Pagina on-Line dal 12/05/2012
PARTE SECONDA
RAGIONAMENTO QUARTO.
Aspettai in casa il signor Conte di Gabalì, secondo che avevamo insieme stabilito nello scompagnarci. Egli venne all’ora prefissa, e, accostandomisi con volto ridente, e ben figliuolo mio (mi disse) per quale specie di popoli invisibili vi dà Iddio maggiore inclinazione, e qual parentado vorrete meglio: quello delle Salamandre, o delle Gnome, delle Ninfe o delle Silfe?
Non mi sono interamente ancora risoluto, signore, al suddetto maritaggio (gli replicai).
E da che mai dipende? (egli ripigliò).
Signore, a dirvela liberamente (gli soggiunsi) io non posso guarire la mia immaginazione: essa mi rappresenta sempre questi pretesi ospiti degli elementi come tanti terzuoli del Diavolo.
O signore (egli esclamò), o dio della luce, dissipate le tenebre che l’ignoranza e la perversa educazione hanno sparso nella mente di quest’Eletto, da voi destinato a sì gran cose, secondo che m’avete fatto conoscere. E voi, figliuol mio, non chiudete l’uscio alla verità che vuole entrare in vostra casa; siate docile. Ma no, vi dispenso dall’esser tale, poiché si fa grande ingiuria alla verità faccendole la strada. Ella sa sforzare le porte di ferro ed entrare dove le piace, mal grado tutta la resistenza della menzogna. Che mai potete voi opporle? Forse che Dio non ha potuto creare negli elementi queste sostanze, secondo che io ve l’ho dipinte?
Io non ho esaminato (gli dissi) se ci ha impossibilità nella cosa medesima; se un solo elemento possa somministrare e sangue e carne ed ossa, se possa darsi un temperamento senza mescolanza e azione senza contrarietà: ma, supposto che dio abbia potuto farlo, qual soda pruova ci ha mai ch’egli l’abbia fatto?
Volete esserne voi convinto in istante (ripigliò) senza tante ceremonie? Or farò venire i Silfi di Cardano: sentirete di lor propia boca ciò che io ve n’ho spiegato.
Oh questo no, signore (io bruscamente esclamai). Differite di grazie, ve ne scongiuro, questa sorta di pruova, finattantoché sia persuaso che cotesta gente non è nemica di Dio, poiché frattanto io vorrei meglio morire che fare il torto alla mia coscienza di…
Ecco, ecco l’ignoranza e la falsa pietà di questi tempi infelici (m’interruppe il Conte con un’aria di collera). E perché non si scancella dal calendario de’ Santi il più grande degli anacoreti? E perché non si bruciano le sue statue? Pur è gran cosa che non s’insultino le sue ceneri venerabili e che non si dispergano al vento, siccome si farebbe delle ceneri di que’ disgraziati i quali sono accusati di avere avuto commercio co’ demonj! Ha egli pensato mai d’esorcizare i Silfi? Non gli ha forse trattati da uomini? Che avete a dire a questo, messer lo scrupoloso, voi e tutti i vostri meschini dottori? Il silfo che ragionò intorno alla sua natura al suddetto patriarca, che vi pare, era egli un terzuolo del Demonio? O forse quell’uomo incomparabile parlò dell’Evangelio con un Folletto? L’accuserete voi d’averne profanati i Misteri adorabili, discorrendone con un fantasma nemico di Dio? Attanasio, dunque, e Girolamo, sono indegnissimi del gran nome che hanno tra vostri sapienti per aver scritto con tanta eloquenza l’elogio d’un uomo che trattava i diavoli sì umanamente. Se essi avessero preso il suddetto silfo per un diavolo, bisognava o celare del tutto l’avvenimento, o almeno quella predica in ispirito, o sia quell’apostrofe sì patetica che l’anacoreta più zelante e più credulo di voi fece alla città di Alessandria: e se l’hanno preso per una creatura partecipante, siccome l’assicurava, della Redenzione, così come noi, e se quell’apparizione fu per loro avviso una grazia straordinaria fatta da Dio al Santo di cui essi scrivono la vita, pretenderete voi di essere più dotto d’Attanasio e di Girolamo, e più santo del divino Antonio? Che avreste voi detto a quell’uomo ammirabile se foste stato nel numero di quei dieci mila solitarj a’ quali egli raccontò il colloquio che poco prima avea avuto col Silfo? Più saggio e più illuminato di tutti quegli angeli terrestri avreste senza dubbio dimostrata al S. Abate che tutta la sua avventura altro non era che una pura illusione, e avreste dissuaso il suo discepolo Attanasio dal far sapere a tutta la terra una storia sì poco conforme alla Religione, alla filosofia e al senso comune. Non è vero?
E’ vero (gli dissi): sarei stato di parere o di non parlarne affatto o di dirne qualche altra cosa da vantaggio.
Attanasio e Girolamo (egli ripigliò) non pensarono a dirne da vantaggio perché non ne sapeano altro: e quando anche avessero saputo il tutto (la qual cosa è impossibile a chi non è dei nostri) non avrebbero divolgati temerariamente i segreti della sapienza.
Ma perché mai (replicai), il suddetto silfo non propose a S. Antonio quel che voi oggi mi proponete?
Cosa? (disse il Conte ridendo). Il maritaggio? Ah! Sarebbe stato molto a proposito!
È vero (gli soggiunsi), che apparentemente il buon uomo non avrebbe accettato il partito.
No certamente (disse il Conte) poiché il maritarsi in quell’età, e ‘l domandare a Dio de’ figliuoli sarebbe stato un tentarlo.
Come! (replicai), s’imparenta coi Silfi per averne de’ figliuoli?
E perché dunque (egli disse). È forse permesso mai di maritarsi per altro fine?
Io non pensava (gli risposi) che ne pretendesse discendenza, e credea solamente che ‘l tutto servisse per immortalare le silfe.
Ah, avete torto (egli continuò). La carità de’ filosofi fa che essi si propongano per fine l’immortalità delle silfe; ma la natura fa che desiderino di vederle feconde. Vedrete, sempre che vi piacerà, nell’aria queste famiglie filosofiche. Felice il mondo se non vi fossero altre famiglie che queste, e non vi nascessero i figliuoli del peccato!
Quali, signore, chiamate figliuoli del peccato? (l’interruppi).
Tutti quelli, figliuol mio (egli proseguì), tutti quelli i quali nascono per la via ordinaria; figliuoli conceputi per la volontà della carne, e non per la volontà di Dio, figliuoli d’ira e di maledizione; in una parola, figliuoli dell’uomo e della donna. Ma voi avete voglia d’interrompermi. E ben veggo quel che vorreste dirmi. Si figliuol mio, sappiate che non fu mai volontà del Signore che l’uomo e la donna avessero de’ figliuoli in quella guisa che essi gli hanno. Il disegno del Sapientissimo artefice era molto più nobile: egli volea ben altrimenti popolare il mondo. Se ‘l miserabile Adamo non avesse rozzamente disubbidito all’ordine che avea ricevuto da Dio di non toccare Eva, e si fosse contentato di tutto il resto de’ frutti del Giardino del piacere, cioè di tutte le bellezze delle ninfe e delle silfe, il mondo non avrebbe avuta la vergogna di vedersi pieno di uomini sì imperfetti, che possono reputarsi mostri in confronto de’ figliuoli de’ filosofi.
Come signore (gli dissi), voi, a quel che vedo, credete che ‘l delitto di Adamo tutt’altro sia che l’aversi mangiato il pomo.
Che, figliuol mio (ripigliò il Conte) siete voi forse del numero di coloro i quali hanno la semplicità di prendere la storia del pomo litteralmente? Ah! Sappiate che la lingua sacra usa queste innocenti metafore per allontanare da noi l’idee poco oneste di un’azione che ha cagionate tutte le difficoltà del genere umano. Così pure quando Salomone dicea io voglio montare sulla palma e voglio coglierne la frutta, egli avea altro appetito che quello di mangiar datteri. Questo linguaggio che gli angeli consacrano, e del quale si servono per cantare degl’inni al Dio vivente, non ha termine propio per esprimere quella cosa che essa nomina figuratamente, chiamandola pomo o dattero. Ma il savio dicifera facilmente queste caste figure. Vedendo egli che ‘l gusto e la bocca d’Eva non ricevono alcun castigo, e che ella partorisce con dolore, comprende tosto che non è il gusto quello che ha peccato; e dalla sollecitudine che ebbero i primi peccatori di coprirsi colle foglie certe parti del loro corpo, scoprendo qual fu il primo peccato, conchiude agevolmente che Dio non volea che gli uomini si fossero moltiplicati per così vile mezzo. Oh Adamo! Tu non dovevi generare se non uomini a te simili, o eroi o giganti!
E quale espediente avea egli (io l’interruppi) per l’una o per l’altra di queste maravigliose generazioni? Obbedire a Dio (replicò), non toccare altra se non che ninfe, gnome, silfi o salamandre. Per questa guisa egli avrebbe veduto nascere solamente degli eroi; e l’universo sarebbe stato popolato da genti tutte maravigliose e piene di forza e di sapienza. Dio ha voluto far congetturare la differenza che ci sarebbe stata tra ‘l mondo innocente e ‘l mondo colpevole, cui oggi vediamo, permettendo che, di tempo in tempo, si vedessero dei figliuoli nati nella maniera che egli avea progettata.
