratissima invenzione della Pietra Filosofale, scrissero sulla detta materia una moltitudine di libri enigmatici, ne’ quali non solo profanarono l’uso delle cose sante, ma fin anche le stesse dottrine rivelate, con grave scandalo de’ buoni e sommo danno della Vera Filosofia. Or, l’Abate di Villars, volendo valersi d’un astuto stratagemma per felicemente venire a capo del suo proponimento, ch’era di voltargli tutti in ridicolo, ha introdotto nella sua Opera un certo signore alemanno chiamato il Conte di Gabalì, cui egli attribuisce come a uno de’ più caparbj cabalisti della Germania tutta, l’orditura dello stravagante Sistema.
Non è necessario ch’io prevenga in alcun modo i Lettori della moltissima erudizione della quale il suddetto Signor Abate di Villars ha astutamente arricchita questa sua operetta: essa, siccome già avvertii, non in altro consiste che in una continua ironia indirizzata a far comprendere a chicchessia l’estrema pazzia di coloro i quali perdutamente inclinano ad aver come reali le più strane chimere de’ Poeti Idolatri.
Il P. Morgues nel suo (a) Piano Teologico del Pittagorismo, distesamente ne tratta, e minutamente narra la sentenza di Giamblico; non già però di quel Giamblico che fu discepolo di Porfirio, o dell’altro che fiorì ai tempi di Trajano, ma di quello che fu grande amico di Giuliano Apostata, cui non bisogna confondere con gli altri, secondo che il Tillemont dimostra. Per guisa ch’io son d’avviso che, se ci si cangiassero i nomi, tutto il sistema del Conte di Gabalì si trovarebbe incluso nelle sette supposizioni rapportate dal suddetto P. Morgues.
Or non accade di prender le maraviglie della cecità de’ Poeti Idolatri: è sì bene anzi da trasecolare perciocché Uomini illuminati dal Cristianesimo e da una più sana Filosofia abbiano inteso di dar corpo a sì fatte ombre.
Il Flud tanto ostinatamente l’imprese, che moltissimo ne scrisse nella sua Filosofia Mosaica e negli altri suoi Libri: e il Gasendo dottamente gli s’oppose; e le riflessioni ch’egli fa su queste follie derivate dalle mal intese allegorie degli Egizj, e principalmente da quelle di Mercurio Trismegisto (le cui opere valgono nel Filosofico quello stesso che le opere di Annio di Viterbo nello Storico) sono sì ben fondate e sì ben ordinate che meritano d’essere lette da tutta la Gente di buon senso. Ma chi avrebbe mai immaginato che al Wiston, comeché buon Filosofo e migliore Matematico Neutoniano, fosse stato per cader nell’animo d’adottare il sistema delle Creature Elementali e di valersene per ispiegare tutti que’ fenomeni di Fisica, che gli sarebbero paruti di maggiore imbarazzo, siccom’è l’aurora boreale? (b)
A sì fatto fanatismo dunque non si potea meglio dar rimedio che colla burla: e questo è appunto quel che opportunamente ha pensato di fare il Sig. Abate di Villars.
Io spero senz’altro che abbia a sapermi grado il Pubblico di questa mia fatica, se mai sarà essa per uscirci, siccome da un ragguardevole Personaggio cui l’ho comunicata mi viene assicurato.

IL CONTE DI GABALÌ OVVERO RAGIONAMENTI SULLE SCIENZE SEGRETE

Ragionamento Primo.

Sia nel cospetto di Dio l’anima del signor Conte di Gabalì, che adesso appunto mi viene scritto essere improvvisamente morto d’apoplesìa.
I signori curiosi non mancheranno di dire che questa specie di morte è ordinaria a coloro i quali fanno mal uso de’ segreti de’ Savj e che fin d’allora che’l beato Raimondo Lullo nel pronunziò la sentenza nel suo Testamento, un angelico esecutore non ha mai lasciato di strangolar tosto tutti coloro che hanno indiscretamente rivelati i misteri filosofici.
Ma non condannino però costoro sì di leggieri questo dotto Uomo senza prima essersi informati della sua condotta.
Egli m’ha ogni cosa rivelata, è vero, ma con tutte le circonspezioni Cabalistiche. Bisogna rendere alla sua memoria questa giustizia, che egli era molto zelante nella religione de’ Filosofi suoi antecessori, e che avrebbe piuttosto sofferto il fuoco, che profanarne la santità con rivelarla a qualche Principe immeritevole, a qualche ambizioso o a qualche incontinente; tre sorte di genti scomunicate in ogni tempo da’ Savj.
Per mia ventura io non son Principe, ho poca ambizione, e si vedrà in appresso che ho altresì un poco più di castità di quel che non bisogni a un Savio.
Egli mi conobbe d’indole docile, curiosa e poco timida; altro non m i manca se non un poco di malanconìa, per far confessare a tutti coloro che volessero biasimare il Conte di Gabalì perciocché niente m’abbia celato, che io era un soggetto molto propio per le scienze segrete.
È vero che senza malanconìa non vi si possono fare grandi progressi; ma qual poco che ne ho bastò a non alienarmelo. Voi avete, m’ha cento volte egli detto, Saturno in un angolo, nella sua casa, e retrogrado; non potrete non essere un giorno tanto malanconico quanto dee essere un Savio; poiché il più Savio di tutti gli Uomini, siccome il sappiamo nella Cabala, avea, non altrimenti che voi, Giove nell’ascendente; pure non si trova che egli abbia riso una sola volta in tutta la sua vita, tanto era potente l’impressione del suo Saturno, quantunque fosse molto più debole del vostro.
Col mio Saturno dunque, è non col Signor Conte di Gabalì, se la devon prendere i signori curiosi, se mi piace piuttosto di divulgare i loro Segreti che di praticargli. Se gli Astri non fanno il lor dovere, non è colpa del Conte; e se non ho bastante grandezza d’animo per tentare di divenire il padrone della Natura, di mettere sossopra gli elementi, di conversare con le Intelligenze supreme, di comandare a’ demonj, di generar giganti, di crear nuovi mondi, di parlar a Dio nel suo trono formidabile e d’obbligare il Cherubino che vieta l’entrata del Paradiso Terrestre a permettermi di far qualche passeggiata ne’ suoi viali, io devo essere al più biasimato e querelato, e non bisogna per questo insultar la memoria di quest’uomo raro, e dire che sia morto per avermi insegnate tutte queste cose. È egli forse impossibile, essendo la sorte delle armi giornaliera, che abbia avuta la disgrazia di rimaner morto in un combattimento sostenuto con qualche folletto indocile? E non può esser pure che, parlando a Dio nel suo trono infiammato, non si sia potuto trattenere dal guardarlo nella faccia? Or si fa esser scritto che non si può fissare in lui lo sguardo senza morirne. Forse anche egli non è morto se non in apparenza, secondo il costume de’ Filosofi, i quali fingono di morire in un luogo e si trasferiscono in un altro. Che che ne sia non posso credere che la maniera colla quale m’ha confidati i suoi Tesori meriti gastigo. Ecco come la cosa è passata.
Il senso comune avendomi sempre fatto sospettare della vanità di tutte quelle Scienze che chiamansi Segrete, non sono mai stato tentato di perdere il tempo nello squadernarne i libri che ne trattano: ma non essendo altresì cosa ragionevole il condannare senza saperne il perché tutti coloro che ci s’applicano, i quali il più delle volte sono per altro gente saggia, la maggior parte dotta e che fa figura nella toga e nella spada, deliberai fin da prima (per non essere ingiusto e non stancarmi con una tediosa lettura) di fingermi incapricciato di tutte queste scienze con tutti coloro i quali avessi potuto sapere esserne appassionati. Il felice successo sorpassò tosto la mia speranza. Poiché tutti questi Signori, per misteriosi e riservati che si stimino d’essere, non altro desiderano se non di far pompa delle loro immaginazioni e delle nuove scoverte che pretendono d’aver fatte nella Natura. Io fui in pochi giorni il confidente de’ più ragguardevoli tra loro; n’avea sempre qualcheduno nel mio gabinetto, che era a bella posta guernito de’ loro più fantastici Autori; non passava alcun Letterato straniero del quale io non avessi notizia; in una parola, mi trovai ben presto un gran Personaggio per rispetto a questa scienza. Avea per compagni principi, signori grandi, togati e dame belle e brutte, dottori, prelati, frati, monache e per fine gente d’ogni sorta. Alcuni avean per mira gli angeli, alcuni altri il diavolo, certi il loro genio, certi altri gl’incubi, altri la guarigione di tutti i mali, altri gli Astri, molti i segreti della Divinità, e quasi tutti la pietra filosofale. Eran tutti d’unanime parere che questi grandi Segreti, e sopra tutto la Pietra Filosofale, sono di difficile ritrovamento, e che poca gente gli possiede; ma ciascuno in particolare avea molto buona opinione di sé, per credersi nel numero degli Eletti. Per buona sorte coloro a’ quali più importava, aspettavano allora con impazienza l’arrivo d’un Tedesco, gran signore e gran cabalista, le cui Terre sono verso le frontiere della Polonia. Costui aveva permesso per lettera a’ Figliuoli de’ filosofi che sono in Parigi, di venire a visitargli e di passare per la Francia andando in Inghilterra.
Io ebbi la commessione di rispondere alla lettera di questo grand’Uomo: gl’inviai la figura della mia nascita affinché giudicasse se io potessi aspirare alla suprema Sapienza. La mia figura e la mia lettera ebbero la gran sorte di obbligarlo a farmi l’onore di rispondermi che io sarei uno de’ primi, che esso vedrebbe in Parigi; e che se ‘l Cielo non ci s’opponesse, non sarebbe mancato per lui di farmi entrare nella Società de’ Savj.
Per usar bene della mia fortuna, mantenni con l’illustre Alamanno un regolar commercio. Gli proponea di tempo in tempo grandi dubbj, e martellati alla meglio che io sapessi, sull’armonia del Mondo, sui numeri di Pitagora, sulle Visioni di S. Giovanni e sul primo capitolo della Genesi. La grandezza delle materie lo rapiva; mi scriveva maraviglie non udite, e ben m’accorsi che avea a che fare con un Uomo d’una vigorosissima e spaziosissima immaginazione. Io ne ho settanta od ottanta lettere d’uno stile sì straordinario, che non potea più risolvermi a leggere alcun’altra cosa, tosto che era solo nel mio Gabinetto.
N’ammirava un giorno una delle più sublimi, quando vidi entrare un Uomo d’ottimo aspetto, il quale salutandomi gravemente mi disse, in lingua Francese e con accento straniero: «Adorate, Figliuol mio, adorate l’ottimo e grandissimo Dio de’ Savj, e non v’insuperbite mai, perciocché Egli v’invii uno de’ Figliuoli della Sapienza per farvi membro della loro Società, e chiamarvi a parte delle maraviglie della sua Onnipotenza».
La novità del saluto a prima giunta mi sorprese e comincia a dubitare per la prima volta se ci sieno mai state apparizioni: tuttavia rassicurandomi come meglio potei, e guardandolo colla maggiore civiltà che la picciola paura che aeva me’l poté permettere: chiunque voi siate, gli dissi, il cui complimento non è di questo Mondo, molto m’onorate nel visitarmi; ma contentatevi, se vi piace, che prima d’adorare il Dio de’ Savj, io sappia di quali savi e di qual Dio voi parlate; e se v’aggrada, agiatevi su questa sedia d’appoggio e degnatevi di dirmi chi è questo Dio, questi Savj, questa compagnia, queste maraviglie dell’Onnipotenza, e dopo o prima di tutto ciò, degnatevi ancora di dirmi a quale specie di Creatura io ho l’onore di parlare.
Voi mi ricevete accortissimamente, o Signore, replicò egli ridendo e prendendo la sedia d’appoggio che gli presentava: mi domandate alla bella prima che vi spieghi certe cose delle quali vi contenterete che per quest’oggi non vi faccia menzione,. Il complimento che vi ho fatto sono le parole che si dicono i Savj nel primo veder coloro a’ quali hanno risoluto di scoprire il lor cuore, e di rivelare i loro Misteri. Ho creduto che, essendo voi tanto dotto quanto mi siete paruto nelle vostre lettere, questo saluto non vi fosse incognito, e che fosse questo il più aggradevole complimento che potesse farvi il Conte di Gabalì.
Ah Signore, io gridai, sovvenendomi che avea a trattare con un gran personaggio, come mai mi renderò io degno di tanta bontà? È possibile che ‘l più grande di tutti gli uomini sia nel mio Gabinetto, e che ‘l Gran Gabalì m’onori colle sue Visite?
Io sono il minimo de’ Savj, replicò egli d’un aria grave; Iddio è che dispensa i lumi della sua Sapienza con quel peso e con quella misura che meglio piace alla sua Sovranità; non me n’ha dispensato se non una picciolissima parte a confronto di ciò che ammiro con istupore ne’ miei Compagni. Spero che Voi potrete uguagliargli un giorno, se ardisco di giudicarlo dalla figura della vostra nascita che m’avete fatto l’onore d’inviarmi. Ma permettetemi che mi lagni di Voi, Signore, soggiunse egli ridendo, perciocché m’avete preso di primo lancio per un Fantasma.
Ah, non già per un fantasma, gli dissi, ma vi confesso, Signore, che raccordandomi all’improvviso di quel che Cardano racconta, che suo padre fu visitato un giorno nel suo studio da sette persone incognite vestite di diversi colori, che ‘l tennero in discorsi assai bizzarri sulla loro natura e sul loro impiego…
… Io v’intendo, interruppe il Conte: questi erano Silfi, de’ quali vi parlerò qualche giorno; essi sono una specie di sostanze aeree che vengono alcune volte a consigliarsi coi Savj su i libri d’Averroë, che non troppo ben intendono. Cardano è un melenso nell’aver pubblicato ciò nelle sue Sottigliezze: egli avea trovate quelle memorie ne’ scritti di suo Padre. Il quale era uno de’ nostri, e che vedendo il suo Figliuolo essere naturalmente ciarlone, non volle insegnargli alcuna cosa di grande, e lasciò che s’occupasse sull’Astrologia ordinaria, per mezzo della quale non seppe prevedere né pure che ‘l suo Figliuolo sarebbe stato appiccato. Questo scioperone dunque è stato cagione che m’abbiate fatta l’ingiuria di prendermi per un Silfo?
Ingiuria? Replicai io. Che? Signore, sarò io infelice a segno da…
…Io non me ne sdegno, interruppe egli: voi non siete obbligato a sapere che tutti questi spiriti elementari sono nostri Discepoli; che sono troppo felici, quando vogliamo abbassarci a istruirgli; e che ‘l minimo de’ nostri Savj è più dotto e più possente di tutti i suddetti uomicciuoli. Ma noi parleremo di questo un’altra volta; mi basta per oggi d’avere avuta la soddisfazione di vedervi. Procurate, figliuol mio, di rendervi degno di ricevere i lumi Cabalistici; l’ora della vostra regenerazione è arrivata, e a voi starà d’essere una nuova creatura. Pregate ardentemente colui che solo ha la podestà di creare nuovi cuori, di darvene uno che sia capace delle grandi cose che devo insegnarvi, e d’ispirami a nulla celarvi de’ nostri Misterj.
Egli alzossi allora, e abbracciandomi, senza darmi tempo da rispondergli: Addio, Figliuol mio, soggiunse, vado a vedere i nostri compagni che sono in Parigi; poi vi darò notizia di me. Frattanto vegliate, orate, sperate, e tacete.
Nel dir ciò uscì dal mio gabinetto. Io mi lagnai della sua breve visita nell’accompagnarlo, e della crudeltà che avea avuta d’abbandonarmi dopo d’avermi appena lasciata vedere una scintilla de’ suoi lumi. Ma avendomi assicurato gentilissimamente che niente avrei perduto nell’aspettarlo, montò in carrozza lasciò in uno stupore che non posso esprimere. Io non potea credere a’ miei propj occhi, né alle mie orecchie.
Son sicuro meco medesimo, dicea, che quest’Uomo è di gran Qualità, che ha cinquanta mila lire di rendita patrimoniale: sembra per altro molto cortese. Ed è possibile che gli si sieno fitte nella testa simili follie? Egli m’ha ragionato con troppa disinvoltura di questi Silfi. Fosse egli mai stregone daddovero? Sono io dunque vivuto ingannato finora nel credere che non ce ne sieno più? Ma poi se è uno stregone, sono essi così divoti come costui mostra d’essere?
Frattanto nulla comprendea: pure mi risolsi di vederne la fine, comeché ben prevedessi d’avere a sofferire molti sermoni; poiché il Demonio che l’agitava era grandemente morale e Predicatore.


