La prima edizione latina a stampa di questo testo anonimo, che ebbe numerose riedizioni e traduzioni, risale al 1674:

Tumba Semiramidis hermeticè sigillata, quam si sapiens aperuerit, non Cyrus, ambitiosus: avarus, regum ille thesauros, divitiarum inexhaustos, quod sufficiat, inveniet. n.p., 1674.

Il testo fu in seguito ristampato in Miscellanea Curiosa Acadamiae Naturae Curiosorum, Annus quartus & quintus (Francof, & Lips., 1678). [Appendix, pp. 69-81], e poi nella Disceptatio de lapide physico, (Hamburg, 1678) di Franz Gassman, che si firmava Pantaleon e che allego la Tumba ad una sua confutazione [1]. Successivamente, il testo venne incluso nella Anatomia alchymiae, quae universalem viam et totius philosophiae hermeticae doctrinam et divisiones exhibet … di Gerard Frisch (1696). Ulteriori ristampe del testo latino vennero incluse nella Bibliotheca Chemica Curiosa (Geneva 1702) del Manget, e, sotto il nome di Abderita Democritus, nel De rebus sacris naturalibus et mysticis (Nurnberg, 1717).

A distanza di pochissima anni dalla prima edizione latina segue la traduzione inglese, priva di data ma ascrivibile allo stesso periodo della editio princeps:

D. H. V.
The Tomb of Semiramis hermetically sealed, which if a wise Man open (not the ambitious Covetous Cyrus) he shall find the Treasures of Kings, inexhaustible Riches to his content. London; Printed for the Translator; and sold by William Marshal Bookbinder, in Butcherhal-Lane near the three Pigeons.

Anche l’edizione inglese verrà ripresa e ristampata più volte: una seconda edizione infatti sarà inclusa nella Collectanea Chymica di William Cooper (London 1683) (tradotta poi in olandese in Eenige philosophische en medicinale tractaatjes  (Amsterdam 1688)
La presente traduzione è stata condotta sul testo dell’edizione francese contenuta in :

Deux traitez nouveaux sur la philosophie naturelle contenant Le Tombeau de Semiramis Nouvellement ouvert aux Sages et la Refutation de l’Anonyme Pantaleon, soy disant disciple d’Hermés, A Paris chez Laurent D’Houry, rue S. Jacques, devant la Fontaine S. Severin, au Saint-Esprit, 1689.

Il trattato francese si trova anche accluso al coevo Le Pilote de l’onde vive, ou le Secret du flux et reflux de la mer, contenant la cause de ses mouvements et celle du point fixe, avec un voyage abrégé des Indes et une explication de la quadrature du cercle. Seconde édition revue et augmentée de deux traités nouveaux sur la philosophie naturelle il testo di Eyquem Du Martineau che uscì lo stesso anno sempre per i tipi di Laurent D’Houry.
Abbiamo fatto precedere al testo vero e proprio la prefazione contenuta nell’edizione di riferimento.

Massimo Marra © – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

NOTE:
[1] Riportiamo dal Ferguson: «La Disceptatio fu scritta contro la Tumba Semiramis. Fu pubblicata anonima, ma è attribuita a Pantaleone da Manget (Bibl. Chem. Cur. 1702, Index) per similitudine di stile. Nella Disceptatio, p. 31, è citato il Bifolium Metallicum di Pantaleone, e questi viene definito come “inter neotericos facile princeps”, il che è un po’ come tessere da soli le proprie lodi….
Il vero nome di Pantaleon era Franz Gassmann. Era nativo della Slesia, fu medico a Passau ed in seguito a Vienna. Egli affermava di aver reso magnetico il mercurio, in modo che questo seguisse l’oro come un ago il magnete. Acquisì una notevole reputazione con le sue operazioni sul mercurio, grazie a qualcuno che ci credeva….
Becher, comunque, lo considerava come un imbroglione, e con questa convinzione scrisse il Pantaleone delarvatus, in cui non lo nomina per nome, ma a lui si riferisce costantemente con l’iniziale G…» (John Ferguson, Bibliotheca Chemica, vol 2, pp. 164-166).

 

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Traduzione di Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.

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LA TOMBA DI SEMIRAMIS NUOVAMENTE APERTA AI SAGGI.

 

 

 

