Pagina on-line dal 05/05/2012.

Oddone Zenatti (Trieste 1866 – Roma 24 giugno 1902), nonostante la sua breve vita, fu un noto e rilevante filologo e dantista triestino, autore di un importante studio su manoscritti di Fancesco Patrizi (Francesco Patrizio, Orazio Ariosto e Torquato Tasso: a proposito di dieci lettere del Patrizio finora inedite, senza data ma fine ‘800). Oddone era il fratello minore del più longevo e noto Albino Zenatti (1859-1915), anch’egli valente filologo e Ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione. Entrambi furono in corrispondenza con i maggiori studiosi del tempo, ed è noto un loro carteggio inedito col filosofo Benedetto Croce. Essi condivisero lo studio appassionato della storia locale e del dialetto nativo (si veda Una centuria di proverbi trentini, del 1884, firmato a quattro mani dai due fratelli, o il saggio di Oddone La vita comunale e il dialetto di Trieste nel 1426, studiati nel quaderno di un cameraro, del 1895). Degli studi danteschi di Oddone ci rimangono, tra le altre cose, il breve saggio La Divina Commedia e il Divino Poeta (1895) ed la raccolta Dante e Firenze: prose antiche, con note illustrative ed appendici di Oddone Zenatti, uscita nel 1903 e recentemente (1984) ristampata con una prefazione di Franco Cardini. Nel 1900 il Zenatti curò, per i tipi della Società Editrice Dante Alighieri, anche un’edizione di brani scelti del Commento sopra la Commedia di Dante del Boccaccio.    
Il lavoro di Oddone che presentiamo di seguito, testimonianza del multiforme e versatile ingegno e della curiosità intellettuale del giovane filologo, apparve in Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino vol. 4, Roma-Firenze 1890, pgg. 186-192, e costituisce il seguito e l’approfondimento del lavoro principale sulla Canzone di Rigino Danielli già apparso Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino, cit., vol. 4 pgg. 81-117, con il titolo Una canzone capodistriana del secolo XIV sulla pietra filosofale. L’anno dopo, lo Zenatti ritornerà ancora una volta sulla poesia alchemica in Nuove rime d’alchimisti, apparso ne Il Propugnatore, 1891, vol 4 fac. 21 pgg. 387-414. 
La canzone di cui si occupa lo Zenatti, collazionando un certo numero di versioni, è effettivamente uno dei componimneti alchemici in rima più diffusi della tradizione manoscritta. A parte le edizioni dei codici citati dallo Zenatti nel cit Una canzone capodistriana e nel saggio presente, è possibile incontrare il componimento in numerosi altri codici d’alchimia. Abbiamo trascritto e pubblicato di recente, tra diversi componimenti inediti d’alchimia, la versione di un codice membranaceo del XV secolo della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli (VIII – D – 20, un codice a suo tempo citato anche dal Carbonelli) confrontandola con un’altra edizione contenuta in altro codice della stessa biblioteca (VIII – G – 70), nel nostro Di alcuni componimenti di materia alchemica in rima volgare (dai fondi manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli) in AA. VV. Alchimia, a cura di A. De Pascalis e M. Marra, Mimesis, Milano 2007, pp. 189 – 212.
Per quanto concerne le edizioni a stampa della canzone, a quelle accortamente citate dallo Zenatti (l’edizione veneta della Summa perfectionis Magisteri di Geber del 1475 e la versione contenuta nel Della tramutatione metallica sogni tre di Giovan Battista Nazari, bresciano, Brescia 1572 e la seconda edizione accresciuta de 1599) bisogna aggiungere la rarissima Canzone di Rigino Danieli Justinopolitano Nella quale si tratta tutta la filosofica arte del precioso lapis de filosofi, con tutti li necesari avvertimenti … et una lucidissima & utilissima espositione della stessa di Casparo Ottaviani Cantù. in Padova, nella stamperia Penada 1710. In tempi più recenti la versione del Nazari fu ristampata, priva di qualsiasi commento, nella rivista ermetica Commentarium, diretta dal Kremmerz, nel n°1 del 1911

Massimo Marra – Tutti i diritti riservati ©, riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

