On Line dal 30/06/2012
Grillot de Givry nasce a Parigi nel 1874 da una antica famiglia nobile della Borgogna, si forma presso i gesuiti, ed apprende latino, greco ed ebraico, padroneggiando, nel contempo, italiano e tedesco. Datosi a studi musicali, ben presto presto, a circa diciott’anni, entra in contatto con gli ambienti occultistici parigini, con personaggi come Stanislas De Guaita, Papus (Gérard Encausse) e Péladan, divenendo ben presto, benché giovane, uno degli ermetisti più autorevoli e degli studiosi più stimati.
La sua chiara inclinazione agli studi di estetica, nonché il suo cattolicesimo, lo portano, giovanissimo, ad entrare nella cerchia dei più stretti collaboratori di Péladan, nell’Ordre de la Rose-Croix Catholique et Esthetique du Temple et du Graal, che a quel tempo si guadagna una notevole notorietà con i suoi Salons. Nel contempo è iniziato al rito di Memphis-Misraim, e collabora con la Bibliothèque Rosicrucienne voluta e diretta da René Philipon (1870-1936) e pubblicata da Chacornac.
A partire dall’attività nella Bibliothéque egli svolge una febbrile attività di traduzione: i primi contributi di Grillot de Givry alla Bibliothèque sono la traduzione francese del Trattato sulla Pietra Filosofale attribuito a S. Tommaso d’Aquino (Traité de la pierre philosophale: traduit du latin pour la première fois. Paris, Chamuel 1898), e la traduzione dell’Adumbratio kabbalae christianae (Paris, Bibliothèque Chacornac, 1899), cui seguì la traduzione del celebre Amphitheatrum sapientiae aeternae del Khunrath (Amphithéâtre de l’éternelle sapience, Bibliothèque Chacornac, Paris 1898 e seconda edizione 1900).
Alla traduzione del testo di Khunrath segue quella della Absconditorum Clavis di Guillaume Postel (Absconditorum Clavis, traduit du latin pour la première fois, Chacornac 1899). Successivamente uscirono il Trattato dei sette gradi della perfezione di Savonarola (Traité des sept grades de la perfection, de Fr. Hiérosme Savonarole. Traduit pour la première fois de l’italien par Grillot de Givry, Bibliothèque Chacornac, Paris 1901), e, a pochi mesi di distanza, gli Aphorismes basiliens, ou Canons hermétiques de l’esprit et de l’âme comme aussi du corps mitoyen du grand et petit monde, nouvellement mis en lumière par Grillot de Givry, Bibliothèque Chacornac, Paris 1901 (questi ultimi, mis en lumière dalla traduzione seicentesca di padre Gabriel de Castaigne, senza che il curatore, d’altronde, abbia potuto identificarne il vero autore col teologo protestante Raphael Echinus Iconius ) (1).
Negli anni successivi, Grillot de Givry, dopo le sue prima citate prove letterarie, pubblicherà la traduzione del Traité des trois essences premières de Paracelse (Chacornac, Paris 1903), che servirà da preludio per i due volumi della monumentale opera di traduzione delle Oeuvres complètes di Paracelso (Chacornac, Paris, 1913-1914).
Nel frattempo si guadagna da vivere con l’insegnamento del francese, approfondisce gli studi musicali e, tra il 1910 ed il 1920, suona come organista in una chiesa parigina. Nel 1911 pubblica (sempre per Chacornac) Le Crist et la Patrie, documentato studio sull’incompatibilità teoretica e teologica tra Cristianesimo e militarismo. In un primo tempo ignorato, il testo conosce una improvvisa popolarità all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Nel 1924 ne esce una seconda edizione, ed il libro diverrà uno dei capisaldi della letteratura antimilitarista francese.
Nel frattempo, nel corso degli anni successivi, collabora, come critico d’arte a varie testate nazionali ed internazionali, scrive e pubblica brevi composizioni musicali, si occupa di filologia e liturgia (è del 1914 il suo La Prononciation du latin dans les textes liturgiques), musicologia. Studioso eclettico e coltissimo, egli spazia con sicurezza entro domini della conoscenza assai differenti.