RAGIONAMENTO SECONDO

Il Conte si compiacque di darmi tutta la notte per istare in orazione, e ‘l domane al far del giorno m’avvisò con un Biglietto che verrebbe verso le otto ore a casa mia, e che, se m’aggradasse, andremmo a passeggiare insieme. Ruel, gli risposi, mi sembra molto ameno e solitario. Andiamoci dunque, replicommi.
Montammo in carrozza, e per tutto il camino feci attenzione al mio nuovo maestro. Né ho mai notata in alcun altro una maggior pienezza di contento di quel che davano a divedere tutte le sue maniere. Parea che egli avesse l’animo più tranquillo e libero di quel che uno stregone non può avere. Tutta la sua aria non era mica d’un uomo cui la propia coscienza rampogni d’alcuna nerezza: e io avea un’estrema impazienza di vederlo entrare nella materia, non potendo comprendere come un uomo sì giudizioso e sì perfetto in ogni altra cosa, si fosse guastata la mente per le visioni delle quali io avea conosciuto il giorno precedente che era stato tocco.
Mi parlò divinamente della politica, e moltissimo si compiacque di sentire che io avea letto quel che n’ha scritto Platone.
Voi, mi disse, avrete bisogno qualche giorno di tutto questo forse più di quel che non credete. E, se quest’oggi saremo d’accordo, non è possibile che col tempo non facciate uso di queste sagge massime.
Noi entravamo allora a Ruel; andammo al giardino; il Conte ricusò d’ammirarne le bellezze, e s’incamminò a dirittura al labirinto.
Vedendo che eravamo così soli come egli potea desiderarlo, io lodo, esclamò alzando gli occhi e le braccia al Cielo, io lodo la Sapienza Eterna, imperciocché m’ispira di nulla nascondervi delle sue verità ineffabili; felice voi, figliuol mio, se ella ha la bontà di mettere nella vostra anima le disposizioni che questi altj misteri ricercano in voi. Imparerete a comandare a tutta la Natura; Dio solo sarà il vostro padrone, e i soli Savj saranno a voi eguali. Le supreme intelligenze ascriveranno a loro gloria l’obbedire a’ vostri desiderj. I Demoni non ardiranno di trovarsi dove voi sarete, la vostra voce gli farà tremare nel pozzo dell’Abisso, e tutti i popolj invisibili che abitano i quattro Elementi si stimeranno felici d’essere i ministri de’ vostri piaceri. V’adoro, o gran Dio, per aver coronato di tanta gloria l’uomo e per averlo constituito Supremo Monarca di tutte le opere delle vostre mani!
Vi sentite, figliuol mio, egli soggiunse voltandosi verso di me, vi sentite nel cuore quell’eroica ambizione che è ‘l vero carattere de’ figliuoli della Sapienza? Avete coraggio da desiderare di non servire se non solamente Dio, e di signoreggiare sopra tutto ciò che non è Dio? Avete voi capito che cosa sia l’essere Uomo? E non vi rincresce d’essere schiavo essendo nato per essere Sovrano? Se avete sì nobili pensieri come me n’accerta la figura della vostra nascita, considerate maturamente se siete per aver lo spirito e la forza di rinunziare a qualunque cosa che possa esservi d’ostacolo a giugnere all’altezza per la quale siete nato. Ciò detto si tacque. E mi risguardò fissamente, come se attendesse la mia risposta, o cercasse d’investigare il mio cuore.
Quanto il principio del suo discorso m’avea lusingato che entreremmo ben presto nella materia, tanto le ultime sue parole me ne fecero perdere la speranza. La parola rinunziare mi spaventò, e non dubitai punto che alla prima mi proponesse di rinunziare al Battesimo o al Paradiso. Così, non sapendo come distrigarmi da questo cattivo passo: rinunziare, gli dissi, Signore? Che! bisogna dunque rinunziare a qualche cosa?
Certamente, replicommi, e tanto è necessaria questa rinunzia che bisogna da essa dar principio.
Non so se ci potrete risolvere, ma so bene che la Sapienza non abita in un corpo soggetto al peccato, siccome pure non entra in un’anima prevenuta da errore o da malizia. I Savj non v’ammetteranno mai nella loro compagnia, se prima non rinunziate ad una cosa che è incompatibile colla Sapienza. Bisogna, egli soggiunse inclinandosi al mio orecchio, bisogna rinunziare ad ogni commercio carnale colle Donne.
Scoppiai dalle risa a così fantastica proposizione.
Vi contentate Signore, esclamai, vi contentate di molto poco. Io aspettava che mi proponesse qualche strana rinunzia: ma poiché non si tratta di rinunziare ad altro se non alle Donne, la cosa è fatta da molto tempo; io mercè di Dio, sono bastantemente casto. Con tutto ciò, Signore, siccome tutta la sapienza non bastò a fare che Salomone non si lasciasse corrompere, comeché egli fosse stato più savio di quel che io forse non sarò, ditemi di grazia di qual espediente voi altri Signori vi servite per astenervi da questo sesso. E qual inconveniente ci sarebbe che nel Paradiso de’ Filosofi ogni Adamo avesse la sua Eva?
Mi domandate cose grandi, egli rispose, consultando seco medesimo se dovesse o no rispondere alla mia domanda: ma pure conoscendo che vi distaccherete senza stento dalle Femine, vi dirò una delle ragioni che hanno obligato i Savj a esigere questa condizione da’ loro discepoli; e da essa comprenderete in quale ignoranza vivano tutti coloro che non sono nel nostro numero.
Quando sarete arrolato tra’ figliuoli de’ filosofi, e quando i vostri occhi saranno fortificati dall’uso della santissima Medicina, scoprirete tosto essere gli elementi abitati da creature perfettissime, delle quali il peccato del disgraziato Adamo ha fatto perdere alla sua troppo infelice Potestà la cognizione e ‘l commercio.
Questo spazio immenso che si trova tra la Terra e ‘l Cielo, tiene Abitatori assai più nobili degli uccelli e de’ moscherini; questi Mari si’ vasti contengono altri ospiti che delfini e balene; la profondità della terra non serve solo per talpe, e l’elemento del fuoco, più nobile degli altri tre, non è stato fatto per restare inutile e vuoto.
L’aria è piena di innumerabile moltitudine di popoli di figura umana, alquanto fieri in apparenza, ma molto più difficili in sostanza; grandi amatori delle scienze, sottili, rispettosi coi Savj e nemici degli sciocchi e degl’ignoranti. Le loro donne e figliuole hanno una bellezza maschile; tali appunto, quali si dipingono le amazzoni.
Come può esser mai ciò che mi dite, signore, esclamai, che que’ folletti sieno maritati?
Non vi stizzate, figliuol mio, per sì poca cosa, replicommi. Credete pure che tutto quel che vi dico è fondato e vero; questi sono i principi dell’antica Cabala, e a voi starà d’assicurarvene co’ vostri propj occhi: ma ricevete con uno spirito docile i lumi che Dio vi manda per mezzo mio. dimenticatevi di quanto avete potuto sentire su queste materie nelle scuole degl’ignoranti, altrimenti, quando ne sarete convinto dall’esperienza, avrete il dispiacere di vedervi obbligato a confessare che scioccamente vi siete ostinato.
Ascoltate dunque fino alla fine, e sappiate che i Mari e i fiumi sono abitati pure, come l’aria; gli antichi Savj hanno chiamato Ondini o Ninfe la suddetta specie di popoli. I maschi tra loro son pochi, ma le femine in gran numero e d’estrema bellezza. Le figliuole degli uomini non sono da paragonarsi loro.
La Terra è piena quasi fino al centro di Gnomi, gente di piccola statura, guardiani de’ tesori, delle miniere e delle gemme. Essi sono ingegnosi, amici dell’uomo e facili a comandarsi. Essi provedono i figliuoli de’ Savj di tutto il danajo che è loro necessario, né domandano altro per prezzo del loro servigio, se non la gloria d’esser comandati. Le Gnome loro donne sono picciole, ma leggiadrissime, e ‘l loro abito è curiosisssimo.
Per rispetto delle Salamandre, abitanti infiammati della regione del fuoco, esse servono a’ Filosofi, ma non troppo sono amanti della loro compagnia, e le loro donne e figliuole rare volte si lasciano vedere.
N’hanno ragione, l’interruppi, e quanto a me le dispenso volentieri.
Perché? disse il conte.
Eh! Che mi vale conversare con una si’ brutta bestia com’è la salamandra, maschio o femina che sia?
Avete torto, egli soggiunse, quest’è l’idea che n’hanno i dipintori e gli scultori ignoranti; le loro Donne sono belle e più belle ancora di tutte le altre; giacché sono d’un elemento più puro. Io non volea parlarvene, né fermarmi sulla descrizione di questi popoli, perché gli vedrete voi medesimo a vostro piacere e facilmente, se n’avrete la curiosità. Vedrete i loro abiti, le loro vettovaglie, i loro costumi, la loro politica, le loro leggi ammirabili. Resterete incantato dalla bellezza del loro ingegno più ancora di quella del loro corpo, ma non potrete far di meno di non compiangere que’ miserabili quando vi diranno che la loro anima è mortale, e che non hanno alcuna speranza di godere eternamente l’Essere Supremo, che pur conoscono e adorano religiosamente. Vi diranno che, essendo composti delle parti più pure dell’Elemento che abitano, né avendo in essi qualità contrarie, perché formati d’un solo elemento, non muoiono se non dopo più secoli; ma che è mai il tempo a confronto dell’eternità? Bisognerà ritornare per sempre nel niente. Questo pensiere grandemente gli affligge; e duriamo gran fatica a consolarnegli.
I nostri padri, i Filosofi, parlando con Dio a faccia a faccia, si lagnarono con lui della disgrazia di questi popoli; e dio, la cui misericordia non ha limiti, rivelò loro che non era impossibile di trovar rimedio a questo male. Egli inspirò loro che siccome l’uomo pel parentado che ha contratto con Dio, è stato fatto partecipe della Divinità, così i Silfi, gli Gnomi, le Ninfe e le Salamandre, pel parentado che possono contrarre coll’uomo, possono esser fatti partecipi dell’immortalità. Di maniera che una ninfa o silfa diviene immortale e capace della beatitudine alla quale noi altri uomini aspiriamo, sempre che abbia la sorte di maritarsi con un Savio: e uno Gnomo o un silfo finisce d’esser mortale nel momento che si sposa con una delle nostre figliuole.
Da questo nacque l’errore de’ primi secoli, di Tertulliano, del martire Giustino, di Lattanzio, di Cipriano, di Clemente Alessandrino, d’Atenagora filosofo Cristiano, e generalmente di tutti gli scrittori di quel tempo. Essi avean saputo che questi mezz’uomini elementari avevano ricercato il commercio delle figliuole degli uomini; e di qua trassero occasione d’immaginare che la caduta degli angeli non fosse addivenuta per altro se non per l’amore dal quale essi si eran lasciati prendere per le donne.