Se n’è dunque talvolta, signore (gli dissi), veduto qualcun o di cotesti figliuoli degli elementi? E un dottore della Sorbona, il quale mi citava l’altro giorno S. Agostino, S. Giorolamo e S. Gregorio Nazianzeno, si è dunque ingannato credendo che non potesse nascere alcun frutto dagli amoreggiamenti degli spiriti colle nostre donne, o dal commercio che possono avere gli uomini con certi demonj che egli chiamava Ifialti?
Ha meglio ragionato Lattanzio (ripigliò il Conte), e ‘l profondo Tommaso d’Aquino ha saggiamente conchiuso che non solo questi commerci possono essere fecondi, ma che i figliuoli che ne nascono sono d’una natura molto più generosa ed eroica. E di fatto leggerete, sempre che vi piaccia, gli eccelsi fatti di quegli uomini potenti e famosi che Mosè dice esser nati in questa guisa. Noi n’abbiamo le storie presso noi nel libro delle Guerre del Signore citato nel vigesimo terzo capitolo de’ Numeri. Frattanto immaginate cosa sarebbe il mondo se tutti i suoi abitanti rassomigliassero, a cagion d’esempio, a Zoroastro.
Zoroastro (gli dissi), che si dice essere stato l’autore della negromanzia?
Egli è desso appunto (soggiunse il Conte) contra il quale gl’ignoranti hanno scritta questa calunnia. Egli avea l’onore d’essere figliuolo del salamandro Oromasio e di Vesta, moglie di Noé. Egli visse mille e dugento anni, come il più saggio monarca del mondo, e dopo fu portato dal suo padre Oromasio nella Regione delle Salamandre.
Io non metto in dubbio (gli dissi) che Zoroastro sia col salamandro Oromasio nella regione del Fuoco; ma non vorrei fare a Noé l’oltraggio che gli fate.
L’oltraggio non è tanto grande quanto forse potrete credere (ripigliò il Conte). Tutti que’ patriarchi reputavano lor grande onore l’esser padri putativi di que’ figliuoli, che i figliuoli di Dio voleano avere dalle loro mogli: ma questo è ancora tropo arduo per voi. Ritorniamo ad Oromasio: egli fu amato da Vesta moglie di Noé. La suddetta Vesta essendo poi morta, divenne il genio tutelare di Roma, e ‘l fuoco sacro, cui ella volea che alquante vergini conservassero con tanta cura, era in onore del salamandro suo amante. Oltre a Zoroastro nacque dal loro amore una figliuola d’una bellezza rara e d’una sapienza estrema: questa fu la divina Egeria, dalla quale Numa Pompilio ricevette tutte le sue leggi. Ella obbligò il suddetto Numa, cui amava, a fare innalzare un tempio a Vesta sua madre, nel quale si mantenesse il fuoco sacro in onore del suo padre Oromasio. Ecco la verità della favola che i poeti e storici romani han raccontata della suddetta ninfa Egeria. Guglielmo Postel, il meno ignorante di tutti coloro i quali hanno studiata la Cabala ne’ libri ordinarj, ha saputo che Vesta era moglie di Noé, ma ha ignorato che Egeria fosse figliuola di questa Vesta; e non avendo letti i libri segreti dell’antica Cabala, de’ quali il principe della Mirandola comperò a sì caro prezzo un solo esemplare, ha conchiuse le cose e ha creduto solamente che Egeria era il Genio buono della moglie di Noé.
Noi troviamo in questi libri che Egeria fu conceputa sull’acqua, allora che Noé errava fra le onde vendicatrici che inondavano l’universo: le donne erano allora ridotte a quel picciolo numero che se ne salvò nell’Arca Cabalistica che questo secondo padre del mondo avea fabbricata: il grande uomo, dolentissimo del vedere il formidabile gastigo col quale il Signore puniva le colpe cagionate dall’amore che Adamo avea avuto per la sua Eva, e vedendo che Adamo avea rovinata la sua posterità col preferire Eva alle figliuole degli Elementi, togliendola a colui tra i salamandri o silfi, il quale avesse saputo farsi amare da lei; Noé, dico, divenuto saggio per l’esempio funesto d’Adamo, consentì che Vesta sua moglie si dasse al Salamandro Oromasio principe delle sostanze ignee, e persuase i suoi tre figliuoli a cedere altresì le loro tre mogli a’ principi degli altri tre elementi. L’universo fu in poco tempo ripopolato di uomini eroici sì dotti, sì belli e sì ammirabili, che i loro posteri, abbagliati dalle loro virtù gli hanno presi per divinità. Uno de’ figliuoli di Noé, ribellandosi dal consiglio di suo padre, non poté resistere a’ vezzi della sua moglie non altrimenti che Adamo non seppe resistere agli allettamenti della sua Eva: ma siccome il peccato di Adamo avea macchiate tutte le anime de’ suoi discendenti, così la poca compiacenza che Kam ebbe per le silfe, contrassegnò tutta la sua negra posterità. Di quà viene (dicono i nostri cabalisti) l’orribile carnagione degli Etiopi e di tutti que’ popoli irsuti, a’ quali è comandato di abitare sotto la zona torrida in gastigo del profano ardore del loro padre.
Oh, concetti veramente particolari! Signore (gli dissi ammirando la stravaganza dell’uomo), la vostra cabala è d’un uso maraviglioso per rischiarare l’antichità.
Maraviglioso certamente (egli ripigliò con gravità) e senza di essa la scrittura, la storia, la favola e la natura sono oscure e inintelligibili. Voi credete, a cagion d’esempio, che l’ingiuria che Kam fece a suo padre sia quella che litteralmente apparisce; ma in verità è tutt’altra. Noé, dopo la sua uscita dall’arca, vedendo che Vesta sua moglie di dì in dì crescea in bellezza pel commercio che avea col suo amante Oromasio, ritornò innamorato di lei. Kam, temendo che suo padre non fosse ancora per popolar la terra di figliuoli così negri come i suoi etiopi, colse il tempo, un giorno che ‘l buon vecchio era pieno di vino, e ‘l castrò senza misericordia. Voi ridete?
Io rido del zelo indiscreto di Kam (gli dissi).
Bisogna piuttosto ammirare (replicò il Conte) l’onestà del salamandro Oromasio, cui la gelosia non impedì d’aver pietà della disgrazia del suo rivale. Egli insegnò al suo figliuolo Zoroastro, nominato altrimente Giafet, quel nome di Dio onnipotente il quale esprime la sua eterna fecondità. Giafet pronunziò sei volte alternativamente col suo fratello Sem, rinculando verso il patriarca, il nome tremendo Jabamiah, e per questa guisa fecero tornare intero il vecchio. Questa storia male intesa ha fatto dire a’ Greci che ‘l più vecchio degli dei era stato castrato da uno de’ suoi figliuoli: ma questa è la verità della cosa. Dal che potete ben vedere quanto la morale de’ popoli del fuoco sia più umana della nostra, e anche di quella de’ popoli dell’aria o dell’acqua, poiché la gelosia di costoro è crudele, siccome il divino Paracelso ce l’ha fatto vedere in un’avventura che egli racconta e che è stata veduta da tutta la città di Stauffenberg. Un filosofo, col quale una ninfa era entrata in commercio d’immortalità, fu tanto scortese uomo che s’innamorò d’una donna. Mentre egli era a mensa colla sua novella innamorata e alcuni suoi amici, apparve nell’aria la più bella coscia che potesse mai vedersi; l’invisibile amante volle mostrarla agli amici del suo infedele, perché essi giudicassero sul torto che egli avea di preferirle una donna. Dopo di che la ninfa sdegnata lo fece immantinente cader morto.
Ah! Signore (esclamai), quest’avvenimento potrebbe non poco alienarmi da codeste amanti sì dilicate.
Io confesso (replicommi) che la loro dilicatezza è alquanto violenta: ma se tra le nostre donne si sono vedute amanti irritate ammazzare i loro innamorati spergiuri, non dee far maraviglia che le suddette amanti sì belle e sì’ fedeli montino in collera quando sono tradite; tanto maggiormente che esse non esiggono dagli uomini se non solamente che s’astengano dalle donne, i cui difetti non possono soffrire, e che ci permettano d’amarne tra di loro quante ce ne piacciono. Esse antepongono l’interesse e l’immortalità delle loro compagne alla propia particolar soddisfazione, e sommamente godono che i Savj diano alla loro republica tanti figliuoli immortali quanti dargliene possano.
Ma alla per fine (io ripigliai) donde proviene che si abbiano sì pochi esempj di tutto questo che mi dite?