Sempre nel 1914 pubblica per Albin Michel l’operetta La survivance et le mariage de Jeanne d’Arc, in cui raccoglie indizi che avvalorerebbero la tesi di una sopravvivenza di Giovanna d’Arco al supplizio del 1431 (aveva già affrontato l’argomento in una serie di articoli usciti alcuni anni prima su Le voile d’Isis, di cui fu uno dei più stimati redattori).
Nel 1922, presso le Editions de la Sirène, (Paris, 1922) esce l’Anthologie de l’occultisme: choix des meilleures pages des auteurs qui se sont illustrés dans les sciences hermétiques, depuis les temps anciens jusqu’à nos jours, opera che conosce una discreta diffusione e consacra presso il grande pubblico la fama dell’erudito occultista.
Nel 1924 dirige l’effimera testata Le Pacifiste, testimonianza di un impegno antimilitarista che durò per tutta la vita.
Nel 1925, sempre per i Chacornac, pubblica l’ennesima traduzione: La Monade hiéroglyphique de Jean Dee, de Londres. Traduite du latin pour la première fois, par Grillot de Givry.
Oltre alle citate, le opere cui maggiormente si associa il suo nome sono il bellissimo saggio sul simbolismo delle acque, Lourdes, etude hiérologique (1902) – reperibile in traduzione italiana presso le edizioni Mediterranee col titolo di Lourdes, città iniziatica – e l’ispirata operetta Le grand Oeuvre (anch’essa reperibile in una cattiva traduzione italiana per i tipi delle Mediterranee, ed in una pessima uscita nel 1982 per i tipi di Fincati). Tuttavia l’opera con cui maggiormente si identifica Grillot de Givry è senz’altro il Musée des Sorciers, Mages et Alchimistes, del 1929 per i tipi della Librairie de France, massiccia opera riccamente illustrata in cui emerge tutta l’erudizione dello studioso. L’opera conosce un subitaneo e duraturo successo (se ne contano, lungo i decenni successivi, innumerevoli ristampe in inglese, italiano, spagnolo…).
Ma Grillot de Givry non vedrà il pur rapido successo della sua ultima opera. Muore nel 1929, poco dopo l’uscita del Musée.
Amico e corrispondente Joris Karl Huysmans (1948-1907) – cui lo legava una comune ed intransigente fede cattolica e l’amore per la cultura medievale – stimato da René Guénon (fu tra i pochi collaboratori della vecchia gestione di Le Voile d’Isis che Guénon si preoccupò di conservare), questo complesso erudito e curioso occultista cattolico meriterebbe uno studio maggiore.
Questa introduzione a due dei trattati alchemici attribuiti a Tommaso d’Aquino ebbe una prima traduzione – in alcuni passi infedele – nell’edizione italiana (anonima) dei due trattati per i tipi della Athanor (Trattato della pietra filosofale preceduto da una introduzione e seguito da un trattato del medesimo autore su l’Arte dell’alchimia. Prima traduzione italiana dal testo latino, Todi 1913). Dello scritto dell’ermetista francese esiste un’altra traduzione, oggi circolante sul web, ancor più manipolata ed infedele (in cui alcune parti risultano addirittura omesse), di cui non abbiamo identificato l’archetipo a stampa, che riporta, peraltro, una misteriosa quanto apocrifa sigla G. M. in coda alla traduzione del testo di Grillot de Givry (2).
La polemica sull’attribuzione dei trattati dell’Aquinate, su cui interviene con tono accorato Grillot de Givry, da un punto di vista filologico, non si è risolta, mancando a tutt’oggi, per quel che ne sappiamo, uno studio esaustivo delle fonti manoscritte del corpus alchemico attribuito a Tommaso. Come di recente ricorda Michela Pereira (3), Marie Louise Von Franz, ad esempio, difende la probabilità dell’attribuzione a Tommaso dell’Aurora Consurgens. Se, tuttavia, si tende a definire pseudonimi i trattatelli alchemici di Tommaso, è fondamentalmente perché, in sé, l’alchimia non sembra essere tra gli interessi fondamentali dell’Aquinate, ed appare singolare inserire nella complessa ed enorme produzione teologica e filosofica dell’autore dei trattati che appaiono scollegati al resto della produzione tradizionalmente attribuita al santo. Specie laddove la parte speculativa di questi trattati cede al recipe, all’istruzione tecnica pura e semplice, è difficile scorgere la mano del doctor Angelicus.