Qualche Gnomo desideroso di diventare immortale avea proccurato di guadagnarsi la benivoglienza delle nostre figliuole, e avea loro fatto dono di gemme, delle quali essi sono naturalmente custodi: e i suddetti autori han creduto, appoggiandosi sul libro d’Enoch da loro male inteso, queste essere le insidie che gli Angeli innamorati aveano ordite contro la castità delle nostre donne. Da principio questi figliuoli del cielo generarono i famosi Giganti, essendosi fatti amare dalle figliuole degli uomini: e i cattivi cabalisti Giuseppe e Filone (conciossiaché tutti gli Ebrei sieno ignoranti), e dopo di essi tutti gli autori che io or ora ho nominati, han detto, siccome Origene e Macrobio, che costoro erano Angeli, e non han saputo che erano i Silfi e gli altri popoli degli elementi, i quali sotto il nome di figliuoli d’Eloim, sono distinti da’ figliuoli degli uomini. Così pure quel tanto che’l saggio Agostino ha avuto la modestia di non decidere per rispetto alle persecuzioni che que’ tali che erano chiamati Fauni o Satiri faceano alle donne africane del suo tempo, diventa chiaro dopo ciò che io ho detto intorno al desiderio che tutti questi abitanti degli Elementi hanno di contrarre parentado con gli Uomini, siccome l’unico mezzo di pervenire all’immortalità che da loro medesimi non hanno.
Ah! I nostri Savj si guardano bene d’attribuire all’amor delle donne la caduta de’ primi Angeli, siccome pure di sommettere talmente gli uomini alla podestà del Demonio, che arrivino fino ad attribuirgli tutte le avventure delle Ninfe e de’ Silfi, delle quali tutti gli storici son pieni. Non vi fu mai alcun male in tutto ciò. Erano Silfi i quali tentavano di rendersi immortali Le loro innocenti caoce, ben lungi dallo scandalizzare i filosofi, ci son parute sì giuste che abbiamo tutti unanimemente risoluto di rinonziare alle femine e di non attendere altro se non ad immortalare le Ninfe e le Silfe.
Oh Dio! (tornai ad esclamare) che ascolto mai! Fin dove giunge la f….
Si, figliuol mio (m’interruppe il conte) ammirate fin dove giunga la felicità filosofica! In vece di femine, le cui frali appariscenze in pochi giorni svaniscono e diventano grinze orribili, i Savj posseggono bellezze che non invecchiano mai, e che hanno essi la gloria di rendere immortali. Or pensate quale debba essere l’amore e la gratitudine di queste invisibili innamorate, e con quale ardore si studino di piacere al caritatevole filosofo che s’applica ad immortalarle.
Ah signore (esclamai di nuovo), io rinunzio…
Si figliuol mio (ripigliò egli da capo senza darmi tempo di finire) rinunziate agl’inutili e insipidi piaceri che si possono provare stando colle donne; la più bella di loro è orribile in confronto alla minima Silfa: i nostri virtuosi abbracciamenti non son mai seguiti da alcuna nausea. Poveri ignoranti, quanto siete degni di compassione, perciocché non potete gustare delle voluttà filosofiche!
Povero conte di Cabalì! (io interruppi d’un tuono tra la collera e la compassione) mi lascerete finalmente dire che io rinunzio a questa insensata sapienza, che mi pare ridicola questa fanatica filosofia, che detesto questi abbominevoli abbracciamenti che vi uniscono a’ fantasmi, e che tremo per voi che qualcuna delle vostre pretese Silfe in mezzo a’ vostri trasporti non vi trascini all’inferno, per la paura che un uomo così onesto come voi non s’avvegga alla per fine della follia di questo zelo chimerico e non abbia pentimento d’un delitto così grande.
Oh oh! (ripigliò egli tirandosi tre passi in dietro e guardandomi con occhio sdegnoso) guai a voi, spirito indocile!
Il suo atto mi scosse, io lo confesso: ma fu peggio poi, quando vidi ch’egli, scostandosi da me, si trasse di tasca un foglio, il quale, per quanto io potea veder di lontano, era quasi tutto pieno di caratteri che non potea troppo ben discernere. Egli leggea attentamente, si rammaricava e borbottava. Credei che sotto voce invocasse qualche spirito per mio esterminio, e mi pentii alquanto dell’inconsiderato mio zelo. S’io scampo da questo tristo punto (dicea meco medesimo) non avrò mai più che fare con cabalisti.
Frattanto fiso fiso il guardava, come un giudice che stasse per condannarmi a morte, allor che vidi che ‘l suo volto tornò sereno.
V’è duro (mi disse ridendo), v’è duro il ricalcitrare contra lo stimolo. Voi siete un vase d’elezione. Il Cielo v’ha destinato ad essere il più gran cabalista del vostro secolo. Ecco la figura della vostra nascita, che non può mentire. Se non è ora per mezzo mio, sarà quando piacerà al vostro Saturno retrogrado.
Ah, se io ho a diventar Savio (gli dissi) non sarà mai per mezzo d’altri che del gran Gabalì; ma, a dirla liberamente, io temo forte che non sia per essere molto difficile che possiate indurmi a questi amoreggiamenti filosofici.
Provenisse mai (ripigliò) perché foste tanto cattivo fisico, che non vi sentiste persuaso dell’esistenza de’ suddetti popoli?
Non so (replicai) ma mi parrebbe sempre che essi non fossero altro se non folletti travestiti.
E crederete tuttavia più alla vostra nutrice (mi disse) che alla ragion naturale, che a Platone, a Pitagora, a Celso, a Psello, a Proculo, a Porfirio, a Giamblico, a Plotino, a Trismegisto, a Nollio, a Dorneo, a Fludd, che al Gran Filippo Aureola, a Teofrasto, a Bombasto, a Paracelso di Honeinhem e a tutti i loro compagni?
Io vi crederei, signore, (risposi) quanto volete e forse più, non meno che a tutti costoro: ma, signor mio caro, non potreste regolare la faccenda co’ vostri compagni in guisa ch’io non fossi obbligato a struggermi in tenerezze con coteste signorine elementari?
Oh certo (replicommi), voi siete in libertà, né si ama quando non si vuole; pochi Savj però han potuto campare da’ loro vezzi: con tutto ciò se n’è trovato qualcuno il quale, riserbandosi interamente a cose più grandi, siccome voi saprete col tempo, non ha voluto fare quest’onore alle ninfe.
Io sarò dunque uno di questi (ripigliai), tanto più che non saprei risolvermi a perdere il tempo nelle ceremonie delle quali, siccome ho inteso dire a un prelato, bisogna fare uso nel conversare con questi genj.
Questo prelato non sapea che dirsi (disse il conte) poiché voi vedrete un giorno che essi non sono Genj, ed altronde giammai Savio non impiegò né ceremonie né superstizione alcuna per ottenere la familiarità de’ Genj, siccome né meno per ottenere quella de’ popoli de’ quali ragioniamo. Il cabalista opera sempre secondo i principi della natura, e se talvolta si trovano né nostri libri parole strane, caratteri e suffumigj, non è per altro se non per celare agl’ignoranti i principj fisici. Ammirate la semplicità della natura in tutte le sue più maravigliose operazioni; e in questa semplicità un’armonia e un concerto sì grande, sì giusto e sì necessario che vi scuoterà, vostro malgrado, dal letargo delle vostre deboli immaginazioni. Ciò che sono per dirvi noi l’insegnamo a que’ tali de’ nostri discepoli i quali non vogliamo che entrino interamente nel santuario della natura, e che per altro non vogliamo provare del commercio de’ popoli elementari per la compassione che abbiamo de’ suddetti popoli.
Le Salamandre, siccome avete forse già capito, son composte delle parti più sottili della sfera del fuoco, conglobate e organizzate dall’azione del fuoco universale (del quale vi ragionerò un giorno), così chiamato perché è ‘l principio di tutti i movimenti della natura. I Silfi son composti parimenti degli atomi più puri dell’aria; le Ninfe delle parti più fine dell’acqua ed i Gnomi della parti più sottili della terra. Ci era molta proporzione tra Adamo e queste creature sì perfette, poiché, essendo egli composto delle parti più pure degli elementi, contenea le perfezioni di queste quattro specie di Popoli, ed era il loro re naturale. Ma da quel punto che ‘l suo peccato lo precipitò negli escrementi degli elementi (siccome qualche altra volta saprete), si sconcertò l’armonia che passava tra lui e queste sì pure e sì sottili sostanze; né vi fu più proporzione, essendo egli diventato impuro e grossolano. Qual rimedio a questo male? Come riaccordare questo liuto e ricuperare la sovranità perduta? Oh natura, perché ti studiano così poco? Non comprendete voi, figliuol mio, con quale semplicità la natura può rendere all’uomo que’ beni che egli ha perduti?
Oimé! Signore (ripigliai), io sono ignorantissimo di tutte queste semplicità.
Pure è ben facile il divenire intendente (replicò). Se si vuol ricuperare l’imperio sulle Salamandre, bisogna purificare e sublimare l’elemento del fuoco che è in noi, e così rimettere in tuono questa corda alterata. Non si ha a fare altro se non concentrare il fuoco del mondo per mezzo di specchi concavi in un globo di vetro; e questo è l’artifizio che tutti gli antichi hanno religiosamente occultato, e che ‘l divino Teofrasto ha scoverto. Si forma in questo globo una polvere solare la quale, dopo che si è per se stessa spogliata dal mescuglio degli altri elementi ed è stata preparata secondo l’arte, si rende in pochissimo tempo eccellentemente propia a sublimare il fuoco che è in noi, e a trasformarci, per così dire, in un natura ignea. Da quel punto gli abitanti della sfera del fuoco ci diventano inferiori, e allegri del vedere ristabilita la nostra scambievole armonia, e del vederci riaccostati ad essi, concepiscono per noi la stessa amicizia che hanno pe’ loro simili, tutto il rispetto che devono all’immagine e al luogotenente del loro Creatore, e tutte quelle attenzioni che può suggerir loro il desiderio d’ottenere da noi l’immortalità che non hanno. Costoro, essendo più sottili di tutti coloro degli altri elementi, vivono lunghissimo tempio, e perciò non si curano di troppo presto esigere da’ Savj l’immortalità. Voi potrete farvela con questa specie di elementari, figliuol mio, se tuttavia durerà l’avversione che m’avete dimostrata; forse non vi parlerebbero mai di ciò che tanto temete. Ma non sarebbe lo stesso co’ Silfi e con gli Gnomi e colle Ninfe. Essi vivendo meno hanno più per tempo bisogno di noi: e per ciò la loro familiarità è più facile a ottenersi. Non ci si ricerca altro se non che otturare un vase di vetro pieno d’aria conglobata, d’acqua o di terra, e lasciarlo esposto al sole per lo spazio d’un mese; poi separare i suddetti elementi secondo la scienza, la qual cosa è sopra tutto facilissima a praticarsi nell’acqua e nella terra. È cosa maravigliosa l’osservare qual esca diventa ciascuno di questi elementi purificati per attrarre Ninfe, Silfi e Gnomi. Appena presane una picciolissima porzione ogni giorno per lo spazio di alcuni mesi, tosto si vede nell’aria la republica volante de’ Silfi, venire in folla sulle rive le Ninfe, e i custodi de’ tesori esporre le loro ricchezze. In questa guisa, senza caratteri, senza ceremonie, senza parole barbare, si diviene dispotico di tutti questi popoli. Essi non esigono alcun culto dal Savio, sapendo molto bene essere egli più nobile di loro. Così la veneranda natura insegna a’ suoi figliuoli a ristaurare gli elementi; così si ristabilisce l’armonia, così l’uomo ricupera il suo naturale impiego e può tutto su gli elementi, senza l’ajuto d’alcun demonio, e senza alcun arte illecita. Perciò voi ben vedete, figliuol mio, che i Savj sono più innocenti di quel che non pensate. Ma voi niente mi dite…
