Pagina on-line dal 05/05/2012.
Apparso in Propugnatore, n° 8, fasc.21, Bologna, 1891
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Nel rimettere in luce una lunga canzone sulla pietra filosofale, distesa sulla fine del secolo XIV da un Daniele di Giustinopoli, avvertii la scarsità di rime sull’alchimia [1]. infatti, mentre ne è ricca la letteratura medievale latina, e non ne sono scarse le altre, l’Italia fin qui non poteva addurre che due sonetti, a stampa fin dal secolo XV in appendice ad una Summa perfectionis Geberis, dove sono attribuiti a frate Elia e a Cecco d’Ascoli, il disgraziato autore dell’Acerba. Ai due sonetti io diedi compagna la canzone del capodistriano, ma non altri componimenti; quasi, a secoli di distanza, quegli affaticati e taciturni alchimisti riuscissero con qualche occulto adoperamento a nascondere alla curiosità indiscreta dei posteri i loquaci testimoni delle loro pazzie; o piuttosto il ferrigno aspetto dei codici d’alchimia irti di sigle, di lettere greche, di cifre, macchiati e rosi dagli acidi, logorati da dita use ai fornelli e ai minerali, fosse valso e valesse a spaventare gli studiosi. E come le rime di materia alchimistica sono appunto frammezzate alle ricette e ai segreti di quegli strani codici, naturale ch’esse dovessero vedersi ritardato l’onore della stampa, conteso loro da altri e più degni documenti letterari.
L’amicizia di Salomone Morpurgo, che resiste anche alla durissima prova di trar copia di simili versi, mi dà oggi il modo di aggiungere ai tre anzi detti più altri componimenti volgari di materia alchimistica dei primi secoli. Il lettore potrà in vero torcere il viso e brontolare: mancano forse altri e più degni argomenti di studio? mancano testi antichi, e sian pur rime, più degne della stampa? Ma dica pure, né io addurrò a scusa, troppo facile ed ovvia, l’esempio di altri, che si perdono in affannose ricerche di anche miniore importanza. A me sembrano degni di esame e di studio pur questi tentativi poetici dei poveri precursori delle ricerche che oggi son dette chimiche, e se non per la forma letteraria, sebbene anche sotto questo aspetto possano interessare lo studioso, per la sostanza.
Di alchimia e di alchimisti italiani, poco o nulla si seppe e si disse, poco si può dire e si sa. Che nei secoli di mezzo, anche in Italia l’alchimia abbia avuto molti seguaci, nessuna maggiore, né più bella testimonianza di quella di Dante, che nel profondo inferno costringe eternamente i falsatori alchimisti. Ma è una prova indiretta, perché i puniti da lui non sono i veri alchimisti, sì i falsi, che spacciandosi per alchimisti seri e fortunati, e usurpandone e macchiandone il nome e la fama, giravano il mondo fingendo di aver sciolto il problema cui gli altri continuavano indefessi a tentare; prova indiretta ma sicura, perché fingere di aver scoperto il segreto di far l’oro non si sarebbe potuto, se allo studio delle leggi della tramutazione metallica, alla ricerca degli elementi dai quali, combinati in vario modo, dovevano esser generati i diversi minerali – questo fu il problema propostosi dalla chimica medievale – non si fosse saputo universalmente che lavorava tutt’una schiera di uomini solitari, disposti alle fatiche e alle battaglie degli appartati laboratori: in una parola non si sarebbe potuta formare e sviluppare codesta escrescenza su un ramo dell’albero del sapere, se non fosse stato il ramo stesso, e ricco d’umori.
Ma a questa prova indiretta quante altre se ne aggiunsero? Il libri, che pur tante cose vide e seppe, nella sua Histoire des sciences mathem. en Italie (1838), dovette contentarsi di rilevare la mancanza di scrittori italiani d’alchimia dei primi secoli: benché in compenso di veri e propri trattati, sarebbe stato contento anche di prove indirette, cioè a misere poesie; ché i componimenti poetici son certo, sempre, prova evidente e piena, quant’altra mai, dell’esistenza e diffusione delle dottrine dei sentimenti, delle tendenze espresse nel giro dei loro versi. infatti anche il Libri, non appena ebbe scovato uno di tali componimenti, lo pubblicò: ed è il sonetto attribuito a Cecco d’Ascoli nella stampa quattrocentina prima citata, e nientemeno che a Dante nel codice onde quell’erudito lo trasse [2]. Ma il sonetto restò solo. Aspettando quindi che altri ricerchi i codici d’alchimia italiani, e veda se in essi sia del buono, scientificamente; se, di tra le varie operazioni, fatte a scopo di tramutar altri minerali in oro, pur qualche scoperta, qualche lampo di luce nuova abbia illuminato il silenzioso e affumicato laboratorio dell’alchimista italiano dei secoli di mezzo, e sia stato da lui fermato nel suo linguaggio enigmatico e simbolico tra le altre ricette, i versi latini e le invocazioni a Gesù, io ritengo di far cosa non del tutto inutile comunicando queste nuove poesie alchimistiche.