Il rapporto di Tommaso con l’alchimia è stato, in tempi recenti, sinteticamente tracciato da William R. Newman (4), il quale anzitutto nota come sia difficile definire la posizione di Tommaso sull’Alchimia, a causa delle frequenti interpolazioni di autori e commentatori posteriori presenti nelle edizioni delle sue opere. Ad esempio, uno dei passi tradizionalmente citati a riprova dell’atteggiamento favorevole dell’Aquinate al riguardo dell’alchimia tratto dal suo commento ai Metereologica di Aristotele, appare oggi interpolazione successiva. D’altro canto troppo esigui appaiono i passi della Summa Theologiae in cui Tommaso fa riferimento, il più delle volte di sfuggita, all’alchimia.
Un passo che può però rendere conto delle idee dell’Aquinate sull’arte alchemica è contenuto nell’ambito della trattazione demonologica del Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo. Qui Tommaso segue decisamente Avicenna, dichiarando l’inferiorità dell’arte rispetto alla natura. L’arte può dunque, al più, unire i passivi prodotti naturali alle naturali forze attive della natura per provocare determinati effetti, come per esempio quando si unisce la legna al fuoco per provocare luce e calore. I demoni agiscono in maniera analoga; essi non possono indurre trasformazioni reali in seno alla materia. Analogamente gli alchimisti non possono indurre una reale trasmutazione, e possono solo riprodurre gli accidenti superficiali dell’oro. Infatti la maturazione dei metalli è data dal calore naturale del sole che agisce in un luogo proprio allo sviluppo dei metalli (cioè le viscere della terra), in condizioni che sfuggono al potere dell’arte. L’impotenza degli artefici non riguarda solo la tramutazione dei metalli vili in oro ma qualunque produzione artificiale (5).
In questo quadro appare oggi difficile inquadrare nella produzione autentica di Tommaso i due trattatelli sull’alchimia che Grillot traduce per la prima volta dal latino.
Una traduzione completa ed integrale del suo scritto introduttivo – e delle relative note inedite portate alla luce nella ristampa dell’opuscolo francese uscita nel 1979 (Traité de la Pierre philosophale suivi du Traité sur l’arte de l’Alchimie traduit du latin pour la première fois, introduction et notes inedites par Grillot de Givry, Arché Sebastiani, 1976) (5) – era già uscita nel 1993 per i tipi della Arkeios (Trattato su la pietra filosofale e L’arte dell’alchimia. Introduzione, traduzione e note inedite, collana La via dei simboli, Arkeios, Roma, 1993). In questa sede ne riproponiamo un’altra agli utenti della rete.
Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.
NOTE:
(1) Su questo vedi Michela Brindisi – Massimo Marra, Gli aforismi basiliani di Eglinus Iconius (Angelus Medicus). Simbolismo ermetico ed influenze paracelsiane in un testo alchemico seicentesco. In Anthropos & Iatria, rivista italiana di studi e ricerche sulle Medicine Antropologiche e di Storia delle Medicine, anno X n°1, pp. 88-97. Oggi il lavoro è reperibile on-line su questo stesso sito.
(2) Tale è a esempio l’edizione reperibile nell’apposita sezione dedicata all’alchimia nel sito web della loggia massonica romana Monte Sion (obb. GOI), reperibile all’indirizzo
(Vedi l’”Introduzione” ai “Tre trattati alchemici di San Tommaso d’Aquino” visitato il 24/06/2012).
(3) Alchimia, i testi della tradizione occidentale, Mondadori, Milano 2006, p. 526.
(4) The Summa Perfectionis of Pseudo-Geber. A critical edition, translation and study, Brill, 1991, pp. 30-32.
