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INTRODUZIONE.

Chi era l’autore nascosto sotto lo pseudonimo di Sancelrien Tourangeau? Chi era l’ermetista che, attardatosi (in verità con una folta compagnia) su sponde diverse da quelle che il presunto secolo della ragione offriva ai suoi scrittori ed intellettuali, scriveva, nell’agitato panorama culturale francese della seconda metà del XVIII secolo, un trattato d’alchimia sotto forma epistolare? Chi era questo Tourangeau, questo oriundo di Tours, innamorato dell’Arte?
Da un certo punto di vista, ed in una certa misura, ci troviamo di fronte ad un individuo abbastanza temerario, tale da ignorare l’atmosfera culturale della nouvelle philosophie che impregna orma il “secolo della ragione”. E, dunque, un carattere sufficientemente noncurante da non tenere in alcun conto, ad esempio, della seguente sprezzante recensione che al suo libro viene riservata negli Affiches, Annonces et avis diverses (Quarante-huitieme Feuille Hebdomadaire du mercredi 2 Décembre 1778, n° 48, pp 189-190):

«Non è né per il clima, né per il secolo che si devono giudicare gli uomini o i libri. Tutti i climi e tutti i secoli vedono nella stessa misura uomini e libri buoni o cattivi. Per quanto costante sia tale verità, questa Clef du Grand’Oeuvre non è meno sorprendente. È la più povera e miserabile rapsodia che si possa vedere dell’antica Alchimia, con qualche insulsa e triste facezia, di cui almeno qualcuna offende la dignità della Religione. A cosa è servito far luce sulle scienze per poi vederle disonorate da produzioni simili? L’autore annuncia ancora una lettera su questa materia. Sarà un oltraggio in più fatto alla ragione ed al secolo.». 

Più sbrigativa e lapidaria, ma non meno violenta, la critica che l’anno dopo appare in inglese su The critical Review or Annals of Literature (vol. forty-seventh, Hamilton, London 1779, p. 71):

«Una delle più assurde e spregevoli stravaganze dell’impudenza e dell’assurdità alchimistica.».