Ai veri amanti della Scienza.
Non vi è nulla fino ad oggi che sia stato nascosto con tanta cura, e niente che sia stato tanto fortemente ricercato quanto la conoscenza di questo grande mistero dei Saggi, chiamato volgarmente la Pietra dei Filosofi. Il che oggi ci obbliga ad aprire la TOMBA DI SEMIRAMIS, già regina di Babilonia, e di estrarne questo prezioso segreto che vi si trova racchiuso per farne parte al mondo dei letterati, col fine di procurargli i due più gran vantaggi della vita, la salute e la ricchezza.
Vi sono forse persone, e delle più sapienti, che pretenderebbero che non vi sia nulla di più agevole che aprire questa tomba sacra, e che non è che un gioco da ragazzi e lavoro di donne; ma io oso affermar loro che questa scienza è come un grande fiume nel quale l’Agnello marcia mentre l’elefante nuota, vale a dire che il semplice lo traversa mentre il dotto è sommerso dai flutti dopo esser per lungo tempo stato agitato dai dubbi e trascinato dai suoi diversi errori. L’uno è sempre incerto sulla scelta del soggetto dell’opera e lo cerca in cose del tutto estranee; l’altro si affatica vanamente nella ricerca del Mercurio dei Filosofi, senza aver compreso cosa sia questo Mercurio, né qual ne è la forma; l’altro, infine si rompe la testa immaginando quale può essere il fuoco dei Filosofi, cosa sia questo elemento magico, chiave dell’arte, ed il mestruo dissolvente, non  sapendo né da quel soggetto deve essere estratto né se esso è dolce o corrosivo, freddo o caldo.
Io stesso sono stato a lungo occupato sui medesimi pensieri che fanno oggi sudare costoro, i quali dopo tante pene, non trovano altro che vanità ed afflizioni; è per questo che, toccato da compassione, io voglio donargli la medesima luce che mi è stata comunicata, affinché al chiarore di questa luce essi possano trovare la chiave che conduce al santuario di questa divina scienza; e ciò benché io sappia che sarò da molti condannato per aver rivelato dei segreti che debbono essere seppelliti in un eterno silenzio; ho tuttavia ritenuto che non fosse giusto lasciare la vostra infaticabile curiosità senza ricompensa, poiché essa meriterebbe che io vi facessi eredi di tutto ciò che possiedo nel campo della conoscenza dei segreti della natura.
Non vi informate di chi io sia, in verità ho un nome conosciuto da molti; vi sia sufficiente sapere che non si può essere più vostri amici di quanti io non sia, e che tutto il mio desiderio non è altro che il farvi piacere. Addio.

 

 

LA TOMBA DI SEMIRAMIS ERMETICAMENTE SIGILLATA.

Capitolo primo: del soggetto Fisico della Pietra dei Filosofi.