Due codici ricciardiani (n.i 946 e 3674) ci han conservato un manipolo di rime, del quale, oltre a sette componimenti per quel ch’io mi sappia non mai fin qui stampati, fanno parte anche i tre già conosciuti: ciò sono i due sonetti attribuiti a Frate Elia e a Cecco d’Ascoli, e la canzone di Mastro Daniele; questa in doppia lezione. Il che – e si aggiunga che uno dei nuovi componimenti porta, come si vedrà notevolissime traccie di imitazione della canzone del capodistriano – oltre a confermare la relativa diffusione di questa, permette anche di assodare che gli alchimisti italiani, accanto alle solite poesie latine di autori quasi sempre forastierii, ebbero pur delle composizioni poetiche volgari a compagne e guide nelle loro fatiche; e che queste anzi preferirono ben presto alle prime, attribuendole cervelloticamente ad uomini famosi: esse parlavano loro nella stessa lor lingua, li assicuravano che anche altri uomini, vissuti sotto lo stesso cielo, a non molta distanza di tempi o di luoghi, avevano sudato sullo stesso problema; ben valevano quindi, e meglio d’ogni altra scrittura, a confortarli e a sorreggerli, quando, spossati dallo studio degli oscuri e simbolici trattati e dalle lotte col fuoco, con le storte, con gli alambicchi, li prendeva lo sconforto: le notizie che già abbiamo, ci permettono di riporre sicuramente fra le poesie di questo genere i testi quasi poetici degli alchimisti italiani di allora: il sonetto attribuito a Ceco d’Ascoli, quello attribuito a Frate Elia o a Dante, e la canzone di Maestro Daniele di Capodistria [3].
Delle due lezioni di questa dico altrove [4]; qui metto in luce i sei componimenti del codice Riccardiano 946 e la canzone del 3674, che ritengo inediti e sconosciuti, e del primo riproduco anche i due sonetti già noti, perché non poco diversi dalle redazioni a stampa. Al testo porto soltanto quelle poche correzioni che mi paion più sicure e che sono necessarie a renderlo, sebbene non sempre, intelligibile, notando a piè di pagina le parole o i passi quali si leggono nel codice. Non aggiungo note dichiarative, se non taluna strettamente necessaria; chi desidera qualche maggior notizia sull’argomento o spiegazione della allusioni o della nomenclatura di questi componimenti, cerchi, se crede, la canzone di Mastro Daniele, e l’avvertenza e il commento che vi aggiunsi; sottometto invece alle strofe della nuova canzone quei passi dell’altra, di Mastro Daniele, al cui somiglianza o identità di forma e di sostanza dimostrano l’imitazione fattane dal nuovo e ignoto rimatore.
Il riccardiano 946 è un codice cartaceo, di cent. 21 x 15, di 82 carte, scritte da due o tre mani. La prima, del secolo XV piuttosto avanzato, scrisse il più, ciò sono molte ricette ed estratti di opere alchimistiche, e tutte le poesie. Gli estratti più lunghi sono, a c. 44a- 48°, del Geber: «In nomine Jhesu Christi hic incipit liber Geber de eodem» ossia « de lapide componendo» come è scritto in una ricetta precedente. Altro lungo testo, a c. 50b-68a , comincia: «Incipit quidam liber abreviatus aprobatus verissimus tesaurus tesaurorum, rosarius phylosophorum ac omnium secretorum maximum secretum». L’altra, o le altre mani, del principio del sec. XVI, riempirono di ricette le pagine lasciate vuote dal primo scrittore. Ecco i componimenti, nell’ordine in cui si seguono, interpolatamente, nel codice:
1.
[c. 9b]
A.D.B.
Voi pellegrini che andate in romitaço
cercando la scientia excelente,
La uostra serva va con lui in viagio,
monacho biancho pare a chi non sente;
Ma lo re dell’universo spati
di sciamito d’oro veste la sua gente,
e chollui si scontrò e folle e saggio;
colerico biancho fa el suo sergente;
Et è così benigno a chi l’ucide
che gli fa lume nella casa oscura
e di tristeça fallo ingiovinire.
Chi fa questo è di grande ardire:
Non altro che colui del quarto cierchio,
posto in lo inferno sotto il so martire.
2.
[c. 10.a]
Solvete e corpi in aqua, a tutti dicho,
Voi che cercate fare sole e luna,
delle due aque poi pigl[i]ate l’una,
qual più vi piace e fate quel ch’io dico.
Datela a bere a quel vostro inimicho,
sença mangiare, dicho, cosa alcuna,
e morto il troverrete riversso in pruna
dentro dal corpo del lione anticho.
E llì li fate la sua sepoltura
sì et in tal modo, che tutto si disfaccia
la polpa e ll’ossa e tutta sua iuntura.
Dell’aqua fate terra pura e netta,
della terra aqua e ll’aqua terra farete;
la pietra avrete da multiplicare.
Chi bene intenderà questo sonetto,
sarà signore di quello a chi è sugetto.
3.
[c. 10.b]
M. J. de [figura di un monticello] π.
Chi non sa solvere e asottigliare,
corpo non tochi nè mercurio vivo,
però che fisso non fa volativo
a chi non sa ben di dui uno fare.
Fa adunqua dui insieme abraçiare
con aqua-viti e con sal volativo
e con es-usto, per in fin che privo[5]
sia della madre che llo fe figliare.
Allora tien di fare la morte scura
e ‘l sole per ll’oriçonte aparire bello
e per lli fiumi hornato in sua figura.
Quest’è al pietra magna, quest’è quella (sic)
che da philosophi l’alta scriptura
batte l’ancudine col martelo.
E sì vilmente quest’è nostra intentione,
senç’essa e’ non si viene a perfectione.
4.
Idem.
[ibid.]
Io som la vera luce a diriçare
del sommo archimia ogni rustich’e sodo
animo, son colui che sença frodo
dell’arte nostra mostro ciò che si può fare.
Io som colui che chi mi vuole usare
da povertà lo spicho e da suo nodo
co’ l’arte, colla regola e col modo,
col suo bel fine, col suo coequare.
Corpo disfò e poi rifò un corpo
rimosso da (sua) materia, e dògli forma
sempre sguardando al velenoso scorpo.
Trago da sua materia e metto in forma (manca un verso)
coagolando con fuoco e con norma
Giamai non ssi disforma
dal tuo intelletto, se ben ài inteso
per questi verssi quel ch’io ti paleso.
5.
[11.a]
Ieber.