(5) W. R. Newman, op. cit. . pp. 31-32.
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INTRODUZIONE A DUE TRATTATI ALCHEMICI DI S. TOMMASO D’AQUINO.
di Grillot de Givry
Traduzione di Massimo Marra © – tutti i diritti riservati – riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e con qualsiasi fine.
Nel trarre dall’oblio la vecchia opera alchemica che risplende del nome di San Tommaso d’Aquino, non ignoriamo le critiche che ci saranno certamente indirizzate. È pertanto assolutamente inutile riformularle ancora una volta, perché esse datano da due secoli. Le conosciamo bene, e ciò nonostante esse non ci hanno fermato nemmeno un istante del nostro lavoro. Esse non sono irrefutabili, perché uomini sapienti le hanno confutate. Potremmo dunque accontentarci di rinviare alle loro opere, oggigiorno rare, ma nessuno si prenderebbe la cura di consultarle, e ciascuno conserverebbe la sua opinione preconcetta.
Poiché lo spirito di servizio ci obbliga a ricominciare il lavoro dei nostri predecessori, richiameremo brevemente i tratti principali della controversia.
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La grande, la sola obiezione che si possa fare contro l’autenticità del libro di San Tommaso, non è basata su alcun fatto, alcun atto, alcun anacronismo, alcuna contraddizione che costituisca prova valida in paleografia o in bibliografia.
Essa si riassume così: «Essendo l’alchimia (secondo l’opinione dei critici moderni) un’opera del demonio o almeno una pietosa fantasia, un santo, un genio possente e forte come fu san Tommaso d’Aquino, non ha potuto prestarvi fede».
Tale è, in effetti, il fondo puerile e specioso dell’interminabile dissertazione che Naudé ha scritto sul soggetto (1). A rigore, nulla si potrebbe rispondere ad un autore che ha voluto provare nella stessa opera che né Zoroastro, né Pitagora, né Plotino, né Porfirio, né Giamblico, né Gerolamo Cardano, né Geber, né Arnaldo da Villanova, né Ruggero Bacone, né Tritemio, e neanche …. i re Magi furono mai iniziati alla magia. Ma siccome egli rappresenta bene lo stato di un gran numero di spiriti che meriterebbero di pensar meglio, esamineremo seriamente la sua critica. Egli comincia (capitolo XVII) con questa frase d’una lingua straordinaria:
«Non ho alcun dubbio che la falsità così manifesta di queste calunnie non sia che una congettura indubitabile del giudizio che ci fa produrre su questi libri immaginazioni di necromanzia, di Arte Metallica, di segreti di alchimia e di essentiis essentiarum, che sono divulgate e si vendono tutti i giorni sotto il nome di Tommaso d’Aquino, soprannominato a buon diritto da Pico splendor Theologiae, da Erasmo vir non sui saeculi, da Vivès Scriptor de schola omnium sanissimum e per consenso di tutti gli autori con quelli della chiesa, il fedele interprete di Aristotele e della Santa Scrittura, la base ed il fondamento della teologia scolastica, e per dirla in una parola, il Dottore Angelico. Perciò vi prego, quale apparenza vi sarebbe di potersi immaginare che questo grande spirito, che fu canonizzato nell’anno 1322 e la cui dottrina fu approvata per decreto dall’Università di Parigi nel 1333, e da tre sovrani pontefici, Innocenzo V, Urbano VI e Giovanni XXII, si sia dilettato o di magia, o di tutte le giravolte degli Alchimisti!…».
Questa verbosità si riassume così: «Mi dispiace di concepire san Tommaso come alchimista. Dunque, egli non ha potuto scrivere opere alchemiche».
È, come si vede, la sostituzione di un apprezzamento personale alle prove precise come base di ragionamento. Detto altrimenti, è l’anarchia in materia di logica. Potremmo dunque servirci dello stesso processo e rigirare semplicemente la proposizione dicendo: «Essendo la scienza occulta la più sublime delle scienze, o meglio la sola scienza, è naturale che un uomo straordinario come san Tommaso l’abbia conosciuta e praticata, ed essendo il papa un Mago, o almeno un uomo animato nelle sue decisioni dallo spirito di magia, non ha potuto che approvarlo».