L’inizio della nostra opera deve essere il timore del Signore; e la fine la carità e l’amore del prossimo. Per questo, prima di intraprendere quest’Opera divina, è necessario preliminarmente sapere qual è il soggetto sul quale dobbiamo lavorare, perché, come il contadino prepara invano la terra se non sa dove prendere la semenza che vi deve piantare, lo stesso avviene per colui che coltiva il campo chimico se ignora cosa vi deve seminare.
È su questo che, particolarmente, molti oggi si ingannano, e passano per mille opinioni differenti le quali sarebbe troppo lungo qui discutere. Diremo solo che mentre alcuni cercano la loro materia nel regno animale, nel sangue, nello sperma, nel sudore, nell’urina, nei capelli, negli escrementi, nelle uova, nei serpenti, nei rospi e nei ragni, altri si occupano vanamente del mondo vegetale, e particolarmente sul vino dal quale essi immaginano di perfezionare il magistero; e ciò nonostante sia vero che in ciascuno dei tre regni si possano trovare dei grandissimi rimedi per la salute, soprattutto nell’uomo e nel vino in cui si trovano assemblate tutte le virtù degli animali e dei vegetali, così come quelle dei minerali sono ricapitolate nell’Oro. Nondimeno mai nessun Adepto ha mai inteso fare da ciò al grande opera. Ne segue dunque che è nel regno minerale che bisogna cercare la nostra materia; ma è a questo punto che ci si trova divisi in tanti differenti pareri, che, senza un Edipo, è del tutto impossibile trarsi d’impaccio; gli uni pretendono che si debba trarre la materia dai minerali, gli altri dai mezzi minerali, come il sale, il nitro, l’allume ed altri simili; ma ciò è vano, perché non vi è in essi alcun argento vivo nel quale si possano risolvere, ed è il primo pantano in cui siamo gettati per la nostra ignoranza.
Rimane dunque assodato che i soli metalli sono il soggetto Fisico della nostra pietra benedetta, ma qui incontriamo ancora un doppio sentiero, perché tra i metalli, gli uni sono perfetti, gli altri sono imperfetti.
Per farla breve, diciamo che tutti i metalli, e segnatamente quelli che non hanno avuto fusione perché imperfetti, per mezzo di una intima depurazione delle loro macchie originarie (processo difficilissimo e quasi impossibile) possono essere il soggetto della Pietra: il che fa dire a Flamel: qualcuno ha lavorato su Giove, altri su Saturno, ma io che ho trovato, ho lavorato sul Sole. Ancora, si legge nella Turba, che tutti i metalli puri o impuri all’interno sono Sole, Luna e Mercurio, ma uno solo è il vero Sole, ovvero quello che si estrae da essi. E l’autore del Segreto Ermetico, al can. XVI ci avverte che colui che cerca l’arte di perfezionare i metalli imperfetti al di fuori dei metalli medesimi, cammina nell’errore, poiché non cerca nella natura dei metalli la specie metallica, come si cercherebbe nell’uomo quella dell’uomo e nel bue quella dei bovi. Ed al can. XVIII egli dice ancora:  i corpi imperfetti sono dotati d’una semenza più perfetta, così, sotto la dura scorza dei metalli più perfetti, è nascosto un seme perfetto mediante il quale, se qualcuno lo sa estrarre per mezzo di una risoluzione fisica, ci si può assicurare di essere nella via regale. Così Filalete, nella sua Entrata al palazzo del re, al cap,. XIX, in cui tratta del progresso dell’opera durante i primi quaranta giorni, dice: il nostro oro è in tutti i metalli, anche i volgari, ma è molto più prossimo nell’oro e nell’argento. Tuttavia  – egli aggiunge – c’è ancora un soggetto nel regno metallico di mirabile origine, nel quale, posto che lo si sappia prendere all’ora della nascita, il nostro oro è più prossimo che nell’oro e nell’argento volgari e si fonde come ghiaccio nell’acqua calda, ed è il nostro Mercurio.
Ma senza, al presente, arrestarci sui metalli imperfetti, dichiariamo che i due luminari perfetti, il Sole e la Luna, o, altrimenti, l’oro e l’argento, sono il soggetto Fisico della Pietra, e costituiscono la via che la maggior parte dei filosofi ha seguito con successo, secondo quanto insegna Augurelli, nel primo libro della Crisopea, in questi termini: prendi il metallo purgato da ogni lordura, nel centro del quale si è ritirato lo spirito, e dove esso vive nascosto sotto una dura scorza nell’attesa che, libero dai suoi legami, egli possa lasciare la sua prigione per elevarsi nell’aria. Sempre nella Crisopea, nel libro I: Non cercare altrove i principi dell’oro, perché è nell’oro che vi è il seme dell’oro, benché assai nascosto, e non si può ottenerlo che con un lungo lavoro. Ancora, Raimondo Lullo, quest’astro della filosofia spagirica, parlando della dignità di questi due luminari nel suo Codicillo, a pag. 28, dice: ve ne sono due più puri degli altri, ossia l’oro e l’argento, senza i quali la nostra arte non si può portare a termine, poiché in essi si trova la purissima sostanza dello zolfo perfettamente purificato dalla natura, e da questi due corpi preparati con il loro zolfo ed il loro arsenico, si estrae la nostra medicina, che senza di essi non si può produrre. E l’autore del libro intitolato Clangor Buccinae dice: bisogna lavorare con discrezione e prudenza, perché senza fermento non si potranno avere Sole e Luna, e nessun altro seme o fermento potrà essere utile, eccetto l’oro per il rosso e l’argento per il bianco; i quali corpi, preliminarmente assottigliati con peso e misura, devono in seguito essere seminati affinché marciscano e si corrompano, perché la loro forma originale ne sia distrutta e se ne introduca una più nobile, il che si compie per mezzo della sola nostra acqua.
Da ciò un certo Anonimo conclude assai bene che così come il fuoco è principio di ignizione, così l’oro è principio di aurificazione, l’effetto essendo conseguente alla causa, il figlio tale il padre, il frutto tal quale il seme, così come da un uomo si genera un uomo e da un leone un leone.
Qualcuno mi contesterà forse che il Filosofi ci assicurano che la nostra materia è tale che il povero la può avere come il ricco, e che Dio ha dato questo gran tesoro da cercare a tutti gli uomini indifferentemente, non rifiutando un bene così grande che a colui che se ne rende indegno per le sue malvagie inclinazioni
Geber dice inoltre: non è necessario che tu consumi i tuoi beni, poiché i principi della nostra Arte so trovano a prezzo vile, e se ciò che ci occorre per perfezionare il magistero fosse dell’oro o qualcosa di molto caro, i poveri sarebbero obbligati ad abbandonare quest’opera mirabile; infatti, poiché è pressoché necessario che l’artista erri diverse volte, il povero, dopo aver fallito, non potrebbe ricominciare. Ed il Lilium dice: Questa pietra si compra a prezzo vile, e, se coloro che la vendono la conoscessero bene, non la venderebbero ad alcun prezzo, ma la conserverebbero per sé. Ed un altro anonimo dice che le nostre spese non eccedono i due fiorini, il che è confermato da Arnaldo da Villanova in questi termini: tieni per certo che le spese della nostra arte nobilissima, non eccedono la somma di due scudi d’oro per i primi acquisti, ovvero per la prima operazione. E Geber: se tu spendi i tuoi beni lavorando, non prendertela con coi, ma con la tua stessa imprudenza, poiché la nostra scienza non domanda grandi spese. Rispondiamo a ciò che non abbiamo mai negato che oltre all’oro e all’argento, non vi fosse qualche altro soggetto di minor prezzo, ed è per questo motivo che sopra abbiamo riportato la citazione del Filalete che dice c’è ancora un soggetto nel regno metallico di mirabile origine etc.. Benché molti filosofi vogliano che questo prezzo vile sia solo in rifermento al nostro mestruo dissolvente.
Si dirà ancora che Sendivogio, al Trattato XI, dice che noi non dobbiamo, nelle nostre operazioni, servirci di oro ed argento volgari, perché questi sono morti; a ciò rispondiamo concordando  che realmente, dall’oro e dall’argento volgari tal quali, in tanto che morti, non si potrebbe mai ottenere la pietra dei Filosofi; ma laddove questi siano rivivificati e ridotti alla loro prima materia seminale, ovvero fatti a somiglianza dell’oro dei Filosofi, allora essi non danno solo il seme, ma hanno anche funzioni di fermento, il che è confermato dal Filosofo con queste parole: gli antichi ed i contemporanei non hanno mai fatto oro se non dall’oro, ed argento se non dall’argento, ed allora non sono più oro ed argento volgari.
Da ciò appare chiaro che l’oro dei Filosofi non è l’oro volgare, né per colore né per sostanza, ma è piuttosto la tintura bianca e rossa che si estrae da esso.