Quest’è la pietra magna benedecta
la qual tractò Ermete e Gratiano,
Elit, Rosir, Pandolfo e Ortolano,
Pictagora con tuta la sua secta.
Questa non si concede a gentileça,
né a belleça, né [a] essere humano,
di questo ogni pensiero torna vano
a chi per sua virtù la gratia aspecta.
Di gratia spetiale, da dio recetta,
basse vivande, vivere meçano,
sua residença stà’n piçole tetta.
De’ tu che miri la figura picta
riman contento, e bastite sapere
quanto el balestro la saecta gitta,
E nello amor di dio sta felice
e non voler saper quel che non lice! [6]
Seguono, a c 11b-15a, confusamente, travisate o manchevoli di versi, le strofe della canzone di Maestro Daniele, copiate dallo scrittore come fossero ciascuna un componimento a sé. E come componimenti staccati egli trascrisse le tre stanze che seguono, e che potrebbero anche essere tre strofe, malconcie, di una stessa poesia.
6.
[c. 15b]. dopo una ricetta scritta mezza in caratteri segreti:
Questa è la pietra che si va cercando
dagli archimisti per ogni sentiero,
da color che ànno l’animo sincero,
ma non dà que’ che vanno sofistando.
A tutti quanti lor vo’ dar[e] bando,
però che sono tutti ingannatori,
e non cognoschono e loro erori:
per tutto el mondo vanno trapolando.
Di solfo e di mercurio (ti) farò, quando
io vorrò, tutta l’arte a punto;
e co’ l’arsenico, ch’è ‘l terzo congiunto,
col sale armoniaco imbeverando,
farò di tutti quatro um congiunto,
putrefaciendo e poi lor calcinando:
E fassi un corpo, et è Elesir perfetto;
dicoti el vero, per Dio benedetto!
F.
7.
[c. 16a]
O archimisti ingrati, incredula gente
più che non fu Thomaso della fede,
andate sofisticando e nesum crede
la verità monstrata a voi presente.
Al petto vostro recate la mente,
chè, come dixe Cristo, più beato
sarà colui che non arà tocato
col dito la ferita tanto ulente.
Quest’è la pietra ch’è tanto lucente,
la qual trattò la gran Turba magna,
e dimonstrasi a ciascuno intendente;
la bella Rosa tratta certamente
delle scritture di quella conpagna,
la qual parlò sì scuro a ogni gente.
El sole colla luna intendi el mio parlare,
E col nostro mercurio seguitare.
F.
8.
[ibid]
Intendi e nota bem quel ch’io ti dico:
l’anima non entra se non col suo corpo
là onde ell’è cavata sença scorpo;
quest’è la verità o caro amico.
Se con altro congiugni el suo nimicho,
lavori in vano e perdi el tempo tuo,
però che l’altro non è fratello suo
E ll’opera tua non varrà un fico.
Ma quando si congiunge col suo antico
e tutti dui fanno coniuntione
nel ventre del lione a te saputo,
allora ti puoi tochare sotto al bellico
e dire: i’ son maestro certamente
e nessun altro non vale un lombrico.
Sarà Elesir perfetto, in fede mia,
e potrai combattere la Saracinia.
Poveri alchimisti! Si leggevano imposto in queste poesie, e seguitavano a raccomandarsi l’un l’altro basse vivande, vivere meçano e residença ‘n piçole tetta, e questi precetti seguivano certo alla lettera; e soffiavano e s’affaticavano alla ricerca di quella pietra magna, benedecta, fatta lor balenare dinanzi agli occhi da trattati e da poesie latine e volgari, che mostravano vicino, raggiungibile, lì, a stende di braccio, ciò che invece pareva allontanarsi, irridendoli, ognora più; ciò su cui e trattati e poesie picchiavano e ripicchiavano con quell’efficace pronome: «Quest’è la pietra… quest’è…. quest’è…. Eccola, ma lavorate, e senza voler sapere troppo, fede ci vuole, non dubbi, lavorare e non sofistare» … seguendo coi consigli velati con le semi-allusioni, con un dico e non dico, un vedo e non vedo che dovevano essere certo come terribili sproni al cervello degli alchimisti. Ma quale beatitudine però. il giorno in cui l’Elisir perfetto, premio ai loro sforzi, avrebbe luccicato in fondo al crogiolo, o sarebbe balenato pel vetro verde della fiala! Oh, allora sarà poco l’atto del maschio compiacimento, indicato nella fine dell’ultimo de’ componimenti su riportati.
Il quale, con alcun altro di quelli che lo precedono, corre disinvolto, indizio di un cervello che considerava l’arte, i suoi scopi e i suoi mezzi, non tra le esalazioni degli acidi e nel calore dei laboratori, ma dal di fuori, attraverso al finestretta del nero e rutilante picol tetto dell’alchimista. che questi versi sieno in burla dell’arte non è da pensare; se non altro, vi si oppone il luogo ove son conservati, e l’esservelo stati dalla stessa mano che nelle pagine precedenti e nelle seguenti a trascritto i trattati e le ricette che indicammo più sopra.
Poi che lo possiamo, risciacquamoci dunque un poco la bocca (tutto è relativo!) con codesta scioltezza, prima di metter la nostra navicella, per dirla con uno dei nostri poeti alchimisti, per acque più oscure, che, senza lucerna, dovremmo pur troppo in più d’un punto lasciar tali.
L’altro codice è il riccardiano 3674, è un cartaceo, di cm. 12 ½ x 10½, di minuto e brutto carattere della fine del XV° o del principio del XVI° secolo.
Le due prime carte, di mano più recente, contengono un indice di ricette.
A c. 4 si legge:
Ad bonam pastam utaris aquaque farina
nec non fermento modo simili lapide nostro
hac tria reperies dictis consimiles
Sunt in mercurio secreta reliquia mille.
e seguita fino a tutta la c. 5a.