Io v’ammiro, Signore (gli dissi), e comincio a temere che non mi facciate divenir soffiatore.
Ah! Dio ve ne liberi, figliuol mio (esclamò): la vostra nascita non vi destina a sì fatte bagattelle; anzi vi proibisco d’applicarvici: v’ho detto che i Savj spiegano queste cose solamente a coloro i quali non vogliono ammettere nel loro ruolo. Per mezzi tutt’altrimenti filosofici avreste ciascuno di questi vantaggi, ed altri infinitamente più gloriosi e aggradevoli. Non per altro vi ho descritte queste maniere, se non per farvi vedere l’innocenza di questa filosofia, e per liberarvi da’ vostri panici timori.
Mercé di dio (risposi), non ho tanta paura quanta n’avea da principio. E quantunque non mi determini ancora al progetto che m’avete proposto colle Salamandre, con tutto ciò non lascio d’aver la curiosità di sapere come abbiate scoperto che le suddette ninfe e i suddetti Silfi muojono.
In verità (ripigliò) essi cel dicono, e noi gli vediamo morire.
Come mai potete vedergli morire (replicai) se ‘l vostro commercio gli rende immortali?
Direste bene (egli disse) se’l numero de’ Savj fosse eguale al numero de’ suddetti popoli; oltra che ce n’ha parecchi tra loro i quali si contentano meglio di morire, che col rendersi immortali correre il rischio d’essere così, infelici come vedono che i demonj sono. E’ il diavolo che inspira loro tali sentimenti, poiché non ci ha cosa che egli non faccia per impedire a queste povere creature d’immortalarsi per mezzo del nostro parentado. Di sorta che io risguardo, e voi dovete risguardare pure, figliuol mio, come una tentazione perniciosissima, e come una risoluzione di pochissima carità quell’avversione che ci avete. In oltre per ciò che s’appartiene alla morte di cui mi ragionate, chi fu mai colui che obbligò l’oracolo d’Apollo a dire che tutti coloro i quali parlavano negli oracoli erano mortali, siccome egli appunto, secondo che Porfirio riferisce? E che pensate voi che volle dire quella voce, che fu intesa per tutti i luoghi d’Italia e che cagionò tanto spavento a tutti coloro che si trovavano in mare? IL GRAN DIO PAN È MORTO. Erano i popoli dell’aria, i quali avvisavano i popoli delle acque che ‘l primo, e ‘l più vecchio de’ Silfi era in quel punto morto.
In quel tempo che la suddetta voce si intese (gli dissi) mi pare che ‘l mondo adorava Pan e le Ninfe. Questi signori, dunque, il cui commercio mi predicate, erano i falsi Dei de’ pagani?
Così è figliuol mio (replicommi). I Savj si guardano bene di credere che ‘l Demonio abbia mai avuta la potestà di farsi adorare. Egli è troppo infelice e debole; né è da credere che abbia avuto mai questo piacere e quest’autorità: ma ha potuto sì bene persuadere questi ospiti degli elementi a mostrarsi agli uomini e a farsi innalzare tempj; e pel naturale dominio che ciascheduno di essi ha sull’elemento che abita, turbavano l’aria e ‘l mare, scuotevano la terra e dispensavano i fuochi del cielo a lor capriccio, talché non duravano gran fatica a farsi reputare altrettante divinità finattantoché l’Ente Supremo trascurò la salute delle Nazioni. Ma il Diavolo non ha ritratto dalla sua malizia tutto quel vantaggio che ne sperava, poiché per questo medesimo è addivenuto che Pan, le Ninfe e gli altri popoli elementari, avendo trovato il modo di cambiare quel commercio di culto in un commercio d’amore (potendo facilmente sovvenirvi che presso gli antichi il suddetto Pan era il re di que’ dii che essi chiamavano dii incubi, e i quali andavano perdutamente in traccia delle donzelle) parecchi tra’ pagani furono campati dal Demonio e non bruceranno mica nell’Inferno.
Io non v’intendo, signore (soggiunsi).
Voi non potete intendermi (egli proseguì ridendo e con un tuono burlesco): ecco ciò che trascende il vostro intendimento e quello altresì di tutti i vostri dottori, i quali non sanno cosa sia la bella fisica. Ecco il gran misterio di tutta quella parte di filosofia che riguarda gli elementi; e questo è quello che toglierà sicuramente da voi (laddove abbiate alquanto amore per voi medesimo) quella ripugnanza sì poco filosofica che m’avete dimostrata tutt’oggi. Sappiate dunque, figliuol mio, e non andate divolgando questo grande arcano a qualche indegno ignorante, sappiate che, siccome i Silfi acquistano un’anima immortale per mezzo del parentado che contraggono con quegli uomini i quali sono predestinati, così pure quegli uomini i quali non hanno alcun diritto alla gloria eterna, quegl’infelici a cui non riesce l’immortalità se non d’un funesto vantaggio, e pe’ quali il Messia non è stato mandato…
Voi siete dunque Giansenisti ancora, signori cabalisti? (io l’interruppi).
Noi non sappiamo né pur cosa sieno, figliuol mio, cotesti Giansenisti (egli ripigliò bruscamente); e sdegniamo d’informarci in che consistano le differenti sette, per le quali gl’ignoranti sì di leggieri impazzano. Noi ci regoliamo secondo l’antica religione de’ nostri padri, i filosofi, della quale bisognerà pure che io v’istruisca un giorno. Ma per ritornare al nostro proposito, quegli uomini i quali sono unicamente immortali per essere eternamente infelici, quei disgraziati figliuoli che sono stati dal Supremo Padre trascurati, hanno pur essi lo scampo di poter divenire mortali imparentandosi co’ popoli elementari. Di sorta che voi vedete bene che i Savj non corrono alcun risico per rispetto all’eternità: se sono predestinati hanno il piacere di condurre seco loro al cielo, allorché escono dalla prigione di questo corpo, la Silfa o la Ninfa cui hanno immortalata; e se non sono predestinati, il commercio della Silfa rende la loro anima mortale e gli libera dagli orrori della seconda morte. Per questa guisa si vide il Demonio scappar di mano tutti que’ pagani i quali s’imparentarono colle Ninfe: per questa guisa i Savj, o quegli amici de’ Savj a’ quali Iddio c’inspira di comunicare qualcuno de’ quattro segreti elementari che io presso a poco vi ho insegnati, sfuggono il pericolo di essere dannati.
A dir vero, Signore (io esclamai, non osando di turbargli il suo buon umore e parendomi a proposito di differire lo spiegargli appieno i miei sentimenti fintantoché egli non m’avesse scoperti tutti i Segreti della sua Cabala, i quali ben vidi da questo primo saggio dovere essere bizzarrissimi e piacevolissimi) a dir vero, voi spignete troppo innanzi la sapienza, e ben avete avuta ragione di dire che questo trascenderebbe l’intendimento di tutti i nostri dottori. Io credo che trascenderebbe anche quello di tutti i nostri magistrati, giacché se essi potessero scovrire chi sono coloro che scappano da diavolo per questo mezzo, essendo gl’ignoranti sempre iniqui, prenderebbero le parti del diavolo contra questi fuggitivi, e mal farebbero loro quartiere.
E per questo motivo ancora (ripigliò il conte) io vi ho raccomandato, e di nuovo vi raccomando religiosamente il segreto. I vostri giudici sono strani! Condannano un’azione innocentissima come un delitto enormissimo. Qual barbarie non fu l’aver fatto bruciare que’ due preti che ‘l Principe della Mirandola dice avere egli medesimo conosciuti, i quali aveano avuta ciascuno la sua Silfa per lo spazio di quarant’anni! Qual inumanità l’aver fatta morire Giovanna Hervillier, al quale avea faticato per trentasei anni ad immortalare uno gnomo? E qual ignoranza non è stata quella di Bodino, il quale l’ha trattata da strega e ha presa occasione della sua avventura d’autorizzare le chimere popolari su gli pretesi stregoni con un libro tanto impertinente quanto quello della sua Republica è ragionevole!
Ma è già tardi, e io non penso che voi non avete ancor mangiato. Bisogna che ‘l diciate per voi, Signore (gli risposi), perché quanto a me v’ascolterei fino a domane senza fastidio.
Ah, per me! (ripigliò ridendo e incamminandosi verso la porta) si vede bene che non sapete ciò che sia Filosofia. I Savj non mangiano se non per diletto, e non mai per necessità.
Io avea un’idea tutta contraria della sapienza (replicai): credea piuttosto che ‘l Savio non dovesse mangiare se non per soddisfare alla necessità che se ne ha.
Sbagliavate (disse il Conte): quanto tempo pensate mai che possano starsi i nostri Savj senza mangiare?
Che posso sapere io? (gli dissi). Mosé ed Elia se n’astennero per quaranta giorni: i vostri Savj se n’asterranno senza dubbio per alcuni giorni di meno.
Oh la gran pruova che essi sarebbero! (egli soggiunse). Il più dotto uomo di quanti ce ne sono mai stati, il divino, il quasi adorabile Paracelso, afferma aver veduti molti Savj essersi astenuti per venti anni da ogni forma di cibo. Egli medesimo, innanzi di pervenire alla Monarchia della Sapienza, il cui scettro gli abbiamo con tutta giustizia ceduto, volle provarsi a vivere per parecchi anni senza prendere altro se non che un mezzo scrupolo di quintessenza solare. E se volete togliervi la soddisfazione di far vivere qualcuno senza mangiare, basta che prepariate la terra in quella stessa guisa nella quale io vi ho detto che si può preparare per ottenere il commercio de’ Gnomi. La suddetta terra, applicata sull’ombelico e cambiata quando è troppo secca, fa che possa astenersi dal mangiare e dal bere senz’alcun patimento; talché il veridico Paracelso dice averne fatta la sperienza per lo spazio di sei mesi.
Ma l’uso della medicina cattolica cabalistica ci libera molto meglio da tutte quelle importune necessità, alle quali la Natura mantiene soggetti gl’ignoranti.
Noi mangiamo solamente quando ci piace; e tutta la superfluità delle vivande andandosene per insensibile traspirazione, non abbiamo mai vergogna d’essere uomini.
Si tacque allora, vedendo che eravamo già vicino a’ nostri famigli. Andammo al contado a prendere un sobrio pranzo, secondo il costume degli eroi della filosofia.