 

Capitolo II: Cos’è l’oro dei filosofi.

L’Oro o argento dei Filosofi è un corpo metallico, sciolto nella sua prima materia che è anche la prima della pietra, ossia nel Mercurio; ciò è provato perché ogni cosa procede da ciò in cui si dissolve. Ora, tutti i metalli si risolvono in argento vivo; da ciò viene che tutti i Filosofi, di comune accordo, abbiano detto che nel Mercurio c’è tutto ciò che i saggi ricercano, e che il Mercurio è la radice dell’alchimia, poiché da esso, per esso ed in esso, vengono alla luce tutti i metalli. Teofrasto, questo abisso di scienza in filosofia spagirica, trattando della prima materia dei metalli, parla così: estrarre il Mercurio dai corpi metallici non è altro che risolvere i metalli nella loro prima materia, vale a dire in Mercurio colante tale qual era nel centro della terra prima della generazione dei metalli, ovvero un vapore umido e viscoso, il quale è l’oro e l’argento dei Filosofi. Questo contiene in se, invisibilmente, il Mercurio e lo zolfo di natura, principi di tutti i metalli. Un tal Mercurio è dotato d’una forza e d’una virtù ineffabili, e racchiude dei segreti del tutto divini.

 

Capitolo III: della preparazione dei corpi per farne Mercurio dei Filosofi.

Avicenna ci dice: se vuoi lavorare come bisogna, devi necessariamente cominciare la tua opera con la soluzione e sublimazione dei due luminari, poiché il primo grado dell’opera è fare l’argento vivo; ma siccome i nostri corpi più sono perfetti e più sono sigillati, e poiché hanno subito una forte coagulazione, affinché possano essere ridotti in Mercurio bisogna che subiscano preliminarmente una preparazione ed una calcinazione fisica; questa non è tanto necessaria nel caso dell’argento, perché, a causa della sua mollezza e della sua purezza, la nostra acqua ha su di esso maggior azione. Non così per l’oro né per gli altri metalli, che hanno tutti bisogno di una calcinazione preliminare, dopo la quale la nostra acqua può agire su essi più facilmente, soprattutto se sono depurati, a causa dell’uniformità della loro sostanza.
Al riguardo della calcinazione dei corpi, il divino Dottore e Vescovo di Trento, nella sua opera segreta della pietra dei Filosofi, ci avverte che prima di diffondere il corpo nel latte della Vergine, è necessario calcinarlo e purgarlo. A tal fine, si prenda della Luna finissima, sottilissimamente limata, e la si dissolva nell’acqua forte; poi la si faccia precipitare in calce bianca per mezzo dell’acqua piovana distillata, nella quale si sarà fatto sciogliere del sale armoniaco o sale comune; avendo separato l’acqua con cui si è lavata, e addolcitala con della nuova acqua piovana bollente al fine di eliminarne ogni salsedine ed acrimonia, la si lascia poi seccare; se ne otterrà una calce purissima.
Al riguardo dell’oro, bisogna calcinarlo così: prendi dell’oro depurato dal corpo dell’aquila nera, al fine di averlo bello e splendente, e fanne amalgama con del Mercurio ben purgato col sale e l’aceto, passato per una pelle di camoscio; metti questo amalgama in acqua forte ben preparata, in modo che tutto il mercurio si dissolva, separa l’acqua forte dalla calce del Sole, e poi lava come sopra questa calce con acqua calda; disseccala a calore lento, dopodiché dovrai riverberarla leggermente e con artificio, impedendo che fonda; diverrà come un croco bellissimo.