C. 5b In nomine sce et indivudue Trinitatis. Incipiunt versus cuiusdam sapientis phylosophy subscriptis quidem versibus continentur tres lapides pretiosi quo oes phylosophi mirabiliter scrutati sunt sub arte alchimie nobilissima atque preciosissime.
Fili, doctrinam sanam tibi porrigo binam
hic amplexare tibi ne dominetur amare
vincula dissolve sapientum dicta revolve.
Primitus alchimiam disces, discesque per illam…
finisce a c. 7 a :
Artis complementum sub versibus cape centum
Christo crucifisso gratias agamus benedicto etc.
Explicitum carmina phylosophica.
c 8 a. Incipit medicina pauperum occultata arte inquirentibus sic in principio dicens:
in Ihesu Christi nomine
qui est salus fons et vite
in quo fulget ars fulgida
gratiarum munere
e seguita fino a c. 11a: «Explcit libellus nominatus lumen secretorum artis editus per Johem sacerdotem de Trezin, laborantium amatorem. Era incorrecta como sta».
C. 11b Spiritum volantem capite ecc., adesp. anepigr.
Est fons in limis cuius anguis ecc.
C.- 12a «Est fons in limis hic latet agris in ymis – Hii sun versus phorum de lapidibuus occultis benedictis, qui legit intelligat». È una redazione diversa dalla precedente [7].
C. 12b- 16a , la canzone che riproduciamo.
C. 16 a – 33a , ricette alchimistiche senza rubriche. si può notare, in cima alla c. 17a : «fr. Gabriel de M. ° Iohanni Antonio Barbaro» e alla c. 22a «Tomasso Perosino».
C. 34 a – 36 a, la canzone di Mastro Daniele, adesp. anepigr., di cui dicemmo sopra.
Ricette latine e volgari occupano tutto il resto del libretto. Il quale dovette passare per le mani di più alchimisti che aggiunsero di carattere cinque o seicentista ricette alle c. 7b , 20a, 51b, e in più luoghi postillarono e ritoccarono la scrittura originale, per renderla più leggibile. La diligenza di questi, posteriori, e quella pur del primo scrittore del codice, mostrata dalla annotazione in fondo alla c. 11a, e dall’altra in fine alla canzone che pubblichiamo, rendono il codicetto anche più curioso e, in materia, autorevole.
Ed ecco a canzone, per la quale valgano le avvertenze già premesse ai componimenti che demmo più sopra. L’invocazione non potrebbe essere più sonante e solenne!
[c. 12b ]
– I.
Succin[c]te, de elyxire naturale
cantati mai versecti ad turba indocta,
che como mal peocta
lagando i porti segue le vie frale 4
O somma causa, o majestà infinita
che tucto abraci: et tucto, in ogne parte,
le sacre sancte carte 8
te afferman pure con fede adempita,
adverzi el mio intelletto, alto tonante,
che festi l’alma nostra al to sembiante;
dégnate de mostrare l’ombra felice
de l’arte beatrice,
che copre quello che desidera omne core,
ad ciò remova ad multi el proprio errore [8]. 14
II.
XXXV anni per diversi lochi,
secuendo antiqui studii, ho consumato;
et demum me ha donato
Yesù cortese quello che non san docti. 4
Lassate, talpinelli, tristi et dolenti!,
solforo, gomme, Iove [e] ancora Marte,
perché ne la prischa arte
gli (alti) phylosophi mai non fer contenti; 8
pone da parte ove, pietre et capilli,
arsenico, risagallo in tutto vili,
ribrich, azoth, ernech e copperosa:
tre cose insemi poste et non confuse
fa[n] vera medicina alle mei muse [9]. 14
III.
El corpo, l’alma et el spirito divino;
tre non commisti, insegregabile ferno,
Cristo, che da l’inferno
recuperò li humani e ‘l padre primo, 4
sua possa in tanto amore se elustrando;
invisibiliter (et) farranno pioza,
lavando lumile foza
viscosa e putrefatta in dolze affanno: 8
et polve in veste lor possa sia ferma,
de cui la dolze et clarissima sperma
lepore se farrà in piccolo tempo,
et im breve momento
facendose medicina fina et pura,
parturirà, et piia sta figura [10]. 14
IV.
Quella fenice asyra d’anni gravata
essendo arsa in tucto et facta polve,
in se stessa resolve,
putrefà, lava stregne e fi sua nata: 4
de Maia el fio [d]el celo de la luna
con ale ai p[i]edi suole volare in terra,
e cercta, in iusta guerra
ad chi el prendesse, celsa virtù dona. 8
Ma possa che im pregione l’arrai incluso,
t[i]ello bene caro, salvando al vario uso,
fa non respire, perché como anguilla,
con tutta sua s[c]intilla
te scapparà de mano, volando in ethera,
et non porrai poi fare l’optata petra [11]. 14
V.
Cillemo e el primo theogeo e el secundo
calcina danno, o mese dovi fia ponto,
ché tucte cose è in proncto
nel tempo odierno al falzo mondo. 4
Ma una cosa hor divi advertire,
che fighi castangne non produce,
et questo te fia luce
adchiò non dichi possa mi (e) mentire. 8
Appollo visitando el suo dolce avo,
fulgente invene et radiante el cavo
solo, et accompangnato in altrui zelo;
come fi gito el gelo,
dilata le sue penne l’uzel pavo,
prepara rengno a si, qual ape el (fatto) favo [12]. 14
VI.
Luna, Diana et Proserpina tre volte
in se stessa contien et uno sol corpo;
Ad declarare me torpo
Più apertamente che non el sapian stolti: 4
Qui la materia et anche el pondo
vi ò mostrato socto umbra celante,
ma non che el docto amante
non possa spiculare per fin al fondo. 8
L’altro thesoro mostra primavera
et negra qualità, quando se interara,
farina macinando, all’ultimo acto;
Questo non è de patto,
per versi abbia a fa’ hormai compatimento:
el docto vedrà l’aureo talento [13]. 14
VII.