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Oddone Zenatti

NUOVI TESTI DELLA CANZONE CAPODISTRIANA SULLA PIETRA FILOSOFALE

Agli esemplari della canzone di Mastro Daniele da Capodistria sulla pietra filosofale, che già feci noti in questo Archivio (1) posso aggiungere oggi tre altri, novella prova della diffusione di quelle stanze tra  gli alchimisti italiani dei secoli XV e XVI. I quali non istettero contenti a trascriverla di libro in libro, o, come anche par certo, dalla memoria, cui l’avevano affidata, ma la imitarono: ne sia prova una canzone in 15 stanze d’identica struttura metrica, composta, poco tempo dopo il modello, da un altro veneto, al quale, per non ingombrar di troppa alchimia le pagine dell’Archivio, pubblicai altrove di recente (2).
Dei tre nuovi esemplari della canzone di maestro Daniele, uno sta in un foglietto di mano della fine del secolo XVI, di recente acquistato dal dott. Francesco Roedinger, ma non è se non una copia della canzone, quale si legge nel libro di Nazari e nel codice Landau; il che risparmia a me ed al paziente lettore di spendervi più parole e più tempo.
Gli altri due son contenuti nei codici Riccardiani 946 e 3674. Di questi manoscritti ho dato maggiore  notizia dove pubblicai la canzone imitata da quella del maestro capodistriano; qui basti sapere che il 946 contiene di scrittura del secolo XV piuttosto avanzato, con interpolazioni di mani più recenti, estratti di opere alchimistiche, ricette, la canzone di maestro Daniele, i due sonetti attribuiti altrove a Frate Elia e a Cecco d’Ascoli (3), e sei altre poesie alchimistiche pur da me pubblicate (4). La canzone di Maestro Daniele vi si legge a c. 11 b – 15 a, ma in disordine e mancante di versi e delle intere strofe IX e XVII; difetti che si spiegano col fatto, curioso e degno di nota, che le strofe furono trascritte, come se ciascuna o due di esse, malamente unite, formassero un componimento a sé, tanto che ognuna di queste serie è chiusa da una F (inis), e alcune sono date, con brevi didascalie, a tre diversi cultori, o presunti cultori dell’arte di Ermete; perfino, si noti, l’ultima strofe, che pure così chiaramente indica il nome, la professione e la patria del vero autore: nessuna maraviglia che, in codesto rimaneggiamento venissero messe in disparte le stanze della canzone più ostiche a ricordare e a trascrivere, cioè appunto la IX, tutta composta di strani e difficili nomi tecnici, e la XVII che contiene l’invocazione latina a Gesù, abbastanza involuta. Quest’ultima, che già abbiamo veduto mancare anche nel codice Senese, fu ommessa pure nel Riccardiano 3674, di cui dico più sotto, dove però fu aggiunta in fine, come componimento staccato. Notevoli, del resto, anche codesti guasti e pervertimenti, perché propri solo di scritti molto divulgati.
Le strofe si leggono nel codice 946 nel modo che segue: è prima la strofe V, che viene attribuita a San Tommaso (indicitur sancti Thome), con sotto un f (inis); la II fusa con la III (mancante dei versi 1 e 10) in un sol componimento chiuso dalla solita F, la IV, la VI con a capo un yhus e in fondo l’f; la VII, senza gli ultimi tre versi, fusa con la VIII, e con la solita f; manca la strofe IX; la X con aggiunti i versi 1, 2, 4 dell’XI, il tutto chiuso dall’f; i versi 5-14 della XI con la f; gli ultimi otto versi della XII con la f; la XIII scritta con inchiostro violetto; la XIV con sopra: Monetu phylosofus; la XV, mancante del verso 12, intitolata: S. Thomas de Aquino con la f; la XVI, F; manca la XVII; la XVIII: Morigenes Philosofo (segue una sigla), f.
Il codice appare scritto da un toscano e più precisamente da un fiorentino, che cercò di ridurre le originarie forme venete a quelle della sua parlata e della sua pronunzia (5). Quanto alla lezione, si può dire che nei singoli brani, nei quali il componimento è stato smembrato, toltene poche grossolane scorrezioni, è discreta, e s’accorda non poco con quella che si legge nella stampa quattrocentina della Summa Geberi
Anche nell’altro codice, il Riccardiano 3647, di pessima scrittura della fine del secolo XV io del principio del XVI, ma autorevole per la cura messavi da trascrittore (attestata, ad esempio, da avvertenze come queste: Era incorrecta como sta, Erano scripti como stando, aggiunte in fondo a due poesie a c. 11a e 16a) sono raccolti trattati, ricette, poesie latine e due canzoni volgari, quella imitata (c. 12b – 16°) cui già accennai, e la nostra di Maestro Daniele (c. 34a-36°). La quale è scritta nell’ordine solito, tranne che l’invocazione latina (str. XVII) è aggiunta in fine, a sé, con la didascalia Eiusdem Danielis Oratio, mentre al suo posto, nella canzone, fu inserita un’altra strofa volgare, stesa, a dir vero nella stessa parlata veneta delle altre (oltre alla veste generale si badi al cale del v. 7), ma di diversa struttura metrica nella seconda parte, e pochissimo o niente legata, per il contenuto, al resto, così che bisogna dirla certamente intrusa. Eccola.