Ce ne ha un gran numero, figliuol mio (egli continuò), ma non ci si fa riflessione o non ci si crede, o finalmente si spiegano male per non saper conoscere i nostri principj. S’attribuisce a’ demoni tutto quel che si dovrebbe attribuire a’ popoli degli elementi. Un picciolo gnomo si fa amare dalla celebre Maddalena della Croce, badessa d’un monasterio di Cordova in Ispagna; ella lo rende felice dall’età di dodici anni e continuano il loro commercio per lo spazio di trenta. Un direttore ignorante persuade a Maddalena che ‘l suo amante è un folletto, e l’obbliga a domandarne l’assoluzione al papa Paolo III. Or è impossibile che egli fosse un demonio, poiché tutta l’Europa ha saputo, e Cassiodoro Renio ha voluto tramandare a’ posteri, il miracolo che giornalmente si facea in grazia della santa donzella; la qual cosa non sarebbe apparentemente addivenuta se ‘l suo commercio collo gnomo fosse stato tanto diabolico quanto il venerabile direttore l’immaginava. Costui avrebbe anche arditamente detto, se non m’inganno, che ‘l silfo che s’immortalizzava colla giovane Gertrude, religiosa del monastero di Nazaret nella diocesi di Colonia, era qualche diavolo.
Sicuramente (gli dissi), e così pure credo io.
Ah! Figliuol mio (proseguì il Conte ridendo), se è così il Diavolo non è mica infelice, potendo mantener commercio amoroso con una donzella di tredici anni e scriverle que’ teneri biglietti che furono trovati nella sua cassettina.
Credete, figliuol mio, credete che pure ‘l Demonio nella regione della morte ha delle occupazioni più tetre e più conformi all’odio che serba contra lui il Dio della purità: ma ecco come avviene che volontariamente si travede. Si trova, a cagion d’esempio, in Tito Livio, che Romolo era figliuolo di Marte: gli spiriti forti dicono esser questa una favola; i teologi che egli era figliuolo d’un diavolo incubo; i begli umori che Madamigella Silvia avea perduto i suoi guanti, e volle coprirne lo scorno con dire che un Dio ce gli avea rubati. Noi che conosciamo la natura e che siamo stati da Dio chiamati dalle suddette tenebre alla sua ammirabile luce, sappiamo che quel preteso marte era un salamandro il quale, innamoratosi della giovane Silvia, la rendette madre del gran Romolo, quest’eroe il quale, dopo aver fondata la sua superba città, fu rapito da suo padre in un carro infiammato, appunto come fu rapito Zoroastro da Oromasio.
Un altro salamandro fu padre di Servio Tullio. Tito Livio dice esser stato il dio del fuoco, ingannato forse dalla somiglianza; e gl’ignoranti n’han fatto lo stesso giudicio che del padre di Romolo. Il famoso Ercole, l’invincibile Alessandro, erano figliuoli del più grande de’ silfi. Gli storici non intendendolo han detto che il loro padre era Giove, e diceano il vero, poiché, siccome avete inteso, i suddetti Silfi, le Ninfe e Salamandre, essendosi fatte stimare per divinità, gli storici, che tali gli credeano, chiamavano dèi tutti coloro i quali da essi nasceano.
Tal fu il divino Platone, il più divino Apollonio Tianeo, Ercole, Achille, Sarpedone, il pietoso Enea e ‘l famoso Melchisedec; imperocché sapete voi chi fu ‘l padre di Melchisedec?
No certamente (gli dissi), non sapendolo neppure S. Paolo.
Dite piuttosto che egli non lo dicea (ripigliò il Conte), e che non gli era permesso di rivelare i misterj cabalistici. Del resto egli ben sapea che ‘l padre di Melchisedec era un silfo, e che questo re di Salem fu conceputo nell’arca della moglie di Sem. La maniera di sacrificare del suddetto pontefice era la stessa che quella cui la sua cugina Egeria insegnò al re Numa, siccome pure l’adorazione d’una sovrana divinità senza immagine e senza statua: per la qual cosa i Romani, divenuti poi dopo qualche tempo idolatri, bruciarono i santi libri di Numa che Egeria avea dettati. Il primo dio de’ Romani era il vero Dio, e ‘l loro sacrifizio era il vero: essi offerivano del pane e del vino al Sovrano Padrone del mondo; ma tutto questo si pervertì poi. Con tutto ciò Iddio non lasciò di dare alla loro città, la quale avea riconosciuta la sua Sovranità, l’imperio dell’universo in ricompensa di quel primo culto. Lo stesso sacrifizio che Melchisedec…
Signore (io l’interruppi) lasciamo da parte, di grazia, vi prego, Melchisedec, il silfo che lo generò, la sua cugina Egeria, e ‘l sacrifizio del pane e del vino. Queste pruove mi paiono alquanto remote, e mi fareste un gran favore se mi contaste novelle più fresche, poiché io ho udito dire a un dottore a cui si era domandato cosa ne fosse stata degli altri Satiri compagni di quello che apparve a S. Antonio, e che voi avete chiamato silfo; ho udito, dissi, che tutta la suddetta specie di gente è morta al presente. Così i popoli elementari potrebbero anche esser morti, avendogli voi dichiarati mortali, e non avendosene altronde ora alcuna notizia.
Io prego Dio (replicò il Conte con agitazione), io prego dio, cui nulla è ignoto, a non voler conoscere quest’ignorante, il quale sì stoltamente decide quel ch’egli ignora. Dio lo confonda con tutti i suoi simili. Donde ha egli imparato che gli elementi sono diserti, e che tutti questi popoli maravigliosi sono stati distrutti? Se si degnasse di leggere un poco le storie, e di non attribuire al Diavolo, siccome fanno le buone donne, tutto ciò che sorpassa la chimerica teoria che egli si è fatta per rispetto della natura, troverebbe in ogni tempo e in ogni luogo pruove di quel che vi ho detto.
Che direbbe mai il vostro dottore udendo questa storia autentica accaduta non ha guari in Ispagna? Una bella silfa si fece amare da uno spaguolo, visse tre anni con essolui, n’ebbe tre belli figliuoli, e poi morì. Direbbe forse che era un diavolo? Oh, la dotta risposta! Secondo qual fisica il Diavolo può formarsi un corpo di donna, concepire, partorire, lattare? Qual pruova ci ha nella Scrittura di quello stravagante potere che i vostri teologi sono obbligati in questo caso di dare al Demonio? E qual verisimile ragione ne può loro somministrare la debole loro fisica? Il gesuita Delrio, essendo in buona fede, racconta schiettamente molte di queste avventure, e, senza pigliarsi briga delle ragioni fisiche, esce d’intrigo col dire che le suddette silfe erano altrettanti demonj. Vedete se non è pur troppo vero che i vostri più grandi dottori spesse volte non ne sanno più delle semplici donnicciuole, e che piace a Dio di ritrarsi nel suo Trono nugoloso, e che, condensando le tenebre che circondano la sua tremenda maestà, abiti una luce inaccessibile, né lasci vedere le sue verità se non agli umili di cuore. Imparate ad esser umile, figliuol mio, se volete penetrare queste sacre tenebre che circondano la verità. Apprendete da’ Savj a non attribuire a’ demoni alcun potere nella natura, dopo che la pietra fatale li ha richiusi nel pozzo dell’abisso. Imparate da’ Filosofi a cercar sempre le cagioni naturali in tutti gli avvenimenti straordinarj; e quando le ragioni naturali mancano, ricorrete a Dio e a’ suoi santi angeli, e non mai a’ demonj, a’ quali niente altro conviene che ‘l solo patire: altrimenti spesso bestemmierete senza pensarci, e attribuirete al diavolo l’onor e delle più maravigliose opere della natura.
Quando, a cagion d’esempio, vi si dicesse che ‘l divino Apollonio Tianeo fu conceputo senza l’operazione d’alcun uomo, e che uno de’ più belli salamandri discese per immortalarsi con sua madre, voi direste che ‘l suddetto salamandro era un demonio, e dareste al divolo la gloria della generazione del più grande uomo che sia mai uscito da’ nostri filosofici maritaggi.
Ma signore (l’interruppi), quest’Apollonio presso noi è tenuto in conto d’un gran stregone; e questo è tutto il bene che se ne dice.
Ecco (ripigliò il Conte) uno de’ più stupendi effetti dell’ignoranza e della cattiva educazione. Perché si odono dalla propria nutrice le novellette degli stregoni; a tutto ciò che succede di straordinario non si dà altro autore se non il Diavolo. I più grandi dottori possono ragionar quanto vogliono, non saranno creduti se non parlano come le nostre nutrici. Apollonio non è nato per opera d’alcun uomo, intende il linguaggio degli uccelli, è veduto nello stesso giorno in diversi luoghi del mondo, disparisce dalla presenza dell’imperador Domiziano il quale vuol farlo maltrattare, risuscita una donzella per la virtù dell’onomanzia, dice in Efeso in un’adunanza di tutta l’Asia che a quella medesima ora si sta uccidendo il tiranno in Roma. Si tratta di far giudizio di quest’uomo: la nutrice dice, egli è uno stregone. S. Girolamo e S. Giustino martire dicono: egli è un gran filosofo. Girolamo, Giustino e noi altri cabalisti saremo fanatici, la feminuccia la vincerà. Ah! Perisca l’ignorante nella sua ignoranza: ma voi, figliuol mio, salvatevi dal naufragio.