Si calcina l’oro ancora diversamente, per poterlo ridurre alla sua prima materia, ovvero in Mercurio dei Filosofi, secondo ciò che insegna Paracelso nel libro 7, intitolato la Metamorfosi, in questi termini: «Che si calcini il metallo con del mercurio rivivificato, mettendo il mercurio con il metallo in un vaso sublimatorio, e facendolo digerire fino a che se ne faccia un amalgama; si sublimi in seguito questo mercurio ad un fuoco moderato, e daccapo lo si bruci con la calce metallica, reiterando come in precedenza la digestione e la sublimazione, e ciò tante volte sino a  che la calce, quando le si avvicini una candela accesa, coli come ghiaccio fuso o come cera. Si metta allora questo metallo così preparato in digestione in ventre di cavallo, o ad un bagno Maria ragionevolmente caldo, facendolo digerire per un mese; il metallo sarà convertito in mercurio vivente, vale a dire nella sua materia prima che si chiama Mercurio dei Filosofi, o, diversamente, Mercurio dei metalli; quello che molti ricercatori cercano e che pochi trovano.
Joachim Poleman nel suo Trattato del Mistero dello Zolfo filosofico, vuole che si divida il metallo in atomi slegatissimi per mezzo del suo doppio corrosivo, e che lo si franga bene, affinché il mestruo igneo dissolvente possa estrarne l’anima tingente.
Quanto a noi, calciniamo l’oro per una via assai migliore, e chiamiamo questa calcinazione prima dissoluzione. Essa si porta a termine versando sulla calce del Sole o della Luna del vino di vita che è il nostro mestruo, del quale tratteremo al capitolo 6, in modo che esso galleggi sulla materia per lo spessore di un dito; poi vi si adatta un capitello, e si fa digerire a fuoco di ceneri o di sabbia, e coagulare; una volta coagulato, vi si riversa sopra del nuovo mestruo, digesto e coagulato, e ciò fino a tre o quattro volte, in modo che la calce metallica, avvicinata alla Luce, coli come cera o come ghiaccio, il che è segno evidente di una calcinazione perfetta e filosofica che si ottiene conservando la virtù metallica. Così’ dice Aristotele nel Rosario: «congiungi Gabrizio, il più caro dei tuoi figli, con sua sorella Beya, che è una bella ragazza splendente, dolce e tenera».

 

Capitolo IV: della seconda e vera dissoluzione dei corpi o riduzione in mercurio.

Abbiamo trattato la calcinazione, o prima dissoluzione, della quale abbiamo parlato nel capitolo precedente e che (secondo un certo Filosofo anonimo nel suo Trattato della Pietra dei Filosofi) deve essere dolce ed interamente naturale, dissolvente il soggetto senza violenza e con la conservazione della sua umidità radicale: bisogna allora mettere questi corpi così calcinati in un vaso ermeticamente sigillato, e farli digerire e purificare da un dolce fuoco di bagno Maria o di rugiada per lo spazio di un mese filosofico (perché, come dice il Filosofo, una soluzione dolce e volontaria è migliore di una violenta, ed una temperata è meglio di una precipitosa); così si compie la vera seconda dissoluzione del metallo in un’acqua viscosa, una certa untuosità, con la conservazione della sua umidità radicale nella quale consiste sia il vero zolfo dei metalli, sia, allo stesso tempo, il vero e preziosissimo mercurio; ciascuno di essi è il magnete dell’altro, ed il dissolvente rimane con il soluto senza poterne essere separato a causa dell’uniformità della loro sostanza. Ciò ha fatto dire agli antichi Filosofi che natura gode di natura, e che natura domina natura e la trasmuta. Da ciò si distingue la dissoluzione formale ed essenziale da quella corrosiva e violenta. Bisogna del resto sapere che dalla Luna si genera il liquore o la tintura verde, che è l’autentico Elisir lunare e rimedio sovrano per fortificare il cervello, e che dal Sole, attraverso una simile putrefazione, si produce il liquore rossissimo che è il vero Elisir del sole e quintessenza del metallo. Di essa dice Geber: «Noi facciamo l’oro sanguinolento migliore di quello che è prodotto dalla natura, meglio di quanto essa non sappia fare». Di questa medesima viscosità Geber dice ancora nella sua Summa: «Abbiamo esattamente sperimentato ogni cosa, e con ragioni tratte dalle cose stesse, ma non abbiamo mai potuto trovar nulla che fosse permanente al fuoco ad eccezione dell’umidità viscosa, sola radice di tutti i metalli; tutte le altre umidità si vaporizzano facilmente al fuoco, ed i loro Elementi si separano gli uni dagli altri, perché non sono ben uniti in omogeneità; ma l’umidità viscosa, ossia il mercurio, non si consuma mai al fuoco, e la sua acqua non si separa mai dalla terra, perché o tutto rimane insieme o tutto svanisce». 
Ma, mi si domanderà forse, in qual proporzione di peso bisogna unire il mestruo al metallo? Il Rosario dei filosofi risponderà per me: «Così come un po’ di lievito fa lievitare molta pasta, così poca terra è sufficiente a nutrire del tutto la pietra». Anche Aristotele ci insegna il peso, dicendo: «Operate e cuocete sempre fino a quando la terra (ovvero l’oro) abbia bevuto dieci parti della sua acqua». E l’Autore della Nuova Luce, alla fine del suo libro, dice: «Occorrono dieci pesi di acqua contro una parte di corpo, e per questa via noi facciamo il nostro mercurio senza mercurio volgare, prendendo la nostra acqua mercuriale (vale a dire il nostro olio mercuriale di sale putrefatto e passato per alambicco), che è un vapore untuoso, in ragione di dieci parti per una parte di corpo d’oro; chiusi entrambi in un vaso, l’oro, attraverso una continua decozione, si fa mercurio, ossia un vapore untuoso che non è il mercurio volgare, come qualcuno ha falsamente immaginato».