«Ma – prosegue Naudé – nell’attribuirsi San Tommaso e nel reclutarlo nel loro partito, gli alchimisti non dimenticano che una sola cosa: ossia di tagliare e corrompere, come fanno gli eretici, quei passi dei suoi Commentari sul secondo libro del Maestro delle Sentenze (Distinct. 7, quaest. 3, art. 1, ad. 5) dove egli combatte formalmente la possibilità della trasmutazione metallica».
Naudé si è ben guardato di citare il testo di questo passaggio, perché ci si sarebbe potuti accorgere che esso non favoriva per nulla le sue teorie, e che San Tommaso non “combatte formalmente” la possibilità della trasmutazione.
Più attenti alla verità, noi lo riprodurremo qui integralmente. Esso si trova nell’enorme tomo intitolato Sancti Thomae Aquinatis in quatorum libros sententiarum Petri Lombardi, Parisiis 1659, in-folio. L’apriamo al libro II, distinct. VII, Quaest. III, Solutio 6, pag. 74, e troviamo le seguenti parole.
«(Sicut) Alchymistae faciunt aliquid simile auro quantum ad accidenta exteriores: sed tamen non faciunt verum aurum: Quià forma substantialis auri non est per calorem ignis, quo utuntur alchymistae SED PER CALOREM SOLIS, IN LOCO DETERMINATO ubi viget virtus numeralis: Et ideo tale aurum non habet operationem consequentem speciem: Et similiter in aliiis quae per eorum operationem fiunt».
Ora, chi non si accorgerà, alla lettura di questo passaggio che esso attesta la conoscenza profonda delle leggi e delle teorie alchemiche del suo autore? Si tratta anzitutto, non di sapere se San Tommaso condanni l’alchimia, ma se egli l’ha studiata. Questo passaggio ne è la prova; egli sa in che consiste la sua pratica; conosce l’essenza intima dei metalli; spiega anche il grande segreto nelle parole che abbiamo evidenziato, col perfetto linguaggio d’un alchimista. Queste frasi non hanno potuto esser scritte che da un adepto. Ecco dunque un fatto preciso: San Tommaso conosceva l’alchimia.
La condanna formalmente?
Se Naudé avesse letto qualche trattato d’alchimia con spirito imparziale, avrebbe costatato, con stupore che gli adepti stessi tengono sovente nei loro trattati un linguaggio simile. Insignum medicinarum nomina clangunt dice Weidenfeld, iis ipsis incognitis et cortices dantur pro nucleis (2). Egli l’avrebbe ritrovato in Paracelso, in Trevisano, nel presidente d’Espagnet ed anche nel trattato che oggi traduciamo, il che è una grande prova della sua autenticità.
Quale è dunque la teoria di San Tommaso? Che gli alchimisti non fanno l’oro, ma cambiano solo gli accidenti esteriori dei metalli. Significa forse ciò condannare l’alchimia? Egli insegna che non si può trasmutare la materia né cambiare la sua intima natura. Essa è non trasmutabile, in effetti, poiché è una. Ma riconosce che non se ne cambiano che gli accidenti, le specie, per parlare il linguaggio della scolastica. Gli alchimisti hanno mai insegnato altra cosa?
San Tommaso attacca qui i soffiatori, come hanno fatto tutti gli alchimisti. Dicendo tale aurum non habet operationem consequentem speciem, egli designa l’oro dei soffiatori, che essi ottengono attraverso il calore del fuoco, per calorem ignis. Ma, poiché egli stesso dice che l’oro autentico si ottiene per calorem solis, in loco determinato, non è dunque evidente che colui che conosce ciò che egli designa con parole enigmatiche come locus determinatus ubi viget virtus mineralis vale a dire l’athanor costruito secondo le regole principiali date dal grande athanor della natura, non è dunque evidente, dicevamo, che costui potrà produrre il verum aurum quod habebit operationem consequentem speciem?