Tale doveva essere, ovviamente, il destino critico di tutte operette alchemiche settecentesche che, per ventura o malasorte, capitavano tra le mani degli zelanti recensori letterari del tempo. La mirabolante sequenza delle meraviglie promesse dall’elixir alchemico che Sancelrien presenta nella seconda lettera, indubbiamente, non doveva sembrare un buon viatico per catturare le benevolenze dei colti del tempo. Specie se non si riusciva a cogliere l’umorismo evidente che a tratti sembra colorire una panacea che, superando di gran lunga il carico tradizionale delle sue miracolose proprietà curative, poteva indifferentemente essere usata come profumo da uomini e donne, operava – con l’autorità immaginaria di un San Tommaso impegnato a tavola almeno tre ore –  palingenesi con i cetrioli, rendeva le dame più attempate robuste diciannovenni (a patto che queste si strofinassero previamente con una miscela di erbe odorifere) e faceva ricrescere i capelli del colore desiderato.
Eppure un piccolo segnale di amicizia, ai philosophes alla moda, il nostro Sancelrien l’aveva pur dato. Infatti quando, a conclusione del post scriptum della prima lettera, aveva immaginato un mondo in cui anche ai poveri fosse dato il segreto della pietra filosofale, egli non aveva vagheggiato l’effetto che l’improvvista ed equanime ricchezza avrebbe provocato nelle grasse classi della borghesia mercantile e speculatrice, o nelle rendite feudali e nei privilegi nobiliari che di lì a pochi anni avrebbero alimentato l’incendio rivoluzionario. Aveva subito, piuttosto, identificato coloro che sarebbero stati giustamente colpiti, gli immorali approfittatori che prosperavano sulle classi povere, nella variegata e numerosa casta ecclesiastica: «Cosa diverrebbero allora, fratello mio, tutti i vostri confratelli dignitari di questa nobile ed insigne Chiesa, i Canonici, Prevosti, Beneficiari, Vicari e i vostri piccoli Cappellani, se queste granaglie di rendita, questo grasso pollame, questa fine cacciagione ed il pesce scelto che oggi gli arrivano nel sonno, gli venissero rifiutati in natura ed offerti in oro ed argento?». Tuttavia questo anticlericalismo d’occasione non doveva apparire sufficiente, ed il sentore di irrazionale e credula superstizione che, dalle pagine della Clef, doveva colpire i nasi delicati dei colti e razionali philosophes, non era peggiore, né era più sopportabile, dell’antico odore di zolfo che da sempre promanava dalle pagine polverose ed incomprensibili dell’alchimia per i nasi grossolani, avidi e creduli dei curati di campagna.  
Il catalogo della Bibliothèque National riporta l’attribuzione dell’opera ad André-Charles Cailleau (1731-1798), seguendo evidentemente il Dictionnaire des ouvrages anonymes del Barbier (Paris 1872, tome I, p. 615) che imputa, senza alcuna spiegazione particolare, l’opera al suo editore, appunto il Cailleau. 
Più di quarant’anni dopo, il Caillet (Manuel Bibliographique des Sciences Psychiques ou occultes, Dorbon, Paris 1913, tome I, p. 282) recensisce il nostro testo accettando acriticamente l’attribuzione proposta da Barbier.
André-Charles Cailleau fu libraio ed editore autorevole. Figlio d’arte (suo padre era il libraio ed editore parigino André Cailleau) e genero dell’editore-libraio Gabriel Valleyre. Egli fu libraio giurato dell’università di Parigi, stampatore dell’Accademia di Richmond, e, sotto il governo Rivoluzionario, fu tra gli elettori della città di Parigi. Autore di un gran numero di pamphlet satirici, commedie comiche ed opuscoli politici e filosofici, questo autore, che non esitava a definirsi “partisan de Descartes” (1), editava, negli stessi anni in cui usciva la Clef, anche opere di Diderot e di scrittori della nouvelle philosophie illuminista.
Indubbiamente la deduzione di Barbier che porta ad identificare Cailleau come l’estensore della Clef, non appare del tutto ingiustificata. Cailleau era aduso ad utilizzare pseudononimi (firma opere con le sole iniziali, ne pubblica in forma anonima e, verso il 1783, ci informa la scheda biografica presente sul sito della BNF, usa anche lo pseudonimo di Philarete), modificare il luogo di stampa (Parigi) con luoghi esotici ed immaginari (la Corinto della Clef, ma anche Costantinopoli, e poi pubblicazioni all’insegna della Criticomanie, Satyricomanie etc. etc.). Non è forse il nome dell’editore Cailleau che appare, tra il 1740 ed il 1754, sul frontespizio dei quattro tomi della riedizione della Bibliothèque des Philosophes Chimiques di Jean Mangin de Richebourg? Gli autori citati dal Sancelrien, di fatto, sono quasi tutti inclusi nei quattro volumi dell’opera, e gli stessi riferimenti di pagina che fornisce nel testo fanno riferimento all’edizione dei trattati della Bibliothèque. Tuttavia, Barbier e, dopo di lui, il Caillet (che pure conosce la data di nascita di Cailleau), non sembrano tener conto del fatto che la Bibliothèque esce tra il 1740 ed il 1754, mentre André-Charles viene ufficialmente nominato libraio solo nel 1753, ed editore nel maggio 1772. È dunque ai tipi del padre André – editore, tra le altre cose, anche dell’alchimista Francesco Pompeo Colonna (1644-1726) (2) – che bisogna attribuire i quattro volumi della Bibliothèque. E poi, soprattutto, cosa avrebbe dovuto spingere il nostro editore e scrittore a firmarsi, lui, parigino ed elettore del governo rivoluzionario, come Tourangeau? Perché un tale riferimento alla città di Tours?
Caillet, in calce alla sua breve recensione del nostro testo (il n° 1923 del suo Manuel) annota:

«Molto raro – una vecchia nota dell’esemplare di de Guaita attribuiva quest’opera non al libraio Cailleau, come fa Barbier, ma a J. J. Coullon, Avvocato al Parlamento e sindaco della città di Amboise tra il 1766 ed il 1768».