RAGIONAMENTO TERZO.

Dopo pranzo ce ne tornammo al Labirinto: Io era tutto pensieroso, e la pietà che sentiva della stravaganza del Conte (della quale giudicava che difficilissimamente mi sarebbe riuscito di guarirlo) m’impediva di prendere divertimento su tutto ciò che egli m’avea detto; siccome avrei fatto se avessi sperato di poterlo ridurre a pensar bene. Andava cercando nell’antichità qualche cosa da opporgli alla quale non avesse che rispondere, giacché, allegandogli i sentimenti della Chiesa, m’avrebbe dichiarato ch’egli si rimettea all’antica Religione de’ suoi Padri, i Filosofi; e ‘l pretendere di convincere un cabalista colla ragione era impresa di lungo stento; oltra che non era prudenza il disputare con un uomo del quale io non sapea ancora tutti i principj.
Mi venne in pensiere che quel tanto che m’avea detto intorno a’ falsi dei a’ quali avea sostituiti i Silfi e gli altri popoli elementari, potea essere confutato con gli oracoli de’ pagani, che la Scrittura da per tutto piglia per diavoli e non già per Silfi. Ma siccome io non sapea se ne’ principj della sua Cabala il Conte attribuisse le risposte degli oracoli a qualche cagione naturale, credetti essere a proposito di fargli spiegare minutamente ciò che egli ne pensava.
Egli medesimo mi diede motivo di fargliene intraprendere il discorso allorché innanzi d’inoltrarsi nel Labirinto si voltò verso il giardino.
Oh la bella cosa! (egli disse) e queste statue fanno un ottimo effetto.
Il Cardinale (io replicai) che le fece qua portare, avea un’immaginazione poco degna della sua grande indole. Egli credea che la maggior parte di questi simulacri avessero un tempo renduto gli oracoli; e su questa supposizione gli comprò a carissimo prezzo.
Ecco la comune malattia di molti (ripigliò il Conte). L’ignoranza fa commettere tutto dì una specie di idolatria peccaminosissima; poiché si conservano con somma cura e si tengono in gran pregio gl’Idoli de’ quali si crede che ‘l Diavolo siasi una volta servito per farsi adorare. Oh Dio! Non si saprà mai dunque nel mondo che, fin dal principio de’ secoli voi avete precipitati i vostri nemici sotto lo sgabello de’ vostri piedi, e che tenete i demonj prigionieri sotto la terra nel vortice delle tenebre! Questa curiosità sì poco lodevole di raunar così questi pretesi organi de’ demonj potrebbe diventare innocente (figliuol mio), se si credesse volentieri non essere mai stato permesso agli angeli delle tenebre di parlare negli oracoli.
Io non credo (l’interruppi) che sarebbe troppo facile lo stabilir questo presso i curiosi; ma potrebbe forse riuscire presso gli spiriti forti. Imperciocché non ha guari che è stato deciso in una conferenza tenuta espressamente su questa materia dagli spiriti del primo ordine, che tutti i suddetti pretesi oracoli non erano se non una superchieria de’ sacerdoti gentili, o un artifizio della politica de’ Sovrani.
Furono forse i maomettani mandati in ambasceria al vostro re (disse il Conte) coloro che tennero questa conferenza e che così decidettero su cotal questione?
No signore, (risposi).
Di qual religione sono dunque codesti signori (egli replicò); giacché nulla conta presso di essi la Scrittura Divina, la quale in tanti passi fa menzione di tanti differenti oracoli, e principalmente de’ Pitoni, i quali faceano la loro residenza nelle parti destinate alla moltiplicazione dell’immagine di Dio, e di là davano le loro risposte?
Io ragionai (soggiunsi) di tutti que’ ventri parlanti, e feci osservare a tutta l’adunanza che ‘l Re Saulle gli avea banditi dal suo regno, dove non per tanto se ne trovò uno il giorno innanzi della sua morte, la cui voce ebbe l’ammirabile potenza di risuscitare Samuele a sua istanza e per sua ruina. Ma questi dotti uomini non ebbero difficoltà di decidere che non ci sieno mai stati oracoli.
Se la scrittura non gli movea (disse il Conte) bisognava convincergli con tutta l’antichità, nella quale era agevol cosa di farne loro discernere mille maravigliose pruove. Tante Vergini gravide del destino de’ mortali, le quali partorivano le buone o le cattive avventure di coloro che le interrogavano. Perché non allegavate loro Grisostomo, Origene ed Ecumenio, i quali fanno menzione di quegli uomini divini che i Greci chiamavano Engastrimandres, il profetico ventre de’ quali articolava oracoli si’ famosi? E se i vostri signori non amano la Scrittura e i Padri, bisognava ricordar loro quelle miracolose donzelle delle quali ragiona il greco Pausania, che si cangiavano in colombe e, sotto questa figura, rendevano i celebri oracoli delle colombe dodonide. O pure potevate dire per gloria della vostra nazione, che un tempo vi furono nella Francia alcune illustri donzelle le quali si trasformavano in tutte le figure a piacer di coloro che ricorrevano ad esse per consiglio, e le quali oltre a’ famosi oracoli che rendevano, avevano un imperio ammirabile sulle onde e un’autorità salutare sopra tutte l’infermità più incurabili.
Tutte quelle belle pruove sarebbero state trattate d’apocrife (gli dissi).
Dovevate allegar loro (egli soggiunse), gli oracoli che si rendono oggidì tuttavia.
E in qual parte del mondo? (replicai).
In Parigi (mi disse).
In Parigi! (esclamai).
Sì bene in Parigi (seguitò a dirmi). Voi siete maestro in Israello, e l’ignorate? E non si interrogano giornalmente gli oracoli acquatici ne’ vasi di vetro pieni d’acqua o ne’ bacini; e gli oracoli aerei negli specchi e sulla mano delle vergini? Non si ricuperano per questo mezzo e rosari perduti e Orivoli rubati? Non si hanno in cotal guisa le notizie de’ paesi lontani, e non si vedono gli assenti?
Eh signore, che mi state mai a contare? (gli dissi).
Vi narro (ripigliò) una cosa che io son sicuro accade tutto dì, e per rispetto della quale non sarebbe difficile di trovare mille testimonj di veduta.
Non posso crederlo mai signore (replicai). I magistrati darebbero qualche severo esempio per un’azione sì degna di gastigo; e non si soffrirebbe che per l’idolatria….
Ah siete pur buono! (il Conte m’interruppe). Non ci ha tanto male in questo, quanto forse pensate, e la Provvidenza non permetterà che s’estirpi questo resto di Filosofia scampato dal lacrimevole naufragio che la verità ha fatto. Se vi riamane ancora tra ‘l popolo qualche vestigio della tremenda potenza de’ Nomi Divini, sareste voi d’avviso che si scancellasse e si perdesse il rispetto e la riconoscenza che si dee al gran nome AGLA, il quale opera tutte le suddette meraviglie anche quando è invocato dagl’ignoranti e da’ peccatori; e ‘l quale farebbe ben altri miracoli in una bocca cabalistica? Se aveste voluto convincere que’ vostri signori della verità degli oracoli, bastava che aveste innalzata la vostra immaginazione e la vostra Fede, e che voltandovi verso l’oriente aveste gridato ad alta voce AGL….
Signore (l’interruppi), mi sarei guardato dal produrre questa sorta d’argomento a gente così onesta come sono coloro co’ quali io mi trovava; essi m’avrebbero preso per un fanatico, giacché sicuramente non danno fede a tutto questo; e quando anche io avessi saputa l’operazione Cabalistica della quale mi parlate, essa non avrebbe avuto effetto nella mia bocca, perché io ci ho meno fede ancora di essi.
Bene bene (disse il Conte): se non ce n’avete, ve la faremo venire. Frattanto, se voi aveste creduto che i suddetti signori non avrebbero dato credito a quel che possono vedere tutti i giorni in Parigi, potevate citar loro una storia di freschissima data. L’oracolo che Celio rodigino dice avere egli medesimo veduto rendere sulla fine del secolo passato dal quell’uomo staordinario che parlava e predicea l’avvenire col medesimo organo dell’Euricle di Plutarco.
Non avrei mai citato loro il Rodigino (gli risposi), la citazione sarebbe stata pedantesca; e poi non ci sarebbe mancato chi mi dicesse che un tal uomo era senza dubbio un invasato.
Il dirlo sarebbe stato uno sfacciato monachismo (ripigliò).
Signore (l’interruppi) mal grado la cabalistica avversione cui veggo che avete pe’ frati, non posso far di meno di non esser della banda loro in questa occasione. Io credo che non ci sarebbe tanto male a negar del tutto che ci sieno giammai stati oracoli, quanto a dire che non era il demonio che parlava in essi: perché alla per fine i padri e i teologi….
Perché alla perfine (egli interruppe) i teologi non sono forse d’accordo che la saggia Sambetea, la più antica delle Sibille, era figliuola di Noè?
Eh! Che importa (ripigliai).
Plutarco (egli replicò), non dice che la più antica sibilla fu la prima a rendere gli oracoli in Delfo? Quello spirito dunque, che Sambetea serbava nel suo seno. Non era mica un diavolo, né ‘l suo Apollo, falso dio. L’idolatria non cominciò se non lungo tempo dopo la divisione delle lingue: e sarebbe poco verisimile l’attribuire al padre della menzogna i sacri libri delle Sibille, e tutte le pruove della vera religione che i SS. Padri han tratte. E poi figliuol mio (continuò a dirmi ridendo) non s’appartiene a voi di sciorre il maritaggio che un gran cardinale ha fatto tra Davide e la Sibilla; né d’accusare questo dotto personaggio d’aver messo in parallelo un gran profeta e una disgraziata energumena: imperocché o Davide fortifica la testimonianza della Sibilla, o la Sibilla indebolisce l’autorità di Davide.
Ripigliate (l’interruppi), signore, vene prego, la vostra serietà.
Il farò ben volentieri (egli disse); con patto però che non m’accuserete di serbarne troppa. Il demonio in sentenza vostra va mai contra se stesso e contra i suoi interessi?
Perché no? (gli dissi).
Perché no? (egli soggiunse). Perché colui che Tertulliano ha sì felicemente e sì magnificamente chiamato la ragione di Dio, non lo trova a proposito. Satanasso non va mai contra se stesso; ne siegue dunque che ‘l demonio non ha mai parlato negli oracoli, o che non ci ha mai parlato contra i suoi interessi. Se dunque gli oracoli han parlato contra gl’interessi del demonio, non era il demonio che parlava negli oracoli.
Ma Dio non ha potuto forse costringere il demonio (gli dissi) a servir di testimonio alla verità, e a parlare contra se medesimo? Ma (ripigliò), se Dio non ce l’ha forzato?
Oh, in questo caso (replicai), voi avrete più ragione che non hanno i frati.
Vediamo, dunque (seguitò), e per procedere dimostrativamente e con buona fede, non voglio allegare le testimonianze degli oracoli, che i Padri della Chiesa rapportano; quantunque io sia persuaso della venerazione che avete per sì grandi uomini. La loro religione e l’interesse che avevano nell’affare, avrebbero potuto rendergli prevenuti; e ‘l loro amore per la verità avrebbe potuto far sì che, vedendola molto povera e nuda nel loro Secolo, avessero tolto in presto, per ornarnela, qualche abito e qualche ornamento dalla stessa menzogna: erano uomini, e han potuto per conseguenza, secondo la massima del poeta della Sinagoga, essere testimonj infedeli.
Mi fo dunque a proporre un uomo che non può esser sospetto in questa causa: pagano, e pagano d’altra sorta che non sono Lucrezio o Luciano, o gli Epicurei; un pagano infatuato per gli dei e pe’ demonj senza numero, superstizioso oltre misura, gran mago, o che tal si spacciava, e perciò gran partigiano de’ diavoli; voglio dire Porfirio. Ecco, a parola a parola, alcuni oracoli che egli riferisce.