 

 

 

Capitolo V: ciò che propriamente è la quintessenza.

Paracelso, nel libro terzo intitolato de vita Longa, cap. 2, parla così: «La quintessenza non è altro che una perfezione della natura, attraverso la quale essa è portata ad un certo temperamento o mescolanza spagirica, nella quale non si trova però alcuna contrarietà, né nulla di corruttibile».
Lo stesso, al libro 4 degli Archidoxa, ci dice che la Quintessenza è una materia che si estrae corporalmente da tutto ciò che cresce, e che ha vita separata da ogni impurità e mortalità, assottigliata, purificata e separata da ogni elemento; poco dopo nel medesimo luogo, egli dice: «Devi sapere che la quintessenza è in piccola quantità contenuta in un legno, un’erba, una pietra o cosa simile, e che tutto il resto è puro corpo; da ciò abbiamo appreso cos’è la separazione degli elementi».
Rupescissa, al capitolo 5 della Quintessenza, verso la fine, dice: «Abbiamo appreso per divina ispirazione che per mezzo di continua ascensione e discesa si compie la separazione dei quattro elementi e della quintessenza che ricerchiamo nei corpi corruttibili; e ciò avviene perché ciò che è due o più volte sublimato, è sempre più sottile, più glorificato ed esente dalla corruzione dei quattro elementi rispetto a ciò che non è sublimato che una sola volta; e così ciò che venisse sublimato fino a mille volte, per continua ascensione e precipitazione, arriverebbe ad un punto di glorificazione che il composto sarebbe quasi incorruttibile al pari del Cielo o della materia del Cielo. Per questo motivo una tale sostanza è chiamata quintessenza, ed è, in rapporto ai corpi, ciò che il Cielo è in rapporto al mondo; perché tanto più l’arte si avvicina alla natura, tanto più gli diviene simile.    

 

Capitolo VI: del fuoco filosofico o mestruo dissolvente, o altrimenti del nostro liquore Alkaest. 

I Filosofi hanno sempre nascosto con grande cura la preparazione di quest’acqua o succo nobilissimo. Ciò ha fatto si che il Conte Trevisano dicesse, nel suo secondo libro, che egli aveva fatto voto  a Dio, ai filosofi ed alla giustizia, che non avrebbe mai esposto questo segreto a nessuno in parole scoperte, poiché questo è il segreto più nascosto dell’opera; in effetti, se questo liquore fosse conosciuto da tutti, anche i bambini si prenderebbero gioco della nostra scienza, gli ignoranti sarebbero uguali ai sapienti e tutti quanti senza distinzione si occuperebbero della nostra Filosofia e si distruggerebbero tra loro, senza aver più alcun riguardo ai reciproci doveri di giustizia e carità. 
Augurelli designa questo mestruo col nome di Mercurio o Argento vivo. Ripleus fa lo stesso quando, nella prefazione delle sue Dodici porte, ci dice: «Ti insegnerò che i Mercuri, che costituiscono la chiave della nostra scienza, sono ciò che Raimondo Lullo chiamava suoi mestrui, senza i quali non si può far nulla». Geber li chiamava con altro nome: « Per il Dio altissimo – egli dice – è quest’acqua che accende la lampada, che rischiara la casa e dona l’abbondanza delle ricchezze: o nostro mare! o nostra acqua! O salnitro sparso nei mari del mondo!  O nostro  zolfo fisso e volatile! O testa morta, o fecce del nostro mare!». 
Tridensinus, nella sua Opera segreta sulla Pietra dei filosofi, dice: «I filosofi hanno chiamato l’acqua di cui si sono serviti per perfezionare l’opera latte di vergine, coagulo, rugiada del mattino, quintessenza acqua di vita, figlia dei filosofi, etc.». Paracelso la chiama diversamente, talvolta Azoth, talvolta spirito di vino, temperamento, circolato, acqua mercuriale; Sendivogio la chiama acciaio, Rupescissa aceto nobilmente distillato, ed il profondissimo filosofo Van Helmont si serve del nome del liquore Alkaest. Il liquore Alkaest, dice, risolve ogni corpo palpabile e visibile nella sua prima materia conservando la specie seminale, il che ha fatto dire ai Chimici: «il volgo brucia col fuoco, e noi con l’acqua».
Per quanto ci riguarda, ci piace definirlo un olio mercuriale di sale purificato e passato per alambicco, seguendo la licenza filosofica che ci permette di dare al nostro bambino il nome che vogliamo; in effetti si tratta di un olio esaltato al più alto grado di perfezione ignea, ed è questo l’olio che è il fondamento di ogni soluzione metallica, senza la quale nulla può essere utile alla nostra opera, il che deve essere ricordato. Esso esercita nella nostra opera la funzione di femmina, ed è a buon diritto chiamato Sposa del Sole e matrice; è anche la chiave che apre le porte metalliche, perché dissolve i metalli calcinati, li calcina, li putrefà, li rende volatili e spirituali, li tinge di tutti i colori ed è, infine, l’inizio, il mezzo e la fine delle tinture. Esso è della medesima natura dell’oro, come assicura Arnaldo da Villanova, se non fosse che la natura dell’oro è completa, digesta e fissa, mentre la natura della nostra acqua è incompleta, indigesta e volatile; in una parola è il fuoco dei Filosofi con il quale l’albero ermetico è convertito in cenere.
Di questo fuoco, Giovanni Pontano parla, nella sua Lettera sul fuoco dei Filosofi, in questi termini: «Non è il fuoco del bagno, né del letame, né ancora alcun altro fuoco simile quello di cui i Filosofi hanno parlato nei loro libri, ma è piuttosto un fuoco minerale, uguale e continuo che non evapora affatto se non è troppo fortemente eccitato; esso partecipa dello zolfo ed è preso altrove che dalla materia; esso distrugge tutto, dissolve, calcina e congela; è un fuoco che costa poco o nulla, ed è con esso che si perfeziona tutta l’opera. Impegnati dunque a studiarlo bene per comprenderlo, perché se io lo avessi conosciuto da subito, non avrei sbagliato duecento volte prima di scoprire la pratica autentica; si sbaglia, ci si è sbagliati e ci si sbaglierà sempre, perché questo agente proprio non è stato insegnato nei libri dei Filosofi, con l’eccezione di uno solo chiamato Artefio, e se io non lo avessi letto e non avessi inteso ciò che voleva dire, giammai sarei pervenuto alla perfezione dell’opera». Consulta dunque questo autore, e comprenderai cos’è il nostro mestruo, e questo è abbastanza.