Che mi si permetta di citare e comparare qui Paracelso (3):
«Ora – egli dice – l’operazione del corso celeste è ammirevole, perché, ancor che il lavoro dell’artista sia in sé stimato meraviglioso, nondimeno è degno di ammirazione grande che il CIELO cuocia, digerisca, imbibisca, dissolva e riverberi molto meglio dell’alchimista, in modo tale che il corso del cielo insegna il corso ed il regime del fuoco da tenere nell’arcano che si vuol preparare.»
Non è ciò quel che, con differente fraseologia, dice anche il pensiero di San Tommaso d’Aquino? Questa similitudine tra il Grande Maestro della medicina occulta ed il Grande Maestro della filosofia scolastica imbarazzerà molto gli scettici e gli increduli; per noi essa è un sostegno considerevole.
Dom Pernety (4) cita un autore anonimo che dice che, per conoscere la materia del fuoco filosofico, è sufficiente sapere come il «fuoco elementare prende la forma del fuoco celeste».
Il dizionario ermetico attribuito a Salmon (5) insegna che è la luce del sole accompagnata dal calore vivificante che costituisce il principio di tutti i movimenti del mondo.
Senza voler prolungare queste citazioni, constatiamo solo che tutti gli alchimisti hanno proibito l’impiego del fuoco ordinario e che san Tommaso, attribuendoglielo, designa incontestabilmente i soffiatori.
E Naudé aggiunge, con la sua abituale grazia: «Testimoniamo, senza ingolfarci in una infinità di prove – egli non ne aveva fin qui data alcuna – che essi fanno parlare questo grande dottore così puerilmente, nel libro Essentiis Essentiarum, che bisognerebbe non aver mai sfogliato le sue opere, come i Margajats ed i Topinambu (?) per credere che concetti così bassi e mediocri possano venire da uno spirito così sublime ed illuminato».
Ora, ciò non è che un parere, e, quel che è peggio, un parere di quel XVII secolo, per altri riguardi ammirevole, che adattava dei cattivi portali greci alle cattedrali gotiche, e non poteva, di conseguenza, comprendere interamente San Tommaso, che incarna il Medio Evo.
In più, l’argomento non ha alcun peso; supponendo che la differenza tra l’opera alchemica e l’opera teologica di San Tommaso sia così sensibile, sarebbe forse questa la prima volta che una tale contraddizione appare in un uomo di genio?
È sufficiente conoscere un poco l’umanità per non far uso di tali argomenti.
Non dimentichiamolo: un punto incontestabile, e d’altronde incontestato, è che San Tommaso è stato il discepolo più illustre di Alberto Magno. Ora, sarebbe assai difficile e paradossale di voler discolpare quest’ultimo dall’aver pratica la magia e l’alchimia, ammesso che ciò costituisca colpa. E sarebbe forse ancor più incredibile che un maestro, che attribuiva una così grande importanza alla scienza del mistero, non ne avesse insegnata al suo allievo almeno qualche nozione. Il libro che traduciamo oggi sarebbe dunque il riassunto degli insegnamenti preziosi che san Tommaso avrebbe raccolto dalla stessa bocca del suo maestro, con la venerazione che egli sempre gli porta. Nulla si oppone alla verosimiglianza di ciò.
Ma, si dirà, sarebbe un’opera della giovinezza che san Tommaso avrebbe rinnegato più tardi! A parte il fatto che egli non ha mai scritto alcuna ritrattazione da nessuna parte, non spetta certo all’autore stesso il giudicare della sua opera, poiché egli si sbaglia pressoché infallibilmente.
L’esperienza acquisita da una lunga pratica, l’evoluzione costante del suo spirito gli fanno sempre guardare i suoi primi saggi come giochi da bambino, mentre quei saggi sembrano ancora delle belle opere a coloro che si sono evoluti in modo differente.
Il trattato De lapide Philosophico, a qualunque epoca della vita di san Tommaso appartenga, è dunque con ogni probabilità di questo autore, ed allorquando una tradizione costante conferma questa probabilità, essa diviene certezza.