ORACOLO

Al di sopra del fuoco celeste ci è una fiamma incorruttibile, sempre scintillante, origine della vita, fonte di tutti gli esseri e principio di tutte le cose. Questa fiamma produce tutto, e solo perisce ciò che ella consuma. Si fa conoscere da se stessa; questo fuoco non può esser contenuto da alcun luogo, esso è senza corpo e senza materia, circonda i cieli e da esso esce una picciola scintilla che fa tutto il fuoco del sole, della luna e delle stelle. Ecco quel tanto ch’io so di Dio. Non cercar di saperne da vantaggio perché questo non è a tua portata, per quanto savio tu fossi. Del resto sappi che l’uomo ingiusto e malvagio non può nascondersi dinnanzi a Dio. Né astuzia, né scusa alcuna può far travedere a’ suoi occhi penetranti. Ogni cosa è piena di Dio, Dio è da per tutto.

Voi vedete bene, figliuol mio, che quest’oracolo non pizzica troppo del suo demonio.
Almeno (gli risposi), il Demonio ci s’apparta troppo dal suo carattere.
Eccone un altro (egli disse), il quale canta anche meglio.

ORACOLO

In Dio vi è un’immensa profondità di fiamma; il cuore però non dee temere di toccare questo fuoco adorabile, o d’esserne toccato; egli non sarà consumato da questo fuoco sì dolce, il cui calore tranquillo e pacifico fa il legame, l’armonia e la durata del mondo. Ogni cosa sussiste per questo fuoco, il quale è Dio medesimo. Niuno l’ha generato, non ha madre, sa tutto e niente gli si può insegnare; egli è immutabile né suoi disegni, e’l suo nome è ineffabile. Ecco ciò che è Dio; poiché per noi, che siamo suoi messaggieri, ALTRO NON SIAMO SE NON UNA PICCIOLA PARTE DI DIO.

Or bene, che dite voi di quest’oracolo?
Io direi, per rispetto a tutti e due (replicai) che Dio può forzare il padre della menzogna a render testimonianza della verità.
Eccone qui un altro (ripigliò il Conte) che vi toglierà questo scrupolo.

ORACOLO

Ahi tripodi! Piangete e fate l’orazione funebre del vostro Apollo: EGLI E’ MORTO, STA PER MORIRE, S’ESTINGUE; perché il lume della fiamma celeste lo fa estinguere.