Zà quando Dio fece li elementi,
l’un per l’altro affinò, e quel pur lego
in alto, se bene vegio,
et volitò, et alterabilemente. 4
El vaso è appollo, el vaso è Cy[n]thia bella,
dai qual astran vigore le quinte essentie
cum alte sue potentie,
Et fan contenta l’alma talpinella. 8
Ma al tempo hodierno puol supplire
ad nostra voluntà et alto ardire
el lapi[s] convertibil in omne cose,
però che in quello se spose
el re fulgente, et porrasse vedere
incoronàto de razzi al tuo piacere[14]. 14
VIII.
Primo, segregarite i corpi, l’alma,
lo angnelico spiritu gentile,
che, certe, le sutile
sustantie se vanisce, e i corpi insalma; 4
Et per lo temperato pare de Cacho,
resuscitando, faran bona pasta;
hora questo te basta
a ddare ad tucti li altri sopraschaco. 8
El tempo te demonstra el seme humano,
chè in minor tempo dell’anno romano
liquefà, putrefà, coagula e fixa
in concordia et no’n rixa,
però che dui contrarij senza mezo
insembre stare non puolmo sopra uno sezo [15]. 14
IX.
Quando fia cocta, luce et como cera
fluisse, intra, retien, et convertisse
le medicine fixe,
sensa gridare o fumo, in fede vera; 4
la operation presto te noto:
prenderite una piccola particella
et zettale in la (tua) cella,
in Mongibello, quando suda el moto, 8
se voltarà el tucto in medicina;
de qual prendi una parte piccolina,
e quando la materia è fugitiva
gettala como prima,
notando i pesi, et serrà stella pura,
unde maturans laudetur semper natura [16]. 14
X.
Et perché lo elixire, per caldo oppimo,
quando facto serrà, haverà sete,
allora, si [n’] havrete,
l’aureo licor li iova, posto in fimo. 4
El temperato vulgano ti dà el fornello
che habia el bracio exteso, dove la boza
riposi in la sua poza,
e quando è el buso, virà el focho in quello. 8
Quisti fornelli in tucto non han pari,
de sopra inclus[i] e longhi como phari;
el carbon sentera’ su la gratella
e ‘l bracio sopra quella:
farai el tuo facto con pochi dinari;
abbasso fia la bocha per spirare [17]. 14
XI.
L’altro segreto, da non propalare,
ad voi dolci amici di sophia
dettato in cortesia,
el core atempto, stati ad ascoltare. 4
Quando la luna porrai nel vassello,
esguarda in sextili o trino el numptio et Iove
et Venus, cheli zove;
cada Saturno, et Marte suo rebello 8
sia in sua casa, o Tauro in augmento,
perché omnino te farrà contempto;
Et sopra tucto fa non sia combusta, [c. 15a]
che se serà perusta,
Mirandum est!, te pascerai de fumj,
et falsi crederati[18]. 14
XII.
Ma si del sol tu cerchi bono effecto
disscurra col suo carro el suo leone,
ariete o scorpione,
in sexto guardi Marte o trino aspetto, 4
el vechio cada, e’l meno sia in amore,
perché li cilesti corpi instantemente
sopra quatro elemente
potentia mostran de l’alto signore. 8
Contra detti pianeti tegnam locho,
in segno condicente al proprio jocho
stabile et fixo; notarai la meta
de la longa dieta,
quando l’elevarite dal justo focho,
lagandol lì freddare ad pocho ad pocho [19]. 14
XIII.
A[h] quanti sondo, che farria lo elisire
vero et approbato in bon juditio,
collo stusioso offitio!
ma spiriti maligni el suol vertire. 4
Bileth dig inferno iniquo e tristo
con suoi conpagni guarda omne thesoro,
et questo è offitio loro
per dar gran forze al futuro anticristo. 8
Idcirco, i gran talente, che li humane
trovassen quoquo modo in cenere vane
o polve, immutan presto, in quello istante
nel vaso fan sembiante,
che lo elixire al so oro non anteceda,
ad Cristo ogni huomo seguendo creda[20]. 14
XIV.
Perché tucte subtile et alte essentie
dal celo de la luna al fine al centro
non vorrebboncelo intro
nui sallire ad sue sede et sue potentie, 4
per tanto el mastro tengna vita santa
et habia uno solo in cui se fida,
ma contrario al re Mida,
seguendo sacra carta tucta quanta, 8
lagam David, lagam del suo figlo,
i sacri vinchi ancora e ‘l vario gilglio
ch’è in Razi e’n Yparco et altri auctori;
Dei quli recij el fiore,
et sopra ad tucto farrai tal calzina,
che non retorni ut prima in la focina. 14
XV.
Humil mei versi, si v’è domandato
chi v’à composti, fate tal resposta:
«Non è im potentia nostra
manifestare el nomo suo celato.
Nostro signore è richo et liberale
de verghe d’oro et d’arzento in quantitade,
dona a le sconsolate
vedovelle et donzelle et maritate,
sov[i]ene ad misere’ et sustien dolenti;
ma socto i vincli di soi sacramenti
spectando l’alto pregio, in ferma spene,
ad presso al summo bene,
ad cui fia manifesti tucti li acti
distanti e futuri tempi ancor transacti».
Al qual honor et cloria sempre sia
com virgene sua are dolce sempre Maria
Erano scripti scorrecti como stando.