Esageratamente vecchia, l’annotazione in questione, tuttavia non doveva essere. Infatti la fonte di questa notizia risale al Dictionnaire géographique, historique et biographique d’Indre-et-Loire et de l’ancienne province de Touraine (Tours – 1879) di Jacques Xavier Carré de Busserolle (1823-1904), opera uscita solo diciotto anni prima della morte di Stanislas de Guaita (1861-1897), di cui riportiamo per esteso la breve notizia (p. 384 del tome II):

«Coullon (Jacques-Jérôme), avvocato al baliato di Amboise, sindaco di questa città nel 1767-68, ha pubblicato un’opera intitolata Clef du grand Oeuvre, ou Lettre du Sancelrien Tourangeau. Dans la première sera enseigné où trouver la matière des sages. Dans la seconde les vertus et merveilles de l’élixir blanc et rouge. Corinthe et Paris, Callieau 1777, in 8°. Questa opera è dedicata a M.me L. D. L. B. T. D. F. A. T.  (Lefebvre de la Borde, tesoriere di Francia a Tours). Egli morì ad Amboise il 20 novembre 1789. – (Catalogue de la Bibliothèque de J. Tascherau, n° 1244. – Registri dello Stato Civile di Amboise)». 

Null’altro sappiamo, in assenza di una più estesa ricerca d’archivio: tuttavia la stringata notizia di de Busserolle ci riporta in Turenna, e precisamente in una città, Amboise, che è la patria di Louis-Claude de Saint-Martin (1743 – 1803). Al tempo in cui Coullon è sindaco di Amboise, Louis Claude ha ventiquattro anni. Sarà proprio suo padre che sarà il successore di Coullon alla guida della città, ed è quindi fatale che il giovane abbia conosciuto l’autore della Clef. Con una ricostruzione indiziaria ma non per questo improbabile, e senz’altro suggestiva, nel 1921 la scrittrice e poetessa Jehanne d’Orliac (1883-1974), scriveva:

« Un uomo, ad Amboise, precede suo padre nelle funzioni di sindaco; era Jacques-Jérôme Coullon, che pubblica in quel periodo un’opera singolare intitolata: Clef du Grand-Oeuvre
Jacques-Jérôme Coullon e Claude adolescente si incontrarono certamente e simpatizzarono. Quando egli vide Martinez de Paqually a Bordeaux, il giovane ufficiale era, se non iniziato, almeno informato….» (3).

La Clef è dunque, assai probabilmente, tra le prime letture alchemiche del Philosophe Inconnu, e, se non certo, il legame del giovane (e non necessariamente adolescente) Saint-Martin con l’ermetista Coullon è perlomeno assai verosimile.
Ma Saint-Martin non è certo l’unico lettore celebre della Clef.
Quando Victor Hugo fa discorrere il re di Francia con il tormentato alchimista di Notre-Dame, Claude Frollo, Hugo coglie l’occasione per mettere in scena, sulle labbra di Frollo, una lunga dissertazione sui principi della filosofia ermetica scolpita nelle mura delle cattedrale. Il re arriva accompagnato dal suo medico Coctier, sotto mentite spoglie. Il nome con cui si presenta a Frollo, naturalmente, è compare Tourangeau. Difficile immaginare che Hugo, che appare ben informato della materia (4) di cui fa discorrere i protagonisti del suo romanzo, non stia richiamando alla memoria Sancelrien.
Così come è difficile, per il lettore che apra la Clef, non notare l’assonanza del nom de plume scelto da Coullon con la divisa apposta in calce al frontespizio: in sale omnia, sine sale nihil. Senza sale nulla, Sancelrien, ovvero, foneticamente, sans sel rien, niente senza sale. Ed è al sale, il dissolvente universale della natura, composto, diceva Pernety diciannove anni prima del Sancelrien (5), di poca terra solforosa e molta acqua mercuriale, a questa sostanza in grado di decomporre i metalli, che è a lungo dedicata la trattazione contenuta nelle lettere di Sancelrien.

«… I chimici intendono per sale la materia sostanziale del corpo, di cui lo zolfo è la forma…
Terra fogliata dei Savi, o pietra al bianco, che è in effetti un sale, ma il primo essere di tutti i Sali, che non è stato estratto da alcun sale particolare…» (6).
 
Oppure, perché no, lasciandosi trasportare dal gioco ambiguo di assonanze della cabala fonetica, Sancelrien può anche diventare, con poco sforzo, sans ciel rien, variante, certo, dell’antico nil sine Deo, ma soprattutto senza cielo niente. Ed a questo punto, conviene ricordare ancora quanto dice, puntualmente, il Pernety sul cielo dei filosofi.