Quando leggerete che ‘l celebre Merlino nacque da una religiosa figliuola del re della Gran Brettagna senza il concorso d’alcun uomo, e che predicea l’avvenire più chiaro d’un Tiresia, non dite col popolo ch’egli era figliuolo d’un demonio incubo, poiché non ce n’è mai stato alcuno, né che profetava per arte diabolica, poiché ‘l Demonio è ‘l più ignorante di tutte le creature secondo la santa Cabala. Dite co’ Savj che la principessa inglese fu consolata nella sua solitudine da un silfo, il quale ebbe pietà di lei e prese la cura di divertirla, e seppe piacerle; e che Merlino lor figliuolo fu educato dal Silfo in tutte le scienze, e apprese da lui a operare tutte le maraviglie che la storia d’Inghilterra ne racconta.
E né meno fate l’oltraggio a’ conti di Cleves di dire che ‘l Diavolo è il lor padre, e abbiate miglior opinione del silfo che la storia dice esser venuto a Cleves sopra un naviglio miracoloso tirato da un cigno, il quale ci era attaccato con una catena d’argento. Questo silfo, dopo d’avere avuti più figliuoli dalla erede di Cleves, un giorno sul meriggio, a veduta di tutti, se ne ritornò sopra il suo aereo naviglio. Cosa ha egli fatto a’ vostri dottori che gli obblighi a spacciarlo per un demonio?
Ma tratterete voi anche male l’onore della casa di Lusignano? E darete a’ vostri conti di Poitiers una genealogia diabolica? Che direte mai della celebre loro madre?
Io credo, signore (l’interruppi), che farete per narrarmi i racconti di Melusina.
Ah! Se mi negate la storia di Melusina (ripigliò) mi dò per vinto: ma se la negate, bisognerà bruciare i libri del gran Paracelso, il quale in cinque o sei differenti luoghi sostiene non esserci cosa più certa dell’essere stata la suddetta Melusina una ninfa; e bisognerà smentire i vostri storici, i quali dicono che dopo la sua morte, o, per meglio dire, dopo ch’ella disparve dagli occhi di suo marito, non ha mai lasciato di comparire in gramaglia sulla gran torre del castello di Lusignano, cui avea ella fatta fabbricare, sempre che i suoi discendenti erano minacciati d’alcuna disgrazia o che qualche re di Francia dovea morire di morte straordinaria. Voi sarete in un continuo contrasto con tutti coloro che discendono da questa ninfa o che si sono imparentati colla sua casa, se v’ostinate a sostenere che sia essa stata un diavolo.
Pensate forse, signore (gli dissi), che codesti signori vogliano meglio riconoscere la loro origine da’ silfi?
Lo vorrebbero senza dubbio (egli replicò), se sapessero quel che io vi rivelo, e ascriverebbero a lor sommo onore queste nascite straordinarie. Essi saprebbero, se avessero qualche lume cabalistico, che, essendo questa sorta di generazioni più conforme alla maniera nella quale intendea Iddio da principio che ‘l mondo si moltiplicasse, i figliuoli che ne nascono sono più felici, più valorosi, più savj, più gloriosi e più benedetti da Dio. Non fa dunque maggior gloria a’ suddetti uomini illustri il discendere piuttosto da queste creature sì perfette, sì sagge e sì potenti, che non da qualche impuro folletto o da qualche infame Asmodeo?
Signore (gli dissi), i nostri teologi non s’avvisano di dire che ‘l diavolo sia padre di tutti quegli uomini i quali nascono senza che si sappia chi gli mette al mondo; essi riconoscono il Diavolo per uno spirito, il quale perciò non può generare.
Gregorio Nisseno (ripigliò il conte), non dice così: giacché sostiene che i demonj si moltiplichino tra di loro non altrimenti che gli uomini.
Noi (gli replicai), non siamo del suo parere; ma talvolta addiviene, dicono i nostri dottori…
Ah! Non dite (m’interruppe il Conte) non dite quel che essi dicono, perché direte insieme con essi una disonestissima e sporchissima sciocchezza. E qual abominevole arzigogolo hanno mai formato per rispetto a questo! E’ ben da stupire come abbiano tutti unanimemente adottata sì fatta lordura, e come si sien preso piacere di disporre de’ folletti negli agguati, perché valendosi dell’oziosa brutalità de’ solitarj mettessero prontamente al mondo quegli uomini miracolosi de’ quali essi macchiano l’illustre memoria dando loro una sì vile origine. E questo chiamano filosofare? È cosa degna di Dio il dire ch’egli abbia tanta compiacenza pe’ demonj che arrivi fino a favoreggiare sì fatte abominazioni, a conceder loro la grazia della fecondità che ha negata a certi grandi santi, e a ricompensare queste sporchezze col creare per questi embrioni d’iniquità anime più eroiche di quelle che non ha create per coloro i quali sono stati formati nella castità d’un legittimo maritaggio? È cosa degna della Religione il dire, siccome fanno i vostri dottori, che ‘l Demonio può per mezzo di questo detestabile artifizio rendere incinta una vergine in sogno senza pregiudizio della sua verginità? Quello poi che è anche assurdo, si è che la storia che Tommaso d’Aquino (scrittore per altro gravissimo e che sapea qualche poco di cabala), scordandosi di lui medesimo racconta nel sesto suo Quodlibet d’una figliuola giaciuta col propio padre, alla quale fa egli accadere la stessa avventura che certi rabbini eretici dicono essere accaduta alla figliuola di Geremia, alla quale fanno concepire il gran cabalista Bensirah nell’entrare nel bagno dopo del profeta. Io giurerei che questa inezia è stata immaginata da qualche…
Signore, se io ardissi interrompere la vostra declamazione (gli dissi) vi confesserei per placarvi che sarebbe da desiderarsi che i nostri dottori avessero pensato qualche altro scioglimento il quale offendesse meno le orecchie pure come le vostre; o pure doveano negar del tutto i fatti su’ quali la questione è fondata.
Buono espediente! (ripigliò il Conte). Eh! In qual modo negar cose cotanti? Mettetevi nel luogo d’un teologo vestito di batalo d’armellino, e supponete che ‘l beato Danbuzero venga a voi come all’oracolo della sua religione….
In questo venne un famiglio a dirmi che un giovane cavaliere di gran nascita veniva a vedermi.
Non voglio ch’egli mi vegga (disse il Conte).
Scusatemi signore (gli dissi), voi ben vedete al nome di questo signore che io non posso fargli dire che non ricevo visite: degnatevi dunque d’entrare in questo gabinetto.
Non importa (egli disse) mi renderò invisibile.
Ah! Signore (esclamai), lasciamo di grazia le diavolerie: io non intendo di scherzare su questa materia.
Che ignoranza (disse il Conte ridendo e alzando le spalle) non sapere che per rendersi invisibile non ci vuole altro che mettere dinanzi a sé il contrario della luce!
Egli se ne passò nel mio Gabinetto, e quasi nel medesimo istante quel giovane cavaliere entrò nella mia camera. Egli ora mi perdoni se allora non gli parlai della mia avventura.
RAGIONAMENTO QUINTO
Dopo che quel gran personaggio, essendosi da me accomiatato, fu fuori, io, ritornandone, trovai il Conte di Gabalì nella mia stanza.
Gran peccato (egli mi disse) che questo signore, il quale ora si è partito da voi, abbia ad essere un giorno uno de’ 72 principi del Sanedrin della nuova legge; poiché senza questo egli sarebbe un gran soggetto per la santa cabala. È di mente profonda, netta, vasta, sublime e ardita: ecco la figura di Geomanzia che ho tirata per lui mentre discorrevate insieme. Io non ho mai veduti punti più felici e che mostrassero un’anima sì bella. Vedete questa madre (c) che magnanimità non gli dà! Questa figliuola (d) gli proccurerà la porpora: ma io l’ho con essa e colla fortuna, perché rubano alla filosofia un soggetto che forse vi sorpasserebbe. Ma a che n’eravamo quando egli venne?
Voi mi parlavate, signore (gli dissi), d’un beato che non ho mai veduto nel calendario romano. Mi pare che l’abbiate chiamato Danbuzero.