E così, lamentato l’intervento dei diavoli, che, per serbar ogni ricchezza possibile all’Anticristo per il giorno della gran rivincita, sul più bello, quando proprio già nel vaso sta per formarsi la preziosa medicina, con un giochetto infernale, tutto sconvolgono, onde la medicina si converte sotto gli occhi sbarrati dal povero alchimista in cener vane; cercando per tal modo di spiegare e scusare il nessun risultato di tanti assidui tentativi e di moderare negli operanti lo sconforto aggiungendo loro nuova lena e pertinacia quasi rabbiosa, per la coscienza di un tanto nemico; picchiato anche una volta sulla necessità che ne consegue per l’alchimista, di condurre una vita santa, solitaria, tutt’ al più con un solo e segreto compagno; accennato ai libri dell’ arte, dai quali ogni operante deve raccoglier il fiore, non mai stancandosi nell’ interpretarli, nel provare e riprovare, l’autore della canzone, meno cortese di maestro Daniele, si congeda senza palesarsi, ripetendo anche una volta, da buon alchimista, ogni possibile aiuto nell’arte da Gesù, col nome del quale e della Vergine la canzone si chiude.
Non manifesta l’autore il suo nome; ma ne tradiscono la patria non poche forme speciali del dialetto che dovette essere il suo, ch’ egli lasciò penetrare nelle strofe, tra gli abbondanti latinismi. Infatti, forme quali pioza, sezo; boza; mezo, poza; dolze, calzina; uzel; arzento ; za, zove, zelo; buso; fio; dig inferno; fighi; ponto, longa, longhi; homo; mei, al to’, mi, te (dat.) ; la 3a sing. del verbo per la 3a plur.; pare, mare; lagando, lagandol, lagam, ecc., permettono di dirlo veneto, e, anche più precisamente, forse, veneziano, che sa le varie specie di barche solcanti e acque del suo Adriatico, e quindi anche le peocte ( str. I, v. 3), speciali di questo mare.
In riva al quale ricondotto, non meraviglieran più il lettore dell’oggi le molte e strette affinità e l’identità del metro della sua canzone e di quella di maestro Daniele[21]. Lasciando l’ipotesi che ambedue possano essere di quest’ultimo; naturalissimo che da Capodistria a Venezia, o, per Venezia, in qualche luogo vicino, o da Capodistria ad una cittadetta qualunque dell’ Istria stessa o del resto della costa che ricinge in ampio abbracciamento l’Adriatico, si propagasse, inducendo desiderio d’imitazione e offrendone lo schema, la lingua, il frasario, una canzone cosi notevole per abbondanza di indicazioni minute e di avvertimenti sull’ arte misteriosa e allettatrice, qual’ è quella del maestro di Capodistria.
Alla quale, la presente, di padre ignoto, chiede di andare d’ora innanzi strettamente unita, come sorella.
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[1] Una canzone capodistriana del secolo XIV sulla pietra filosofale, nell’Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino, vol. IV, pp. 81-117.
[2] G. Libri, Notice des mss. de quelques bibliothèques des départements. Troisième article. Nel Journal des Savants (Paris, impr. Royale), année 1841, pag. 547-554. – A pag. 551-2 il Libri parla dei mss. di provenienza Albani, fra i quali del n° 493: «un volume petit in 4°, intitulé Tractatus chimicae. Le ms. sur parchemin est du XIV-XV siècle»; e ne dà in nota il sonetto, con qualche scorrezione e saltando il verso 8; non ritenendolo però di Dante. – Dallo stesso codice lo pubblicò poi il Castets (Sonnet contenant une rechette d’alchimie attribué a Dante e au frère Helyas, nella Revue des langues romanes, III série, tome IV, p. 76-79), rilevando le inesattezze del Libri e dando del codice e del sonetto qualche maggior notizia: il ms. H 493 di Monpellier è una raccolta di trattati alchimistici in latino, scritta certamente in Italia, perché a c. 192 porta la data «1459 in Neapoli». Il son. è a c. 248r, in caratteri più grandi e regolari del resto del codice. – Lo riproduco perché ha non poche diversità dalle due lezioni della stampa quattrocentina, che ne ho dato nell’articolo sopra citato dell’Arch. Stor. per Trieste ecc., pag. 94-95.
Motivum vel sonetum Dantis prhilosophi et poetae florentini.
Solvete li corpi in aqua a tutti dicho
Voi che volete fare o Sole o Luna;
Delle due aqque poi pigliate l’una,
Qual più vi piace, e fate che ch’io dicho.
Datela a bere a quel vostro inimicho
Senza darli a mangiare chosa neuna.
Morto il vederete, choverto e bruno,
dentro del corpo del Leone anticho.
Poi gli farete la sua sepoltura
Per intervallo, si che si disfa[c]cia
la polpe, l’ossa et ogni sua giunctura;
Poy, facto questo, facte che si faccia
Del’aqqua terra che sia netta et pura,
La pietra havete, anchor che altro vi piaccia.
Della terra aqqua, dell’aqqua terra fare:
Così la pietra si vuol multiplicare.
E seguono, scritti più minutamente, i due versi:
Ceh (sic) bene intende e pratica ‘l soneto
segnor sarà di quel ch’altri è sugetto.
Concetto espresso di solito in fine alle poesie alchimistiche, anche latine. – Cfr. Mazzatinti, Inventari dei MSS. italiani delle bib., di Francia, vol. III, pag. 84: Montpellier, n° 47. – L’attribuzione del sonetto a Dante non deve meravigliare; si veda il cit. Arch. stor. per Trieste, ec. p. 96 e 99.