 

Capitolo VII: se il mestruo dissolvente deve essere corrosivo.

Geber sembra essere di questo avviso quando, al cap. 52 della Somma di Perfezione dice che tutto ciò che dissolve deve avere necessariamente la natura di sale, di allume o simile. Paracelso, all’inizio del libro della Quintessenza, dice così: «È difficile e pressoché impossibile estrarre senza corrosivo la quintessenza dei metalli, e soprattutto dell’oro, che non può essere sopraffatto che da un corrosivo che separi la quintessenza dal corpo, e che successivamente ne possa esso stesso essere separato. Ed al capitolo 3 del libro intitolato De vita longa, tomo 6, egli dice ancora: «sciogli l’oro con tutta la sua sostanza per mezzo di un corrosivo, e ciò tante volte fin quando l’oro non sia che una medesima cosa col corrosivo, e non stupirti di questa operazione, perché il corrosivo è assai necessario all’oro, poiché senza di esso è morto».
Bisogna dunque sapere che il nostro mestruo, che congiungiamo all’oro, non deve propriamente essere definito corrosivo, ma piuttosto igneo, e che la forza e la virtù di questo grande segreto sopraffà tutto ciò che vi è di velenoso; infatti il reagal, o detto altrimenti il mercurio vivo sublimato e di nuovo precipitato, è ucciso dall’elisir solare, e perviene ad una sovrana e perfetta tintura. Attraverso il nostro mestruo non si compie alcuna dissoluzione violenta, come si fa con le acque forti, le acque regie ed altre simili; piuttosto, come abbiamo detto nel cap. 4, la nostra dissoluzione si compie dolcemente e senza rumore, conservando sempre l’umido radicale coi  suoi spiriti (come dice Raimondo Lullo nel suo Vade Mecum); così la virtù vivificante rimane infusa nelle nostre materie.  

 

Capitolo VIII: della pratica della pietra.

Dopo che con una precedente putrefazione tu hai acquisito l’anima tingente del nostro pianeta, vale a dire la vera quintessenza nella quale sono nascosti il vero mercurio ed il vero zolfo dei Filosofi, allora tu avrai trovato la vera e naturale materia dalla quale potrai fare la nostra Pietra benedetta. Prendi dunque, nel nome di colui che parlò e tutto fece, di questa materia purissima quanto basta. In seguito avendola messa in un vaso di fissazione, in una fiala o uovo filosofico, piazzala nell’athanor che conosci con un conveniente regime di fuoco, digerente e continuo (perché se cessasse, il soggetto morrebbe), dolce, sottile, alterante ed incombustibile, per dirla come Trevisano; prosegui poi la tua opera oltre la prima congiunzione fino alla perfetta abluzione (per il regime di fuoco necessario consultare l’anonimo Filalete, che descrive molto chiaramente il regime di ciascun pianeta e la diversità dei colori) e coagula e fissa la tua pietra al bianco e al rosso. Perché, come dice Raimondo Lullo, chiunque, nel lavorare alla nostra opera, non ha forza e pazienza, questi la perderà per la sua eccessiva fretta.
Il segno della perfezione dell’opera sarà che se si getterà la pietra su di una lama di rame ardente, essa fonderà come cera senza emettere fumo, la penetrerà e tingerà. Ed allora, il Re Orientale sarà nato e siederà sul suo trono, e sarà più potente di tutti i Re della terra; perciò il Filosofo grida: «sortite dall’infero e dai sepolcri, risvegliatevi ed abbandonate le tenebre, perché vi siete rivestiti di splendore e di gloria; la voce della resurrezione è stata intesa, e lo spirito della vita è venuto in voi». Che l’altissimo sia lodato a causa dei grandi doni che ha distribuiti per gloria del suo santo nome e per il vantaggio del prossimo.