«Si prende anche come quintessenza o materia più epurata degli elementi. Tale è la pietra filosofale e l’elixir perfetto al rosso…» (7).

Come avviene spesso nella trattatistica alchemica settecentesca, la ricerca del contenuto alchemico nell’operetta è operazione non facile. I passi di valore alchemico e simbolico sono inframmezzati e diluiti in una congerie di descrizioni meravigliose, di lungi passi apologetici della Grande Opera che spesso, come si è accennato, sfociano ed indugiano nell’umoristico. Un palla di fucile fatta con l’elixir, nel fucile di un cacciatore attento, può uccidere fino a tre dozzine di pernici in un sol colpo. Tuttavia Sancelrien presenta una dottrina a suo modo solida, ha letto i classici e sa quello di cui parla. Il suo codice crittografico è ricco e funzionale. Egli non ha fatto la Pietra, lo dichiara alla sua corrispondente, ma la letteratura sull’argomento risulta solidamente frequentata, ed anche nei mirabilia sono riconoscibili prestiti e citazioni, talvolta letterali.
Come di sovente per i Filosofi ermetici settecenteschi francesi, che hanno ormai una ricca scelta di opere in lingua madre, la biblioteca di Sancelrien è tutta o quasi in volgare: i quattro volumi della Bibliothèque des Philosophes chimiques dell’edizione Cailleau (1740-1754), di cui il nostro autore afferma aver comprato i primi tre volumi nel 1756, e di cui sembra aver letto con attenzione evidente il Trevisano, Zachaire, Basilio Valentino; il Cosmopolita (la cui edizione francese – Cosmopolite ou nouvelle lumière de la phisique naturelle, Paris, chez Charles Hulpeau –  tradotta dal sieur de Bosnay risale al 1624), il Triomphe Hermetique di Limojon de Saint-Didier (Amsterdam, chez Henri Wetstein, 1699, poi incluso nella Bibliothèque), cui Sancelrien sembra tributare una stima particolare; D’Espagnet, la cui edizione francese dell’Enchiridion (La physique naturelle restabilie en sa pureté, Paris, E. Pépingué), risale al 1651; e, naturalmente, lo scrivano adepto, Nicolas Flamel, le cui opere volgari avevano avuto già varie edizioni prima dell’inclusione nella Bibliothèque. «Domandate a mio fratello i quattro volumi della Bibliotheque des Philosophes ed il mio Cosmopolita; – raccomanda alla sua corrispondente il Sancelrien – questi cinque volumi racchiudono tutte le mie citazioni». Fanno eccezione le opere di Arnaldo, di cui l’autore si preoccupa di citare un passo del testo latino originale, apponendovi la sua traduzione molto libera secondo un diffuso criterio dell’epoca.
L’unica edizione delle lettere del Sancelrien, tra XVIII e XIX secolo, è quella del 1777. Più recentemente, nel bicentenario della prima edizione, le edizioni Jobert di Parigi hanno promosso una ristampa anastatica priva di qualunque commento critico (ivi compresa la mera identificazione dell’autore).
Google libri, che però ripete acriticamente l’attribuzione al Cailleau, ha digitalizzato recentemente l’edizione originale mettendola a disposizione del pubblico.  
Quella che segue è la prima edizione italiana del testo.

Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

 

 

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NOTE. 
 

(1) Ad esempio nel frontespizio di L’Automatie des animaux; suivie de quelques réflexions sur le mahométisme et l’agricolture. Par un partisan de Descartes. A Costantinopole, et se trouve à Paris, chez Cailleau, 1783.
(2) Cailleau fu, probabilmente, l’ultimo editore dell’alchimista italiano naturalizzato francese: di tale autore il Cailleau padre pubblica, nel 1725, Les Principes de la Nature, suivant les opinions des anciens philosophes (ristampato nel 1731), e, postumo, nel 1734, l’Histoire naturelle de l’Univers.
(3) Le Philosophe Inconnu, in La Revue hebdomadaire et son supplément illustré, paraissant le samedi. N° 12 – 30e année – 19 mars 1921, pp. 328-339. La citazione è a p. 330.
(4) Difficile non notare nelle affermazioni di Frollo una competenza non superficiale.
(5) Dictionnaire Mytho-Hérmetique, Bauche, Paris 1758, p. 455.
(6) Idem, p. 456.
(7) Idem, p. 81.