Ah! Me ne ricordo (egli ripigliò). Io vi dicea di mettervi nel luogo d’uno dei vostri dottori, e di supporre che ‘l beato Danbuzero, venisse a scoprirvi la sua coscienza e vi dicesse: signore, io vengo d’oltremonti alla fama della vostra scienza, ho un picciolo scrupolo che m’inquieta. Ci ha una montagna in Italia nella quale tien la sua corte un ninfa: mille altre ninfe la servono, tutte presso a poco belle com’essa. Quivi da tutta la terra abitabile vengono uomini leggiadrissimi, dottissimi e onestissimi: essi amano le suddette ninfe e ne sono amati, ci menano la più dolce vita del mondo. Tosto che le amano, n’hanno de’ bellissimi figliuoli; adorano il Dio vivente, non offendono alcuno, sperano l’immortalità. Io passeggiava un giorno per questa montagna; piacqui alla ninfa regina; essa si rendette visibile e mostrommi la sua vezzosa corte. I savj che s’accorgono del suo amore per me mi rispettano quasi come loro principe, e m’esortano a lasciarmi prendere da’ sospiri e dalla bellezza della ninfa. Ella mi spiega il suo tormento, non ci ha cosa che trascuri per intenerire il mio cuore, e mi dimostra finalmente che morirà, sempre che non voglia amarla, e che se l’amerò mi sarà obbligata della sua immortalità. I ragionamenti di questi dotti uomini han convinta la mia mente. E i vezzi della ninfa han guadagnato il mio cuore. Io l’amo, n’ho de’ figliuoli di grande speranza, ma sul meglio della mia felicità mi turbo talvolta nel ricordarmi che la chiesa romana non approvi forse troppo tutto questo. Vengo a voi, signore, per domandarvene consiglio. Cosa sono mai questa ninfa, questi savj, e questi figliuoli? E in quale stato si trova la mia coscienza? Che rispondereste su questo, mio signor dottore, al signor Danbuzero.
Io gli direi (risposi): con tutto il rispetto che vi devo, signor Danbuzero, voi siete alquanto fanatico, o pure la vostra visione è un incantesimo; i vostri figliuoli e la vostra innamorata sono altrettanti folletti, i vostri savj altrettanti pazzi e io tengo la vostra coscienza per guastissima.
Con questa risposta, figliuol mio, voi potreste meritare la beretta di dottore, ma non meritereste d’esser ricevuto tra noi (ripigliò il Conte con un gran sospiro). Ecco la barbara disposizione nella quale sono tutti i dottori d’oggidì. Un povero silfo non tanto ardirebbe di mostrarsi che sarebbe tosto preso per un folletto; una ninfa non può faticare per divenire immortale senza esser tenuta per un impuro fantasma, e un salamandro non osa d’apparire per tema di non esser scambiato con un diavolo, e le pure fiamme che lo compongono col fuoco dell’inferno che l’accompagni per tutto. Per dissipare sì ingiuriosi sospetti possono segnarsi quanto vogliono col segno della croce quando appariscono, piegare il ginocchio all’udire i nomi divini, e anche pronunziargli con riverenza; tutte queste precauzioni sono vane, né possono ottenere di non essere stimati nemici di quel Dio cui adorano più religiosamente di coloro che gli fuggono.
Da dovvero signore (gli dissi), credete voi che cotesti Silfi sieno gente molto devota?
Devotissima (rispose), e zelantissima della Divinità. Gli eccellenti discorsi che essi vi fanno dell’essenza divina, e le loro preghiere ammirabili ci edificano grandemente.
Hanno essi le loro preghiere ancora? (gli dissi). Vorrei vene averne una alla loro maniera.
E’ facile il soddisfarvi (egli soggiunse), e per non rapportarvene alcuna sospetta, e perché non possiate cadere nel dubbio che l’abbia io composta, ascoltate quella che ‘l salamandro il quale rispondeva nel tempio di Delfo si compiacque d’insegnare a’ pagani, e che Porfirio riferisce: la suddetta preghiera contiene una sublime teologia, e da ciò vedrete che non mancava per queste sagge creature che ‘l mondo avesse adorato il vero Dio.
ORAZIONE DELLE SALAMADRE:
Immortale, eterno, ineffabile e sacro Padre di tutte le cose, il quale sei incessantemente portato sul carro veloce de’ mondi che sempre girano; dominatore della campagne eteree, dove è innalzato il trono della tua potenza, dall’alto del quale i tuoi occhi formidabili tutto discoprono e le tue belle e sante orecchie tutto ascoltano. Esaudisci i tuoi figliuoli che tu hai amati fin dal primo nascere de’ secoli, perocché la tua dorata grande ed eterna maestà risplende al di sopra del mondo e del cielo e delle stelle; tu sei elevato sopra di esse, o Fuoco scintillante. Quivi ti infiammi e ti sostieni da te medesimo col tuo propio splendore, ed escono dalla tua essenza ruscelli perenni di luce, i quali nutriscono la tua mente infinita. Questa mente infinita produce tutte le cose e fa questo tesoro inesausto di materia, la quale non può mancare alla generazione che la circonda di continuo a cagion delle forme senza numero delle quali essa è gravida e delle quali tu l’hai ripiena dal principio. Da questo spirito traggono pure la loro origine tutti que’ santissimi re che stanno in piede intorno al tuo Trono, e che compongono la tua corte, o Padre Universale! O Unico! O Padre de’ beati mortali ed immortali! Tu hai creato in particolare delle Potenze le quali sono maravigliosamente simili al tuo eterno pensiere ed alla tua essenza adorabile. Tu le hai stabilite superiori agli angeli che annunziano al mondo le tue volontà. Finalmente tu ci hai creati una terza specie di sovrani negli elementi. Il nostro continuo esercizio è di lodarti e d’adorare i tuoi desiderj. Noi bruciamo per desiderio di possederti. O Padre! O madre la più tenera delle madri! O esemplare ammirabile de’ sentimenti e della tenerezza delle madri! O figliuolo, il fiore di tutti i figliuoli! O forma di tutte le forme! Anima, spirito, armonia e numero di tutte le cose!
Che dite voi di questa orazione delle Salamandre? Non è essa molto dotta, molto elevata e molto divota?
E di più molto oscura (risposi). Io avea intesa parafrasarla a un predicatore, il quale se ne serviva per provare che ‘l Diavolo tra gli altri vizj che ha, sopra tutto è grande ippocrita.
Oh bene! (esclamò il conte). E quale scampo avete voi dunque, poveri popoli elementari? Dite maraviglie della natura di Dio, del Padre, del Figliuolo dello Spirito Santo, delle intelligenze assistenti, degli angeli, de’ cieli, fate preghiere ammirabili e le insegnate agli uomini, e dopo tutto questo, altro non siete se non folletti ippocriti!
Signore (io l’interruppi) non mi date gran piacere nell’apostrofare in sì fatta guisa con questa gente.
E bene, figliuol mio (egli ripigliò) non temete ch’io gli chiami: ma la vostra debolezza non arrivi almeno a farvi stupire nell’avvenire del loro parentado con gli uomini; della qual cosa vedete tanti esempj quanti ne volete. Ah! Dov’è una donna alla quale i vostri dottori non abbiano guastata l’immaginazione e che non miri con orrore questo commercio, e che non tremi all’aspetto di un silfo? Dov’è un uomo che non fugga di vedergli, per poco che pretenda d’essere uomo dabbene? Troviamo noi forse, se non rarissimamente, alcun onesto uomo il quale voglia la loro familiarità? Non ci ha se non degli scostumati, o degli avari, o degli ambiziosi, o de’ bricconi che ricerchino quest’onore, cui però non avranno mai. VIVA IDDIO! Poiché il principio della sapienza è il timore del signore.
Che n’è dunque (gli dissi), di tutti questi popoli volanti, giacché gli uomini dabbene sono così prevenuti contro di essi?
Ah! Il braccio di Dio (egli soggiunse) non è corto, e ‘l Demonio non ricava dall’ignoranza e dall’errore che ha sparso a lor danno tutto quel vantaggio ch’egli ne sperava; perocché, oltre a’ filosofi che sono in gran numero, i quali ci rimediano il più che possono rinunziando del tutto alle donne, Iddio ha permesso a questi popoli di valersi di tutti quegl’innocenti artifizj de quali sien capaci d’usare per conversare con gli uomini senza che ‘l sappiano.
Che mi dite mai, signore? (esclamai).
Io vi dico il vero (egli continuò). Credete voi che un cane possa aver de’ figliuoli da una donna?
No (risposi).
E una scimia? (egli soggiunse).
Né meno (replicai).
E un orso? (egli proseguì).
Né cane, né orso, né scimia (gli risposi).
Quest’è impossibile senza dubbio, contra la natura, contra la ragione e contra il senso comune. Ottimamente (disse il Conte). Ma i re de’ goti non sono nati da un orso e da una principessa svezzere?
È vero (ripigliai), che la Storia lo dice.
E i Pegusiani, e i Sioniani delle Indie (egli soggiunse), non sono nati pure da un cane e da una femina?
L’ho anche letto (gli dissi).
E quella donna portoghese (egli proseguì) la quale, essendo stata esposta in un’isola diserta, ebbe de’ figliuoli da un grande scimmione?
I nostri teologi, signore (io replicai), rispondono a questo che ‘l Diavolo, prendendo la figura delle suddette bestie….
E ritornate ad allegarmi (m’interruppe il Conte) le sozze immaginazioni de’ vostri autori. Imparate dunque una volta per sempre che i Silfi, vedendo che sono presi per demonj quando appariscono in forma umana, per iscemare l’avversione che si ha di essi, pigliano la figura de’ suddetti animali, e per questa guisa s’adattano alla strana debolezza delle donne, le quali avrebbero orrore d’un bel silfo, e non l’hanno poi d’un cane o d’uno scimmione. Potrei narrarvi molte storiette di que’ cagnuolini di Bologna con certe donzelle di questo mondo: ma io devo rivelarvi un segreto di maggiore importanza.