 

Capitolo IX: della moltiplicazione della pietra benedetta.

Quando per grazia di Dio sarai in possesso dello zolfo rosso incombustibile, ti resterà da sapere il mezzo di moltiplicarlo, rifacendo di nuovo il giro di ruota (per dirla come i Filosofi); il che racchiude un segreto che, in quest’Arte, non è certo dei minori. Infatti bisogna moltiplicarlo per la stessa via per la quale lo abbiamo prodotto, e più il nostro zolfo, che è la nostra vera pietra, viene  ripetutamente arrossato e nutrito col suo proprio latte in un bagno tiepido, più esso si dissolve e coagula daccapo, come fece nella prima operazione, più aumenta la sua virtù tingente; in tal modo, se dopo la prima operazione, una parte di esso ha potuto rendere cento parti di mercurio o di qualche altro metallo imperfetto, ora, dopo una seconda soluzione col latte di Vergine, che non è altro che una nuova coagulazione e fissazione, ne tingerà mille; e così, reiterando sempre, la nostra medicina si accrescerà e moltiplicherà in quantità e qualità, virtù e peso.
Prendi dunque una parte della nostra pietra e versaci sopra due parti di latte di Vergine o di olio mercuriale di sale putrefatto, e passa all’alambicco; dissolvi e coagula come hai fatto nella prima operazione, e la nostra acqua che prima non era che un minerale in potenza, diventerà in atto un metallo più prezioso dell’oro; così la pietra si mortifica attraverso le sublimazioni e si rivivifica con le imbibizioni, e questa è la sovrana via universale.
Avendo portato al desiderato buon fine tutto ciò, potrai eseguire la proiezione sul metallo di tua preferenza, dopo averlo ben preparato, purificato e fuso, a seconda che avrai portato la tua tintura al bianco o al rosso; il vero uso ti sarà pienamente appreso dalla tua stessa esperienza e dalla lettura dei libri dei Filosofi, soprattutto di Filalete. 

 

Capitolo X: dell’uso della pietra per la medicina tanto interna che esterna.

Bisogna sapere che la nostra pietra benedetta è una medicina universale che contiene in sé il rimedio perfetto di tutte le malattie, tanto calde che fredde, ammesso che esse siano guaribili dalla natura e che Dio ne possa permettere la guarigione. Se tu domandi come questa medicina perfetta, o celeste tintura, possa agire nel corpo umano per guarire malattie di opposta natura, rispondiamo che essa compie tutto ciò perché riscalda ed illumina l’archeo per via di irradiazione, come dice dottissimamente il nostro Filosofo Van Helmont nel suo trattato che ha per titolo In erbis, verbis et lapidibus est magna virtus; in esso egli ci insegna che questi tipi di medicina ed altre simili panacee si introducono e penetrano facilmente, risvegliando con la loro sola presenza l’archeo assopito, ed attraverso l’irradiazione e l’effusione delle loro virtù, lo riscaldano senza nulla alterare né perdere sia in proprietà che in peso. Il che è ancora confermato da Joachim Polemann che dice che queste medicine trasformano gli spiriti delle tenebre, vale a dire le malattie, che non sono altra cosa che i precursori della morte tenebrosa, in spiriti di luce, tali quali erano prima, quando l’uomo era in sanità, e attraverso questa restaurazione delle forze dissipate, esse ristabiliscono l’uomo nel suo originale vigore.
La dose di questa medicina è di un grano o due, a seconda dell’età e delle forze del malato; essa si mescola nel vino caldo, o si scioglie in una cucchiaiata della sua propria quintessenza, e bisogna prenderne ogni tre giorni. Al riguardo delle malattie esterne, come piaghe, ulcere, fistole, cancrene, cancri etc., bisogna prenderne tutti i giorni od ogni due giorni un grano disciolto nel vino, e col medesimo vino lavare o iniettare la parte affetta, mettendo sopra la piaga, con un legaccio adatto, una lamina di piombo.  
Ecco l’uso interno ed esterno di questo gran rimedio, per ottenere il quale bisogna invocare il padre delle luci, pregandolo con cuore e con sentimenti puri affinché rischiari il tuo intelletto. Allora lavora come bisogna, assisti i poveri, non abusare dei doni di Dio, abbi Fede e sii un uomo dabbene. Così sia.