Voi ben vedete, figliuol mio, che qualunque possa esser mai che parli in questi oracoli, e che spieghi così bene a’ pagani l’essenza, l’unità, l’immensità, l’eternità di Dio. egli confessa d’essere mortale, e d’essere una scintilla di Dio; questi, dunque, non è certamente il Demonio che parla, poiché il Demonio è immortale, né Dio lo costringerebbe a dire di non essere tale. Già si è deciso che Satanasso non s’apparta mai da’ suoi interessi. Or è questa la maniera di farsi adorare, dicendo che non ci è se non un solo Dio? Egli dice che è mortale: da quanto in qua il Diavolo è così umile, che da se medesimo si spoglia delle sue qualità naturali? Vedete dunque, figliuol mio, che, laddove il principio di colui che si chiama per eccellenza il Dio delle Scienze sussista, non può essere il Demonio quegli che ha parlato negli oracoli.
Ma se non è ‘l Demonio (gli dissi), o che mentisca per leggiadria quando si dice mortale, o che dica il vero per forza quando parla di Dio, a che mai dunque la vostra cabala attribuirà tutti gli oracoli che voi sostenete essere stati effettivamente renduti? Forse all’esalazione della terra, siccome Aristotele, Cicerone e Plutarco?
Oh, non già, figliuol mio (disse il Conte). Grazie alla sacra Cabala io non ho l’immaginazione guasta fino a questo punto.
Come! (replicai), reputate forse quest’opinione molto fanatica? I suoi sostenitori sono per altro gente di buon senso.
Non sono tali, figliuol mio, in questo punto (egli continuò), ed è impossibile d’attribuire alla suddetta esalazione tutto ciò che è accaduto negli oracoli. A cagion d’esempio, quell’uomo presso Tacito il quale appariva in sogno a’ sacerdoti d’un tempio d’Ercole in Armenia, e ‘l quale comandava loro che gli tenessero pronti alquanti corsieri arredati per la caccia. Fin qui potrebbe essere l’esalazione: ma quando questi corsieri ritornavano la sera tutto faticati, e i turcassi vuoti di frecce, e l’ domani si trovavano altrettante bestie morte nella foresta quante frecce si erano poste nel turcasso, voi ben vedete che non potea essere l’esalazione quella che facea quest’effetto. Molto meno era il Diavolo, poiché sarebbe una aver poco ragionevole e cabalistica cognizione della disgrazia del nemico di Dio il credere che gli fosse permesso di divertirsi a correre le cerva e ‘l lepre.
A qual cosa dunque la sacra cabala (gli dissi) attribuisce tutto ciò?
Udite (egli rispose). Innanzi di scoprirvi questo misterio bisogna bene che io guarisca la vostra mente dalla prevenzione nella quale potreste essere per questa pretesa esalazione; giacché mi pare che avete citato con enfasi Aristotele, Plutarco e Cicerone. Potevate anche citare Giamblico, il quale, per quanto grande uomo si fosse, fu per qualche tempo in quest’errore, cui per altro lasciò subito che ebbe esaminata la cosa da vicino nel libro de’ misteri. Pietro d’Apone, Pomponazzo, Levinio, Sirenio e Lucilio Vanino mostrano gran piacere d’avere osservata questa uscita in alcuni antichi. Tutti i suddetti pretesi spiriti forti, i quali, quando parlano delle cose divine, dicono piuttosto quel che desiderano che non quello che sanno, non vogliono confessar cosa alcuna di sovrumano negli oracoli, per tema di riconoscere qualche cosa al di sopra dell’uomo. Essi temono che non si faccia loro una scala per salire fino a Dio, cui han paura di conoscere per mezzo de’ gradi delle creature spirituali; e si contentano meglio di farsene una per discendere al niente; in vece d’innalzarsi verso il cielo, scavano la terra, e in vece di ricercare negli esseri superiori all’uomo la cagione di que’ trasporti che ‘l sollevano al di sopra di se stesso e lo rendono una specie di divinità; essi attribuiscono follemente all’esalazioni impotenti questa forza di penetrare nell’avvenire, discoprire le cose occulte, d’inalzarsi fino a’ più alti segreti dell’essenza divina.
Tal’è la miseria dell’uomo quando vien posseduto dallo spirito di contraddizione e dal capriccio di pensare altramente dagli altri! In vece di pervenire a’ suoi intenti, si confonde e s’impastoja. Codesti libertini non voglio sottomettere l’uomo a sostanze meno materiali di lui e ‘l sottomettono a un’esalazione; e senza considerare che non ci ha alcuna connessione tra cotesto chimerico fumo e l’anima dell’uomo, tra cotesto vapore e le cose future, tra cotesta ragione frivola e quegli effetti miracolosi; basta loro d’essere singolari per credersi ragionevoli. È soverchio per essi il negare gli spiriti e lo spacciarsi per ispiriti forti.
La singolarità dunque molto vi spiace, signore (l’interruppi).
Ah! Figliuol mio (mi disse), quest’è la peste del buon senso, è la pietra d’inciampo de’ più sublimi ingegni. Aristotele, comeché gran logico, non ha saputo campare dal lacciuolo nel quale la fantasia della singolarità fa cadere coloro che sono da essa così violentemente invasati come egli fu; non ha saputo campare, dico, dal confondersi e dal contraddirsi. Egli dice nel libro della Generazione degli Animali, e ne’ suoi Morali, che la mente e l’intendimento dell’uomo gli provengono da fuori, e che non ci possono venire da’ genitori; e, attesa la spiritualità delle operazioni della nostra anima, conchiude essere ella d’una natura tutt’altra da quella di questo composto materiale che informa, e la cui rozzezza serve per offuscare le speculazioni, anzi che contribuire alla loro produzione.
Cieco Aristotele! Poiché secondo voi il nostro composto materiale non può essere l’origine de’ nostri pensieri spirituali, come mai intendete che una debole esalazione possa essere la cagione de’ sublimi pensieri e dell’estro de’ Pitiani che rendono gli oracoli? Voi ben vedete, figliuol mio, che questo spirito forte si contraddice, e che la sua singolarità lo fa smarrire.
Voi ragionate con somma giustezza, signore (gli dissi, sorpreso dal vedere effettivamente che egli parlava con ottimo raziocinio, e sperando che la sua follia non sarebbe un male incurabile). Dio voglia che…
Plutarco, sì serio per altro (egli soggiunse interrompendomi) fa compassione nel suo Dialogo Perché gli oracoli son cessati. Egli si fa certe objezioni convincenti, che poi non iscioglie. Perché non risponde egli dunque a quel che gli si dice, che se è l’esalazione quella che cagiona quel trasporto, tutti coloro i quali s’accostano alla tripode fatidica sarebbero sorpresi dall’entusiasmo, e non già una sola donzella che, in oltre, dee esser vergine? Ma come mai il suddetto vapore può articolar le voci col ventre? Di più cotesta esalazione è una cagione naturale e necessaria, la quale dee fare il suo effetto regolarmente e sempre; perché dunque la suddetta vergine non è mai agitata se non quando s’interroga? E, quel che più importa perché mai la terra ha cessato di mandar fuori cotesti vapori divini? Non è forse più quella terra che prima era? Riceve essa altre influenze? Contiene altri mari e altri fiumi? Chi ha dunque così otturati i suoi pori, o cambiata la sua natura?
Io ammiro come Pomponazzo, Lucillo e gli altri Libertini abbiano presa l’idea di Plutarco ed abbiano abbandonata la maniera colla quale egli si spiega. Egli avea parlato più giudiciosamente di Cicerone e d’Aristotele. Essendo uomo d’ottimo senso e non sapendo che conchiudere per rispetto di tutti questi oracoli, dopo una tediosa irresoluzione si era fissato nel sostenere che quell’esalazione, la quale credea che uscisse dalla terra, era uno spirito divinissimo; per questa guisa attribuiva alla Divinità que’ movimenti e que’ lumi straordinari delle sacerdotesse d’Apollo.
Quel vapore divinatorio (egli dice) è un fiato e uno spirito santissimo e divinissimo.
Pomponazzo, Lucillo e gli atei moderni, non s’accomodano a queste maniere di parlare, le quali suppongono la Divinità. Quelle esalazioni (essi dicono) erano della natura de’ vapori che infestano gli Atrabilari, i quali parlano linguaggi che non intendono. Ma Fernel confuta ottimamente cotesti empj provando che la bile, essendo un vapore peccante, non può cagionare quella diversità di linguaggi che è uno de’ più meravigliosi effetti della considerazione, e un’espressione artifiziale de’ nostri pensieri. Egli però ha decisa la cosa imperfettamente quando si è conformato a Psello e a tutti coloro che non son penetrati troppo innanzi nella nostra santa filosofia. Non sapendo d’onde riconoscere le cagioni di effetti sì sorprendenti, ha fatto come le femine e i frati, e le ha attribuite al Demonio.