[3] Infatti (non sarà inopportuno il raccoglierne qui le notizie) il sonetto attribuito a Cecco d’Ascoli si legge, oltre che nel presente codice ricc. 946 e nella stampa della Summa Geberis del sec. XV, nel Magliab. 3, cl. XVI (v. Arch. stor. per Trieste, ecc. p. 94, n°1); quello attribuito a Frate Elia, in lezione quasi sempre diversa, e profondamente, sì da dover supporre più altri codici, o anche una tradizione orale diffusa, nei Ricc. 689 e 984, nel Senese Comun. L. X. 29, nella Summa Geberis, in un cod. Magnani adoperato dal Crescimbeni (per queste cinque redazioni vedi Arch. Stor. per Trieste, p. 91, 93, 6), nell’H 493 di Montpellier, e nel Ricc. 946; la canzone di Mastro Daniele, nel Marciano latt. CCCXXVI, nel Ricc. 3247, nel Landau 173, nel Senese L. X. 29, nella Summa Geberis¸ nel Nazari (per queste sei redazioni e loro rapporti v. Arch. Stor. per Trieste, p. 96-8. Nel Ricc. 946 e nel 3674, dove pure l’altra lunga canzone attesta con l’imitazione fattane, meglio ancora di una semplice copia, la diffusione e l’autorevolezza delle strofe di Mastro Daniele, delle quali un’altra copia ancora, di mano del XVI secolo, si legge in un foglietto di recente acquistato dal dott. Francesco Roedinger, cui devo la cortese comunicazione.
[4] Nell’Arch. stor. per Trieste, l’Istria e il Trentino, vol. IV, fasc. 3.
[5] 3: – v. 5, adumqua¸ v. 7, es usto (aes ustum), così credo vada inteso e corretto il lemtusto del cod., v. Canz. di m. Daniele, str. XII.
[6] 5: – v. 3, cortolano; v.8, suo; v. 11, suo; tetta, cioé tecta, tetti. Il v. 12 mostra che nel testo originale il componimento accompagnava qualche figura simbolica, allusiva all’arte; forse Geber stesso con la pietra in mano.
[7] Queste due poesie latine (Spiritum volantem; Est fons in limis) fanno compagnia alla canzone di Mastro Daniele e ai sonetti di Frate Elia e di Cecco d’Ascoli nelle ultime carte della stampa più volte citata della Summa Geberis.
[8] Str.I, v. 1, 5 e seg., Canzone di Maestro Daniele, str.1:
El me dilecta e dir brievemente
………
Però nel prego la summa clemenza
che me conceda grazia d’aperire
ogni secreto dire… ;
e si vegga l’invocazione latina della strofa XVII.
V. 9, cod. adversi. – V. 12, non ci mancava che la beatrice col b piccolo!.
[9] str. II, v. 1-3, Canz. di m.° Dan., str. XVI
Non so se debia dir li vasi e ‘l pondo,
Quia quaesivi pluries quinque lustris
In novis et vetustis
Libris per diverse parte del mondo
Con molte fatiche, spese et afanni,
……………………….
Per spacio et ultra del XXV anni….
Str. II, v. 6, 9-11, idem, str. IX:
……………………….
Chi la chiama Gumi
E chi Mercurio, Solfor, Iove e Marte;
…………………
E ciascuno vi metti
Diversi nomi, fin a Risagallo,
Ovum capilli, Lapis mineralis,
……………………….
Arsinico e Orpimento e Draco
E Sal armoniaco,
Coperosa, Basilisco e Sangue,
Latton, Azoth, Zernech, Chilbrith et Angue.
V. 7-8, idem, str. X:
Per questi vari nomi son decepti
Molti incliti savii e circumspicti…
v. 13, idem, str.I
Sole Luna, Mercutio si te basta
A far la bona pasta…
e str. III:
Mercurio, oro e argento,
Insieme tutti e divisi ciascuno.
[10] Str. III, v. 1: M.° Dan., III, 4:
L’anima e’l corpo e ‘l spirito.
Str. III, v. 11, lépore (lévori, in F. Paolino Minorita, ediz. Mussafia, X, 47).
[11] Str. IV, v. 1 – 4: Canz di M.° Dan., str. V:
… in un sol fornello:
Qui se sublima, solve e distilla,
Lava, descende e humila,
Incera,. putrefà, calcina e fixa;
Qui se occide e suscita se ipsa.
V. 5: così credo di poter correggere, quasi l’autore abbia inteso di alludere alla parte principale che nella composizione dell’Elixir, dovevano avere il mercurio (fio de Maia) con l’argento, cui dei pianeti rispondeva come simbolo la Luna (celo del Luna). – V. 14, cod. preta.
[12] Str. V, v. 2: una postilla marginale di mano del XVII sec. spiega l’o mese con o mette (?), ove fia ‘l ponto (punto).
v. 5 � 6: M.° Dan., str. XI:
Ché chi semina fava over faxoli
Non pò ricolier grano né pizoli.
V. 9, Saturno; v. m.° Dan., nota alla strofe Ia. – V. 13, nel cod. sopra la z d’Uzel un’altra mano segnò una c.
[13] Str. VI, vv. 1 – 6: m.° Dan., str. XVI:
Non so se debia dir li vasi e’l pondo
………………….
Anche è descritto per vera figura
Lo vaso la materia e la mesura.
V. 5: il Cod. ha Lui la m, et inche ecc.
Str. VI v. 9 -11: m.° Dan., VI:
La pietra nostra è….
preciosa….
Ancora mostra de molti colori
Com’un prato di fiori,
Ma poi nel nigro ogni color si tacca;
Apresso al fine ti mostra di biacca.
v. 11: i cod. alluctimo – v. 13: così ridussi quel che nel cod. si legge: per versse abbia far hormai compatto.
[14] Str. VII, vv. 1, 6 – 8, m.° Dan., II:
Alcuni hanno divisio li elementi,
L’acqua de l’aere dico, e quel dal foco;
…………………………………
Poi li han congiunti insieme in una essenza
Con la virtù de la quinta essenza….
v. 5, m.° Dan., XVI:
Non so se debia dir li vasi e ‘l pondo
…………………………………
El vaso la fiola de Latona (Cynthia)
E li pianeti lo peso ti dona;
Quella in sua forma, e quelli in algorismo.
v. 8, cod. anima.