Sappiate, figliuol mio, che talune crede d’esser figliuolo d’un uomo, ed è figliuolo d’un silfo: talun altro crede di giacere con la propria moglie, e quando meno ci pensa, immortala una ninfa: una donna stima d’abbracciare il propio marito, e tiene tra le braccia un salamandro; e una donzella giurerebbe, dopo che si desta, d’essere vergine, e pur dormendo ha avuto un onore del quale ella non n’ha il minimo sospetto. Così il Demonio e gl’ignoranti rimangono egualmente ingannati.
E che! il Demonio forse non può (gli dissi) destare quella donzella addormentata per impedire al salamandro di divenire immortale?
Egli potrebbe farlo (replicò il Conte) se i Savj non ci mettessero regola; ma noi altri insegniamo a tutti i suddetti popoli le maniere di legare i demonj e d’opporsi a’ loro sforzi. Non vi dicea io l’altro giorno che i Silfi e gli altri signori degli elementi si stimano sommamente felici, perciocché noi condiscendiamo a spiegar loro la cabala. Senza di noi il Diavolo, lor gran nemico, molto gl’inquieterebbe e durarebbero gran fatica ad immortalarsi senza saputa delle donzelle.
Io non finisco (replicai) d’ammirare la profonda ignoranza nella quale viviamo. Si crede che le potestà dell’aria ajutino talvolta gli amanti a fargli pervenire a quel che essi desiderano: la cosa va dunque tutt’altrimenti? Le potestà dell’aria hanno anzi bisogno degli uomini perché le servano ne’ loro amori?
Così è, figliuol mio (continuò il Conte; il savio dà soccorso a questi popoli, i quali sarebbero per altro troppo infelici e troppo deboli per poter resistere al Diavolo: ma in questo modo, dopo che un silfo ha imparato da noi a pronunziare cabalisticamente il potente nome NEHMAHMIHAH e a combinarlo nelle debite forme col delizioso nome ELIAEL, tutte le potestà delle tenebre si mettono in fuga, e ‘l silfo si gode in pace quella cui ama.
Così fu immortalato quell’ingegnoso silfo il quale prese la figura dell’amante di una signorina di Siviglia; la storia n’è ben nota. La giovane spagnuola era bella, ma quanto bella altrettanto crudele. Un cavaliere castigliano, che inutilmente l’amava, si risolse a partirne una mattina senza farne prima alcun motto e ad andar viaggiando finattantochè egli fosse guarito della sua vana passione. Un silfo, andandogli la bella a genio, s’avvisò di cogliere quel tempo, e armandosi di tutto ciò che uno de’ nostri gl’insegnò per difendersi dalle traversie che ‘l Diavolo invidioso della sua fortuna avrebbe potuto suscitargli contra, va a vedere la signorina sotto la forma dell’amante lontano. Piange, sospira, è rigettato. Le fa nuove premure, la sollecita, non si stanca. Dopo più mesi la muove, si fa amare, la persuade, e finalmente si felicita. Nasce dal loro amore un figliuolo la cui nascita resta segreta e occulta a’ parenti mercé dell’astuzia dell’aereo amante. L’amore continua, ed è benedetto con una seconda gravidanza. Frattanto il cavaliere, guaritosi colla lontananza, ritorna a Siviglia e, impaziente di vedere la sua tiranna, va il più tosto che possa a dirle che alla per fine è in istato di non più dispiacerle, come colui il quale veniva ad annunziarle che più non l’amava. Immaginatevi di grazie lo stupore della donzella, la sua risposta, i suoi pianti, i suoi rimproveri e tutto il sorprendente loro dialogo. Ella gli sostiene che l’ha renduto soddisfatto, ed egli lo niega; che il comune lor figliuolo è nel tal luogo, ch’egli è padre ancora d’un altro di cui è incinta: il cavaliere s’ostina sul niego; ella s’attrista, si strappa di capelli; i parenti accorrono a’ suoi schiamazzi; la disperata amante continua i suoi lamenti e le sue invettive; si verifica che ‘l gentiluomo era stato assente per due anni; si cerca il primo figliuolo, si trova, e ‘l secondo nasce a suo tempo.
E l’amante aereo (l’interruppi) che parte facea durante tutto ciò?
Vedo bene (rispose il Conte) che dee parervi male ch’egli abbia abbandonata la sua innamorata al rigore de’ parenti o al furore degl’inquisitori: ma avea una forte ragione d’essere mal contento di lei. Ella non era troppo divota: or, quando questi signori si sono immortalati, s’affaticano seriamente e vivono santissimamente per non perdere il diritto che è riuscito loro d’acquistare al possedimento del sommo bene. E perciò vogliono pure che la persona colla quale si sono imparentati viva con un’innocenza esemplare, siccome si vede nella seguente avventura d’un giovane signore di Baviera.
Egli era inconsolabile per la morte di sua moglie, cui teneramente amava. Una silfa fu consigliata da uno de’ nostri savj a prendere la figura della suddetta dama: ella accettò il suo consiglio e andò a presentarsi all’afflitto giovane, dicendogli che Dio l’aveva risuscitata per consolare l’estrema sua afflizione. Vissero insieme più anni, e procrearono bellissimi figliuoli. Ma il giovane signore non era uomo tanto dabbene quanto bisognava che fosse per trattenere la saggia silfa; egli bestemmiava e profferiva parole disoneste. Ella soventi volte ne l’avvertì, ma, vedendo alla per fine che le sue ammonizioni erano inutili, disparve un giorno, né gli lasciò altro se non le sue gonne e ‘l pentimento di non aver voluto seguire i suoi santi consigli. Voi vedete dunque figliuol mio, che i silfi hanno talvolta ragione di disparire, e vedete pure che né ‘l Diavolo, né i fantastici capricci de’ vostri teologi possono impedire che i popoli degli elementi non fatichino con buona riuscita per la lor immortalità, sempre che sieno soccorsi da qualcheduno de’ nostri savj.
Ma da dovvero signore? (io replicai), siete voi persuaso che ‘l Demonio sia tanto gran nemico di codesti seduttori delle donzelle?
Nemico mortale (disse il Conte), e soprattutto delle ninfe, de’ silfi e delle salamandre. Poiché, quanto agli gnomi, egli non porta loro troppo odio a cagion che, siccome credo d’avervi detto, i suddetti gnomi atterriti dagli urli de’ diavoli che essi sentono nel centro della terra, vogliono piuttosto rimanersi mortali che mettersi in rischio d’essere in quella guisa tormentati acquistando l’immortalità. Da ciò proviene che questi gnomi e i demonj loro vicini, abbiano insieme molto commercio. Costoro persuadono agli gnomi, i quali sono naturalmente amicissimi dell’uomo, che è rendergli un grandissimo servizio e liberarlo da un grave pericolo l’obbligarlo a rinunziare alla sua immortalità: e per questo essi s’impegnano a somministrare a colui al quale riesce loro di persuadere sì fatta rinunzia, tutto quel danajo ch’egli domandi, a frastornare i pericoli che potrebbero minacciare la sua vita durante un certo tempo, o a qualche altra condizione secondo che meglio piaccia a colui che ferma questo disgraziato patto: per questo guisa il Diavolo (ah lo scellerato ch’egli è!) coll’opera di uno gnomo fa diventar mortale l’anima di quel tale uomo e la priva del diritto che ha alla vita eterna.
Come! Signore (esclamai) secondo voi questi patti, de’ quali di demoniografi raccontano tanti esempj, non si fanno col Demonio?
No sicuramente (ripigliò il conte). Il Principe del mondo non n’è stato cacciato fuori? Non istà chiuso? Non istà legato? Non è egli la terra maledetta e dannata ch’è restata nel fondo dell’opera del Supremo e archetipo distillatore? E come mai può salire sulla regione della luce e spargerci le sue tenebre concentrate? Egli nulla vale contra l’uomo, solo può ispirare agli gnomi suoi vicini di venire a fare le suddette proposizioni a coloro fra gli uomini i quali egli più teme che sieno per salvarsi, affinché la loro anima muoja insieme col loro corpo.
Secondo voi dunque (io soggiunsi) queste anime mujono?
Muojono sì bene, figliuol mio (egli rispose).
E coloro che fermano questa sorta di patti non vanno dannati? (continuai).
Non possono andarci (egli disse); conciossiaché la loro anima muoja insieme col corpo. Essi dunque ne campano a buon mercato (io ripigliai): e sono troppo leggermente puniti dopo d’aver commesso un fallo tanto enorme quanto è quello del rinunziare al loro battesimo e alla morte del Signore.