Io ho parlato fine qui tanto aperto
Che ciascuno intellecto che in lor sanno
El serà fora de inganno
Conn quello che de sopra ve ho scripto;
Ma per cavare omne dubio de mente,
sì certo questa pietra naturale
trovasi ne le cale
calcata sotto li pié de la gente.
Et una sola sperma naturale,
et senza quella niente puoi trovare
nell’arte sia cosa sufficiente,
sofistica né fina mai non vale,
et non è oro… minerale
et non è mercurio vulgi, e non fallare.

Gli ultimi due versi sono ricorretti da altre mani e quasi inintelligibili. Le altre strofe si seguono nell’ordine naturale, e son tutte regolari, tranne la XII, cui mancano i versi 6-8.
Anche la lezione di questo codice, molto migliore di quella dell’altro Riccardiano, s’accorda con la stampa quattrocentina, anzi l’accordo è talvolta così notevole da far supporre un comune esemplare, cui abbiano attinto la stampa e il trascrittore del codice. Il quale, da alcune forme dialettali (humane, tante, fiche, misere, dolente, plur. Masch.; quisti, joco; multe fatighe; mundo, brunzo, fiuri; lammicho; sondo; stando, fando) sfuggitegli dalla penna e in questa e nella canzone imitata, parrebbe meridionale.
Ma i nuovi codici non giovano soltanto a mostrare la diffusione della canzone istriana, sì anche a migliorare in qualche punto il testo ch’io già ne diedi seguendo il codice Marciano come il più antico e quello in cui meglio s’era conservato il carattere dialettale del componimento. Così nella strofe II i versi 3 e 4, secondo il codici R2 (Riccardiano 946) e R3 (Riccardiano 3674), coi quali s’accorda la stampa G (eber), si potrebbero leggere:

ogni corpo imperfecto
Hanno sanato et varie malatie;

i versi 5-6, seguendo R3, cui, dei già noti, s’accompagna S (il Senese L. x. 29):

Alcuni hanno divisi li elementi
L’aqua da l’aere e la terra dal foco;

il v. 7, seguendo R2, R3, R (Riccardiano 3247), L (Landau 193) S, G:

Et poi a poco a poco…;
nella str. III il v. 11, seguendo R2 e R3, coi quali s’accordano pur gli altri meno M (il Marciano):

Più chiaro exemplo non te so trovare;

i vv. 12-14, seguendo specialmente R2 e R3:

Però debi notare
Ad che tu poni mano et poscia pratica
Ch’alcun se ten maistro et multo ratica;

nella str. V, v. 1, in luogo di rotente si potrà leggere, con tutti i codici meno M, recente: nella VI, v. 14, secondo R2 R3 G S: si mostra; nella VIII, v. 9, seguendo R2 R3 R G N (stampa del Nazari):

Poi che ‘l servo cominza a fugire

(v. la nota a questo verso nell’Arch. fasc. cit.,. pag. 110); nella str. IX, v. 9:

Piglia donca el mercurio puro e mondo

Come hanno tutti li altri codici, meno M: nella XIV, v. 10, seguendo R2 R3 R S:

ch’a tutta l’opra dona gran remedio;

nella XV, v. 5, seguendo R2 R3 S G, con poche varietà di gafia:

Poi che ha cacciato el morbo, se defende;

nella XVII, vv. 5-6, seguendo R3 con l’ommissione di un et:

Tu cuncta[m] fidem Verbo redemisti
Spiritus sancti gratia (et) caritatis;

nella XVIII. V. 13, secondo R2 R3, in luogo di nostro, vostro di che dico più sotto.
Nell’esaminare gli ultimi versi di commiato, che suonano in tre dei quattro codici da me allora conosciuti:

De Iustinopoli è ‘l vostro fidele
Grammatice professor Daniele

E la didascalia d’uno dei codici e d’una stampa (Canzone di Rigino Danielli Iustinopolitano), cercando di sgomberare, per qual poco ch’era possibile, il terreno dalle difficoltà che potevano insorgere intorno il nome e la patria dell’autore, osservai che in Rigino Danielli «contro le parole stesse dell’autore, avremmo un Daniele Rigini, chè intendere Rigini per da Reggio ripugna per molte ragioni; fra le quali la scorrezione grossolana che se ne avrebbe, e il dialetto veneto proprio dell’autore della canzone. Nella scarsità di notizie è però necessario tutto osservare, e il dirsi Daniele fedele de Iustinopoli potrebbe invero far pensare ch’egli non en fosse nativo, ma, dopo aver forse anche altrove esercitata la sua professione, dimorasse a Capodistria in qualità di maestro, chiamatovi da quel comune, sempre curante della pubblica istruzione. Ma rendendo conto del mio lavoro nella Provincia dell’Istria, Paolo Tedeschi osservò acutamente che Rigino Danieli potrebbe essere una grossolana derivazione da Rithmus Danielis de Iustinopoli, della didascalia cioè ch’io posi in fronte alla canzone, togliendola al codice riccardiano 3247, e che, posso ora aggiungere, è pure nel Riccardiano 3674: ed io accetto con animo grato la correzione proposta.
D’altra parte, il  trovarsi nei due nuovi codici Riccardiani vostro sostituito a nostro – e si aggiunga che vostro ha pure la trascrizione delle due ultime strofe aggiunta all’esemplare della stampa Summa Geberi ch’è nella Comunale di Verona, e tuo (anche codesta arbitraria scorrezione ha il suo valore) il codice Senese – permette di leggere i versi 13-14 delle strofe XVIII così:

De Iustinopoli è ‘l vostro fidele
Grammatice professor Daniele
,

intendendo il vostro fidele come una cortese espressione di commiato e di saluto ai lettori – oggi si direbbe vostro devotissimo! – e accettando ormai, rimosso ogni dubbio cui dava motivo la diversa lezione dei codici, quale autore della canzone Daniele da Capodistria, maestro di grammatica.
 

 

 

NOTE:

(1) Vol. IV, pp. 81-117.

(2) Nuove rime d’alchimisti, nel Propugnatore, N. S., vol. IV, fasc. 21.

(3) Cfr.  Archivio, IV, pp. 93-96.

(4) Nel Propugnatore, fasc. cit. – Si noti che la quarta di quelle poesie ricorda assai da vicino la prosopopea della Grammatica, che fa parte della nota corona di Sonetti sulle sette arti liberali  attribuita ad Andrea de’ Carelli. I primi versi (seguo la lezione del cod. riccard. 1091) sono a dirittura eguali:

Io son la prima luçe a diriçare
Del sommo Appollo ogni rusticho et sodo
Animo: io son cholei che sança frodo
l’entrata mostro di virtù apparare;
io son cholei ch’a chì mi vuole usare ecc.

(5) Eccone senza distendermi, alcuni esempi: Uò=ò: cuoce, fuoco, uovo, vuole; Cia, gia, cio gio=za, zo,; ge=zeI: giallo, picioli, dargento, gentile, ciascheduno, dieci; l atona=e: di (de), si tiene, ridurti, guardati; u=a: rubini, tua sua; ch=gh: fichi. E poi: sança, doventa: conpiuta, conponi, conpie, marchassita, duntassat; per espatio; e ssi distilla, e ffissa, e llamore, e lle rubalderie, de llatona, a ffugire, a nnoy, che lla, se lla, le llo; e in genere voci ed’espressioni come le seguenti: sterpa, far manto di nuovo, traduzione de far mondo nuovo della canzone), però io prego, s’io non mento, e io lo so che, cioè ‘egli, di quel ch’io vo’, non ci meter, su vuole, fallito a già molto, gitta (butyta), che ci pone, e’ quatro elementi, non ricorrà (non pò ricolier) nollo potre’ dire.