[15] Str. VIII, v. 1. Nel cod. la str. com. col v. 2, e ha invece aggiunto in fine quello che certamente è primo; lo rimisi al suo posto.
v. 1-2, m° Dan., str. III:
Ma nota ben che non fussi in errore,
Che l’è una cosa sola in che son fitti,
Li elementi predetti;
L’anima e ‘l corpo e l spirito e l’humore;….
v. 5. Nel cod., cacho fu corretto d’atra mano, sopra una parola inintelligibile. E si può asserire giusta la correzione: il padre di Caco è Vulcano, ciò è il fuoco, principale aiuto degli alchimisti; m.° Dan. str. V:
Poi la pone nel suo dolce letto
E qui la cuose fin che l’è perfetta.
Ma nota ben la meta: che nel vulcano sta tutto l’effetto.
E tutta l’arte fanno en un vasello
Con lento foco…
id. str. XIV:
Guàrdate molto da foco excessivo…
v. 6, m.° Dan., str. IV
Quando componi, non t’esca di mente
Che a far la pasta che sia bona e fina…
id. str. V:
Qui se occide et suscita se ipsa.
v. 8: il soprascacho lo dà molte volte anche il nostro autore a tutti gli altri, in oscurità!
v. 9 – 10, m.° Dan., str. VI:
E non fazo però che non ramenti
Del tempo, nel qual molti son decepti,
…………………
El minor tempo è di nove mesi….
v. 14, cod. senso.
[16] Str. IX, m.° Dan., str. VII:
Poi, per decozione più lontana
Deventa tutto quanto in color d’oro…
………………….
Zioè se fuma o crita,
………………..
Id. str. VIII:
…quel ch’io dico non tener a vile.
Piglia una dramma de la medicina
E diese dramme de mercurio mondo,
E mettilo nel fondo
Del foco ardente dentro alla fucina:
Poi che ‘l servo comenza a figure
Fumando, metti dentro lo elixire,
E tutto se converte in medicina,
Dico perfetta e fina
De la qual butta un pexo sopra cento,
E trovaràti de l’opra contento.
Et sic lapidem hebebitis gaudebitis, termina una poesia latina citata più addietro (Spiritum volantem, v.- qui dietro a pag. 401, n. 2), ed è fine comune a più poesie di questa materia.
[17] Str. X, v. 5, nel cod. sopra la g di vulgano fu segnato, d’altra mano, una c; – v. 6, boza, veneto, boccia; poza, pozza.
Canz. di m.° Dan., str. XIV:
Olio e carboni, poi del fimo, basta;
E guarda chela pasta
Mai non sia priva del mercurio vivo.
…………………………
Però governa el draco
Como ha bisogno da bere e manzare;
Nella canzone del capodistriano non sono gli ammaestramenti e consigli intorno alla forma migliore del fornello, com’è in queste strofe: la cui descrizione non deve meravigliare chi pensi alle strane forme di quelli e delle storte dei laboratori non pur degli alchimisti, ma dei chimici d’oggi. Nei codici e nei libri stampati d’alchimia son molte volte le figure di codesti aiuti dell’arte, degne di osservazione, perché testimoni, sebben rozzi, dei continui tentativi di perfezionar gli strumenti.
[18] Str. XI, v. 6, el nunptio, cioé Mercurio; – v. 7, zove, giovi; – v. 13, te pascerai de fumj; questo, purtroppo, dovette essere il risultato della maggior parte dei tentativi degli alchimisti. Cinque F acquista l’Alchimista: fame, freddo, fatica, fetor & fumo, era ormai passato in proverbio, fermato nell’Armonia con soavi accenti del novo fior di virtù. Racolto da diversi autori, In Modena, s.a. (fine sec. XVI). [Giornale di erudizione, febbr. ’91; risp. di M. Menghini a una domanda su Le tre F].
[19] Str. XII, v. 14, lasciandolo lì; cod. lagandoli, e sopra il g fu segnato un s; si potrebbe leggere anche lagandolo. – Con un po’ di coraggio ho reso intelligibile, in scorpione, l’esirone che il cod. ha al v. 3: si deve trattare di un segno del zodiaco (non intraprenderai la tua operazione, se non quando il sole sarà in Leone, in Ariete o in…) e fra i segni dello zodiaco, che terminano in one, oltre a Leone la scelta non poteva cadere altrove; è vero però che in altri passi della canzone lo Scorpione è espresso, con forma vicina alla latina, scorpo. – El vechio del v. 5 intenderei Saturno, e si capisce facilmente(v. anche str. antecedente, v. 8, cada Saturno) e nel meno vedrei il cielo minore, cioé la Luna. tutta codesta astrologia alchimistic, la quale all’ingoto autore piacque tanto, che vi si distese per quasi due strofe, è ristretta in pochissimi versi da maestro Daniele; str. VII:
E guarda ben che medicina alcuna
Non poni se non sopra sol e Luna.
E str. XVI:
El vaso la fiola de Latona
E li pianeti lo peso ti dona;
Quella in sua forma, e quelli in algorismo.
e si noti che del vaso discorre anche il nostro anonimo, in luogo speciale, nella strofa VII.
[20] Str. XIII, v. 5, cod. inicho; – v. 9, cod. gram; – v. 14, cod. credo.
[21] In maestro Daniele 18 strofe; nella nuova 15; di quattordici versi ciascuna: due piedi di quattro versi, il terzo settenario, a rima baciata; una volta di tre coppie d’ endecasillabi , meno il secondo della seconda copia settenario, rimali a due a due: A B b A, C D d D , E E F f G G. La canzone nuova ha aggiunta all’ ultima strofe una coppia di più, H H.