E chiamate voi (replicò il Conte) leggier gastigo l’esser costretto a rientrare nell’oscuro abisso del niente? Sappiate che è questa una pena maggiore dell’andar dannato; che ci ha per anche un resto di misericordia nella giustizia che Dio esercita contra i peccatori nell’inferno: che è pure una non picciola grazia il non consumargli col fuoco che gli brucia. Il niente è un male maggiore dell’inferno, e questo è quello che i savj predicano agli gnomi per far loro intendere qual torto si fanno preferendo la morte all’immortalità e ‘l niente alla speranza d’un’eternità beata ch’essi avrebbero il diritto di possedere, se s’imparentassero con gli uomini senza esiger da loro sì fatte scellerate rinunzie. Alcuni ci credono; e di fatto gli maritiamo colle nostre figliuole.
Voi dunque signore, evangelizzate i popoli sotterranei? (gli dissi).
Perché no? (egli replicò). Noi siamo i loro dottori nella stessa guisa, appunto, che siamo dottori de’ popoli del fuoco, dell’aria e dell’acqua; e la carità filosofica si spande indifferentemente su tutti questi figliuoli di Dio. E siccome sono essi più sottili e più perspicaci del comune degli uomini, così’ sono pure più, docili e più capaci di disciplina, e ascoltano le Divine verità con un rispetto che ci sorprende.
Non può certamente non essere sorprendente (io esclamai ridendo) il vedere un cabalista in cattedra predicare a’ tutti que’ signori.
Voi avrete questo piacere, figliuol mio, sempre che vorrete (disse il Conte), e se lo desiderate io gli convocherò questa sera, e sulla mezza notte farò loro il mio sermone.
Sulla mezza notte! (tornai ad esclamare). Ho udito dir sempre questa essere appunto l’ora delle tregende.
Il Conte cominciò a ridere:,
Voi mi fate ricordare (egli disse) di tutte le fole che i demoniografi narrano sul capitolo di quelle loro immaginarie tregende. Mi piacerebbe non poco che per la rarità del fatto voi pure daste loro fede.
Oh! Quanto ai conti delle tregende (io ripigliai), v’assicuro che non ne credo né pure uno.
Fate bene figliuol mio (egli disse), perocché, torno a dirvi, il Diavolo non ha potestà di farsi giuoco così del genere umano, né di fermar patti con gli uomini; e molto meno ancora di farsi adorare da essi, siccome gl’inquisitori credono. Quel che ha dato luogo a queste dicerie popolari, si è che i savj, secondo che vi ho detto, convocano gli abitanti degli elementi per istruirgli de’ loro misterj e della loro morale: e accadendo non di rado che qualche gnomo si sganna del suo grossolano errore, comprende gli orrori del niente e consente a farsi immortalare; gli si dà una donzella, si marita, e le nozze si celebrano con tutta quell’allegria che si conviene alla conquista che si è fatta. E queste sono quelle danze e quelle grida di gioia che Aristotele dice che si sentivano in certe isole, senza che, per altro, ci si vedesse persona alcuna. Il grande Orfeo fu il primo che convocò questi popoli sotterranei. Al suo primo invito Sabasio, il più antico degli gnomi, fu immortalato, e da questo Sabasio poi ha preso il suo nome (e) quell’assemblea nella quale i savj hanno a lui indirizzata la parola finattantoché egli visse; siccome s’offeriva negl’Inni del divino Orfeo. Gl’ignoranti han confuse le cose e han presa occasione di formare per rispetto a questo mille impertinenti novelle, e di diffamare un’assemblea cui non convochiamo se non per la maggior gloria del Supremo Essere.
Non avrei mai creduto (gli dissi) che le tregende fossero altrettanto assemblee di divozione.
E pure esse sono (egli replicò) santissime e cabalistichissime; della qual cosa il mondo non sì di leggieri si persuaderebbe. Ma questa è la deplorabile cecità dell’ingiusto nostro secolo: gl’uomini facilmente s’incapano d’una voce popolare, né vogliono esserne sgannati. I savj hanno bel dire: i minchioni sono sempre più creduti. Per quanto si studi un filosofo di far toccar con mano la falsità di tante chimere che si son foggiate, e di render pruove manifeste del contrario, qualunque sia la sperienza e per quanto mai sia convincente il ragionamento ch’egli apporti, se vien un uomo di cappuccio che lo dichiara falso, la sperienza e al dimostrazione non hanno più forza, e la verità non ha più il potere di ristabilire il suo imperio. Si crede più a quel cappuccio che a’ propj occhi.
Nella vostra Francia si è osservato un esempio memorabile di sì fatta caparbieria popolare.
Sotto il regno del vostro Pipino, il famoso cabalista Zedechia risolvette di voler convincere senz’altro il mondo della reale esistenza negli elementi di tutti questi popoli de’ quali v’ho descritta la natura. Lo spediente, col quale s’avvisò di poterne venire a capo, fu di consigliare a’ silfi che si lasciassero vedere nell’aria a tutta la gente: essi lo fecero con magnificenza: si vedeano nell’aria queste ammirabili creature in forma umana, ora formate in battaglia o marcianti in buon ordine, o ferme sulle armi, o accampate sotto superbi padiglioni; ora montate su di aerei navigli di maravigliosa struttura, componenti una flotta volante che vogava a seconda de’ Zefiri. Che n’avvenne? Pensate voi forse che quel secolo ignorante seppe trarne occasione di ragionare sulla natura di sì stupendi spettacoli? Il popolo si diede tosto a credere che essi erano tanti stregoni, i quali s’erano impossessati dell’aria per eccitarvi delle tempeste e per mandar delle furiose grandini sulle messi.
I dotti, i teologi e i giureconsulti caddero fra poco nella sentenza del volgo: gl’imperadori la credettero ancora, e questa ridicola chimera passò tanto innanzi che ‘l saggio Carlo Magno, e dopo di lui Luigi il Mansueto, imposero gravissime pene a tutti cotesti tiranni dell’aria: osservatelo nel primo capitolo delle costituzioni Capitolari de’ suddetti due imperadori.
I Silfi, vedendo il popolo, i pedanti e fino le teste coronate così infuriate contro di essi, risolvettero, per iscancellare quella cattiva opinione che si avea dell’innocente lor flotta, di rapire alquanti uomini da tutte le parti, perché vedessero le belle loro donne, la loro repubblica e ‘l loro governo, e di rimenargli poi a terra in diversi luoghi del mondo. Eseguirono di fatto ciò che aveano progettato. Il popolo, laddove vedea venir giù quegli uomini, ci accorrea da tutte le parti colla prevenzione d’essere essi tanti stregoni che eran mandati da’ loro compagni per avvelenare i frutti e le fontane, e, trasportato dal furore cui sogliono ispirare sì fatte immaginazioni, strascinava quegl’innocenti al supplizio. E’ cosa incredibile, in quanto gran numero se ne fecero morire nell’acqua e nel fuoco in tutto il regno.
Accadde un giorno tra gli altri che nella città di Lione furono veduti calare da quegli aerei navigli tre uomini e una donna: tutta la città s’unì loro intorno, grida che sono stregoni mandati da Grimoaldo Duca di Benevento nemico di Carlo Magno per distruggere le raccolte de’ francesi. Invano i quattro innocenti s’affaticano a dire per giustificarsi ch’essi sono del medesimo paese, che sono stati rapiti poco prima da certi uomini miracolosi i quali han fatto veder loro delle maraviglie inaudite e gli hanno pregati a farne la narrazione. Il popolo caparbio non ascolta la loro difesa, e stava già per gittarli nel fuoco quando il buon uomo Agobardo vescovo di Lione, il quale s’era acquistata molta autorità essendo monaco in quella città, accorse al romore e, avendo intesa l’accusa del popolo e la difesa degli accusati, pronunziò gravemente che l’una e l’altra erano false del pari, che non era mica vero che quegli uomini fossero discesi dall’aria e che quel che essi diceano d’averci veduto era impossibile. Il popolo diede maggior fede a quel che dicea il suo buon padre Agobardo, che non a’ suoi propj occhi; s’acquietò, rimise in libertà i quattro ambasciatori de’ Silfi, e ricevette con ammirazione il libro che scrisse Agobardo per confermare quella sentenza ch’egli avea già data: e per questa guisa l’attestazione di questi quattro testimonj fu renduta vana.
Intanto essendo essi campati dal supplizio, si videro in libertà di raccontare quel che aveano veduto; né la cosa riuscì del tutto infruttuosa, poiché se ben vi ricordate, il secolo di Carlo Magno fu fecondo di uomini eroici, e perciò avvenne che la donna, la qual era stata tra’ silfi, trovò credito presso le dame di quel tempo, e che in conseguenza, per grazia di Dio, molti silfi s’immortalarono, e che pel racconto cui i tre uomini fecero della bellezza delle silfe, molte di esse divennero altresì immortali: ciò che obbligò le genti d’allora ad applicarsi alquanto alla filosofia, e di là son provenute tutte quelle storia delle fate che voi trovate nelle leggende amorose del secolo di Carlo Magno e de’ seguenti. Tutte le suddette pretese fate non erano se non silfe e ninfe. Avete voi mai lette queste storie degli eroi e delle fate?
No signore (gli dissi).