A chi dunque dovranno attribuirsi? (gli dissi). È gran tempo che aspetto questo segreto cabalistico.
Lo stesso Plutarco l’ha ottimamente osservato (egli mi disse), e avrebbe fatto bene d’attenercisi. Quella irregolar maniera di spiegarsi per mezzo d’un organo indecente non essendo bastantemente propia, né degna maestà di Dio (così il suddetto pagano la discorre) ed altronde, quel che gli oracoli diceano trascendendo le forze dell’anima dell’uomo, han renduto un gran servizio alla filosofia coloro i quali hanno stabilite alcune creature mortali tra gli dei e l’uomo, alle quali si può attribuire tutto ciò che sorpassa la debolezza umana e che non conviene alla grandezza divina.
Quest’è l’opinione di tutta l’antica filosofia. I Platonici, i Pitagorici l’aveano presa dagli Egizi, e costoro da Gioseffo il Salvatore e dagli Ebrei che abitavano in Egitto innanzi del passaggio del Mar Rosso. Gli Ebrei chiamavano le suddette sostanze, le quali sono tra l’angelo e l’uomo, Sadaim, e i Greci, trasponendo le sillabe, e aggiugnendovi una lettera, le hanno chiamate Daimonas. Questo demonj sono presso gli antichi filosofi gente aerea, dominante su gli elementi, mortale, generante, sconosciuta in questo secolo a coloro che poco cercano la verità nella sua antica sede, vale a dire nella cabala e nella teologia degli Ebrei, i quali aveano presso di loro l’arte particolare di discorrere con questa nazione aerea e di conversare con tutti questi abitanti dell’aria.
Eccovi (l’interruppi) ritornato di nuovo, signore, per quel che mi pare, a’ vostri Silfi.
Si figliuol mio (egli proseguì): Il Terafimo de’ Giudei altro non era se non la ceremonia che bisognava osservare per questo commercio; e quel giudeo Mica, il quale si lagna, nel Libro De’ Giudici d’essergli stati rapiti i suoi dei, di niuna cosa più si duole che della perdita di quella picciola statua nella quale i Silfi gli parlavano. Gli dei che Rachele rubò a suo padre, erano pur anche un Terafimo. Né Mica, né Labano sono accagionati d’idolatria, e Giacobbe si sarebbe ben guardato di convivere per quattordici anni con un idolatra, e molto più di sposarne la figliuola: era un puro commercio di Silfi, e noi sappiamo per tradizione che nella Sinagoga il suddetto commercio era permesso, e che l’idolo della moglie di Davide era appunto il Terafimo per mezzo del quale ella ragionava co’ popoli elementari, poiché giudicate voi se ‘l profeta del cuore di Dio avrebbe sofferta l’idolatria in sua casa.
Queste nazioni elementari, finatantoché Iddio trascurò la salvezza del mondo in pena del primo peccato, si prendean piacere di spiegare agli uomini negli oracoli ciò che esse sapeano di Dio, d’insegnar loro a vivere moralmente, di dar loro prudentissimi e utilissimi consigli secondo che in gran numero s’osservano presso Plutarco e in tutti gli storici. Da che poi Iddio ebbe pietà del mondo e volle divenire egli medesimo il suo dottore, questi piccioli maestri si ritirarono. Di là venne il silenzio degli oracoli.
Da tutto il vostro discorso dunque (io ripigliai) si ricava, signore, che certamente ci sono stati gli oracoli e che quelli che gli rendeano erano i Silfi, i quali son pure coloro che gli rendono tuttavia ne’ vasi di vetro o negli specchi?
I Silfi, o le Salamadre, gli Gnomi o gli Ondini (replicò il Conte).
Se così è, signore (soggiunsi), tutti i vostri popoli elementari sono scostumatissimi.
Perché mai? (egli disse).
E si può dare più scelerata cosa (io continuai) di tutte quelle risposte di doppio senso che esse sempre davano?
Sempre! (replicò). Ah! Non sempre. Quella silfa la quale apparve a quel romano e gli predisse che ci ritornarebbe un giorno colla dignità di Proconsolo, parlò forse oscuramente? Non dice Tacito che la cosa accadde secondo che era stata predetta? Quella iscrizione e quelle famose statue nella Storia di Spagna, le quali fecero sapere al disgraziato re Rodrigo che la sua curiosità e la sua incontinenza sarebbero punite da uomini vestiti e armati nella stessa guisa che esse erano, e che i suddetti uomini negri s’impadronirebbero della Spagna e ci regnerebbero lungamente, poteano dir tutto ciò più chiaro? E ‘l successo nol verificò nello stesso anno? I Mori non vennero forse a cacciar dal trono quell’effeminato re? Voi ben ne sapete la storia, e ben vedete che il Diavolo, il quale dopo il regno del Messia non dispose più degli imperj, non ha potuto essere l’autore del suddetto oracolo; e che è stato sicuramente qualche gran cabalista, il quale l’avea saputo da qualche salamandra delle più dotte: poiché le Salamandre, amando molto la castità, volentieri ci rivelano le disgrazie che devono accadere nel mondo per l’inosservanza di questa virtù.
Ma signore (gli dissi), vi par dunque molto casto e molto degno del pudore cabalistico quell’organo eteroclito del quale si servivano per predicare la loro morale?
Ah! Per questa volta (disse il Conte ridendo) voi avete l’immaginazione guasta e non conoscete la fisica ragione per la qual la salamandra infiammata si compiace naturalmente de’ luoghi i più ignei, ed è tratta dal…
Intendo, intendo (l’interruppi), non vi pigliate l’incomodo di spiegarvi più a lungo.
Quanto all’oscurità di alcuni oracoli (continuò a dirmi seriamente) che voi chiamate sceleratezza, non sono forse le tenebre l’abito ordinario della verità? Non si compiace Dio di nascondersi sotto l’oscuro loro velo? E ‘l perenne oracolo, che egli ha lasciato a’ suoi figliuoli, cioè la Divina Scrittura, non è forse involto in un’adorabile oscurità, la quale confonde e fa smarrire i superbi, non altrimenti che la sua luce guida gli umili?
Se non avete altra difficoltà che questa, figliuol mio, vi consiglio a non differire d’entrare in commercio co’ popoli elementari. Gli troverete onestissimi, sapienti, benefici, timorati di Dio. E son di parere che cominciate dalle Salamandre, perché voi avete un Marte nell’alto de cielo nella vostra figura, che vuol dire che ci ha molto fuoco in tutte le vostre azioni. E pel maritaggio stimerei che vi pigliate una Silfa: voi sarete più felice con essa che non colle altre, giacché avete Giove alla punta del vostro ascendente, cui Venere risguarda da un sestile. Or Giove presiede all’aria e a’ popoli dell’aria. Tuttavia bisogna che vi consigliate col vostro cuore su questo punto, imperocché siccome vedrete un giorno, il savio si regola con gli astri interiori, e gli astri del cielo esteriore servono solo per fargli conoscere con maggior sicurezza gli aspetti degli astri del cielo interiore che è in ciascuna creatura. Sicché a voi s’appartiene di dirmi ora quale sia la vostra inclinazione, affinché possiamo procedere al vostro parentado con que’ popoli elementari che più vi piacciono.
Signore (gli risposi), quest’affare, per quel che io ne giudico, esige un poco di riflessione.
Io formo grande opinione di voi per questa risposta (egli mi disse mettendomi la mano sulla spalla). Considerate questa faccenda, e sopra tutto domandatene consiglio a colui il quale si chiama per eccellenza l’Angelo del gran Consiglio: andate a mettervi in orazione, e io verrò domane a casa vostra due ore dopo mezzodì.
Ritornammo a Parigi: io durante il cammino lo ricondussi sul discorso contra gli atei e i Libertini: né ho mai inteso sì ben ragionare, nè dir cose più alte e più forti a pro dell’esistenza di Dio e contra la cecità di coloro i quali passano la lor vita senza darsi interamente a un culto serio e continuo verso di colui che ci ha dato e ci conserva l’essere. Io era sorpreso dalla meraviglia pel carattere di quest’uomo, e non potea comprendere come mai potesse egli essere a un tempo medesimo così forte e così debole, così ammirabile e così ridicolo.

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NOTE:

(a) Lettera IX
(b) Veggasi il suo trattato stampato in Londra nel 1716.