Mi dispiace (egli ripigliò), imperocché esse v’avrebbero data qualche idea dello stato al quale i savj hanno risoluto di ridurre il mondo un giorno. Quegli uomini eroici, quegli amori delle ninfe, que’ viaggi nel Paradiso Terrestre, que’ palagi e que’ boschi incantati, e tutte insomma quelle leggiadre avventure che ci s’osservano, non sono altro se non una picciola idea della vita che menano i savj, e di quel che sarà il mondo allora, quando arriveranno essi a farci regnare la sapienza. Non si vedranno se non eroi: il minimo de’ nostri figliuoli avrà la forza di Zoroastro, d’Apollonio e di Melchisedec, e la maggior parte di essi sarà tanto perfetta quanto que’ figliuoli che avrebbe avuti Adamo d’Eva, se egli non avesse peccato con essa.
Ma non m’avete voi detto, signore (io l’interruppi), che Dio non volea che Adamo ed Eva avessero de’ figliuoli, che Adamo non dovea appartenere se non alle silfe, e che Eva non dovea pensare se non che a qualche silfo o a qualche salamandro?
E’ vero (disse il conte), essi non doveano procrear figliuoli per quella strada per la quale gli produssero.
La vostra Cabala, dunque, signore (io continuai), insegna all’uomo e alla donna qualche nuova invenzione per generar de’ figliuoli diversamente dall’uso ordinario?
Sicuramente (egli replicò).
Oh signore (io proseguii), insegnatemela dunque, ve ne scongiuro.
Per quest’oggi mi farete il favore di non curarvi di saperla (egli mi disse ridendo): Io voglio prender vendetta per parte de’ popoli elementari di quel grande stento che avete provato a sgannarvi della pretesa loro diavoleria. Immagino senza dubbio che siate già libero da’ vostri panici terrori. Vi lascio, dunque, per darvi agio da meditare e da deliberare innanzi a Dio a quale spezie di sostanze elementari vorrete piuttosto, per sua e vostra maggior gloria, far parte della vostra immortalità.
Frattanto io me ne vado a raccogliermi un poco pel discorso che voi m’avete fatto venir desiderio di fare questa notte agli Gnomi.
Sarete voi forse (gli dissi) per ispiegar loro qualche capitolo d’Averroe?
Credo bene (disse il Conte) che ce ne potrà cadere qualche cosa, perocché io ho pensiere di predicar loro l’eccellenza dell’uomo per istimolargli a ricercarne il parentado. E Averroe dopo d’Aristotele ha sostenute due cose, le quali sarà a proposito che io rischiari; l’una sulla natura dell’intelletto, e l’altra sul supremo bene. Egli dice che non ci ha se non un solo intelletto creato il quale è l’immagine dell’increato, e che quest’unico intelletto basta per tutti gli uomini: or ciò esige spiegazione. E quanto al supremo bene, Averroe dice che consiste nella conversazione degli Angeli, la qual cosa non è troppo cabalistica, imperocché l’uomo anche in questa vita può, ed è creato per godere di Dio, siccome intenderete un giorno e siccome sperimenterete di fatto quando sarete nell’ordine de’ savj.
Così terminò il ragionamento del Conte di Gabalì. Egli ritornò il domane e mi portò il discorso ch’avea fatto a’ popoli sotterranei, il quale è maraviglioso. Io lo pubblicherei insieme con la continuazione de’ Ragionamenti, che una viscontessa e io abbiamo tenuti con questo grande uomo, se fossi sicuro che tutti i miei lettori avessero la mente giusta, e non istimassero mal fatto che io mi divertissi a spese de’ pazzi. Se vedo che si voglia lasciar fare al mio libro quel bene ch’egli può produrre, e che non mi si faccia il torto di giudicarmi capace di dar credito alle scienze segrete sotto pretesto di metterle in ridicolo, continuerò a spassarmi col signor Conte, e potrò ben presto metter fuori un altro tomo.
LETTERA AL SIGNOR ….
Signore, voi mi siete paruto sempre sì appassionato pe’ vostri amici, che io ho creduto che volentieri mi perdonereste la libertà, della quale fo’ uso in pro del migliore de’ miei, nel supplicarvi d’aver per lui la compiacenza di farvi leggere da qualcuno il suo libro.
Non pretendo con ciò d’impegnarvi ad alcuna di quelle conseguenze delle quali forse l’autore mio amico si lusinga; perocché i signori autori sono soggetti a formarsi delle speranze. Io gli ho anche bastantemente detto che voi vi fate un gran punto d’onore di non dir mai se non quel che pensate, e che perciò non s’aspettasse di vedervi appartare da una qualità sì rara e sì nuova nella corte, per dire che ‘l suo libro è buono, laddove il trovaste cattivo. Ma quel che io desidererei da voi, o signore, e di che umilissimamente vi prego, si è che abbiate la bontà di decidere una differenza che passa tra me e lui. Non bisognava studiar tanto, o signore, né divenire un mostro di scienza se non volevate trovarvi esposto ad esser preferito a’ dottori nelle domande de’ consigli. Eccovi la disputa che io ho avuta col mio amico.
Io ho voluto obbligarlo a cambiare interamente la forma della sua opera. Quell’aria giochevole ch’egli le ha data non mi sembra propia pel suo soggetto.
La Cabala (gli ho detto) è una scienza seria, che da molti miei amici è seriamente studiata; bisognava confutarla nella stessa guisa, e siccome tutti in suoi errori sono sulle cose divine, così, oltre alla difficoltà che ci ha a far ridere un uomo onesto su qualsivoglia materia, riesce di più pericolosissimo lo scherzare in questa; ed è da temer forte che la devozione non ci sembri interessata. O bisogna far parlare un cabalista com’un Santo, o farà egli pessimamente la sua parte: e parlando da Santo egli inganna gli spiriti deboli colla sua apparente santità; e più riesce egli a persuadere altrui le sue visioni, che non tutta la piacevolezza a farne la confutazione.
Il mio amico rispondea a questo con quella licenza che usano gli autori allora che difendono i loro libri, che se la cabala è una scienza seria, non ci ha però se non alquanti malinconici che ci si danno; che, avendo da principio voluto provarsi a trattar questo soggetto collo stile dogmatico gli era paruto d’esser divenuto egli medesimo sì ridicolo nel trattare seriamente di sì fatte inezie, che avea giudicato più a proposito di volgerne tutto il ridicolo contra il signor Conte di Gabalì. La cabala (egli dice) è una di quelle chimere le quali acquistano autorità quando sono confutate con gravità, e la cui distruzione non si dee imprendere se non giocosamente. E siccome egli è moltissimno intendente de’ SS Padri, m’ha allegato su questo proposito Tertulliano. Or voi che l’intendete meglio di lui e me, giudicate, o signore, se l’ha citato a torto: Multa sunt risu digna revinci, ne gravitate adorentur. Egli dice che Tertulliano disse questa bella sentenza contra i Valentiniani, i quali erano una specie di cabalisti fanaticissimi.
Quanto poi alla devozione che ha quasi sempre luogo in tutta quest’opera, è d’una necessità indispensabile (egli dice) che un cabalista parli di Dio: ma quel che ci ha di buono nella presente materia, si è che è d’una necessità anche più inevitabile per conservare il carattere cabalistico, il parlare sempre di Dio con un rispetto estremo, talché la religione non può riceverne alcun torto, e gli spiriti deboli saranno anche più deboli dello stesso signor di Gabalì, se si lasceranno incantare dalla suddetta stravagante devozione; o se le burle che se ne prendono non ne sciolgano l’incanto.
Per queste ragioni e per parecchie altre che io non istarò a riferirvi, o signore, perché ho desiderio che voi siate del parer mio, il mio amico pretende d’aver dovuto scrivere contra la cabala scherzando. Riconciliateci, di grazia. Io sostengo che sarebbe ben fatto di procedere contra tutte le scienze segrete con argomenti serj e vigorosi. Egli dice che la verità è leggiadra di sua natura e ch’ella ha molta maggior forza quando ride, per la qual cosa un antico che vi dee esser noto senza dubbio, dice in un certo passo del quale vi ricorderete senz’altro, attesa quella sì bella memoria che Dio v’ha data: Convenit veritati ridere, quia laetans.
Egli aggiunge che le scienze segrete diventano pericolose se non si sono trattate con quell’aria che è necessaria per ispirarne altrui il disprezzo, per isventarne il ridicolo misterio e per distogliere la gente dal perdere il tempo nell’esaminarle, cioè mostrandole il più fino de’ suoi misterj e faccendogliene vedere la stravaganza. Ecco, signore, le nostre ragioni.
Io accoglierò la vostra decisione con quel rispetto che voi ben sapete che accompagna sempre l’ardore col quale sono, signore, vostro umilissimo ed obbedientissimo servitore.
NOTE:
(c) Termine di Geomanzia.
(d) Termine pure di Geomanzia.
(e) I francesi dicono sabath quelle immaginarie notturne assemblee di streghe e stregoni, delle quali tanto son solite ragionare le femminucce, e che noi altri italiani diciamo tregende; quinci avviene che ‘l nostro autore n’abbia tratta occasione di far derivare la suddetta voce sabath dall’altra Sabasius.