Naudé si sforza di dimostrarci la sua inferiorità, ma non sappiamo che farcene del suo parere; ciò che gli domandiamo sono prove precise d’inautenticità. Queste prove non può darle, non più di coloro che vorrebbero adottare la sua opinione. Ora, qeusta constatazione ci è sufficiente. Non è inutile rimarcare qui quale era veramente il ruolo dell’alchimia al Medio Evo. Si crede generalmente che essa fosse oggetto d’orrore, d’anatema e maledizione, allo stesso titolo dei malefici, gli avvelenamenti e gli omicidi. Nulla di meno esatto.
«La pietra filosofale, come fa giudiziosamente notare il commentatore di Bonaventura di Périers (6) era quasi un articolo di fede al Medio evo».
Non citeremo tutti gli autori ecclesiastici che ne parlano in effetti con ammirazione; contentiamoci di ricordare Marbodio (De lapidum); Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, Pietro de Natali nel Catalogus Sanctorum che dice, nella vita di Santa Margherita, che la pietra può scacciare il cattivo genio.
Era una delle scienze esatte di quest’epoca. Senza tuttavia far parte delle “sette arti” a causa del suo insegnamento iniziatico, la si studiava nondimeno come l’aritmetica, la cosmologia, la fisica e la musica del tempo, e di essa ci restano dei trattati di Alberto Magno, Santa Ildegarda, Ubaldo di Saint-Amand ed altri. Non si imputava la sua invenzione al demonio più di quanto non gli si imputasse quella del Trivium o del Quadrivium. Per parlare con linguaggio universitario essa era la “chimica” dell’epoca. Faceva parte della somma di conoscenze di ogni uomo veramente erudito.
È ammissibile che una scienza così importante, così feconda di comparazioni dal punto di vista metafisico, coltivata dai più gravi personaggi, sia sfuggita allo studio di san Tommaso, cosicché egli abbia trascurato di portarvi il potente spirito di investigazione che lo caratterizzava? E mentre avrebbe prestato attenzione al corso degli astri, alla formazione delle meteore, ai fenomeni del movimento, il vasto campo delle trasformazioni della materia lo avrebbe lasciato indifferente?
San Tommaso ammette d’altronde l’alchimia in diversi passaggi della sua opera: vedere Summa Theologica, 2, 2, quest. 77, art. 2 e lib. 4, Meteorum initio.
In un’altra opera egli tratta dell’astrologia giudiziaria, che è ben lontano dal condannare espressamente, non disapprovandone che gli abusi (Opusculum XXVI: De judiciis astrorum, 1857, in 8°, t. 3).
Quest’ultima opera, di cui nessuno contesta l’autenticità, è dedicata ad fratrem Reginaldum ordinis predicatorum. Ora, questo confratello Reinaldus o Reginaldo, è precisamente lo stesso cui è dedicato il secondo dei trattati d’alchimia che si troveranno più oltre.
Altrove (Opuscul. De regimine principium, Lib. II, cap. VII) san Tommaso insegna che un re deve possedere quantità di ricchezze d’oro e d’argento.
Teoria di alta portata politica, ma che è ben difficile spiegare senza il tacito appoggio dell’alchimia. «Senza ricchezze è assai difficile arricchirsi», dice enigmaticamente Lao Tseu (Tao, pag. 3).
Sembrerebbe comico, in effetti, comandare ad un uomo di essere ricco senza fornirgliene i mezzi. E se si confronta questa asserzione col costume seguito dagli adepti di rimettere il loro segreto nelle mani dei potenti, re o papi, per il maggior bene di tutti, si acquisirà la certezza che san Tommaso con le sue misteriose parole si riferisce alla Grande Opera.
***
Le assurde negazioni di Naudé non potevano rimanere senza risposta. Il Rev. P. Jacques d’Autun, predicatore capuccino, pubblicò qualche tempo dopo: L’incredulité sçavante et la crédulité ignorante, au sujet des magiciens et des sorciers avecque la réponse à un livre intitulé apologie pour tous les grands personnages qui ont eté faussement soupçonnéz de magie, Lyon, Jean Molin, 1671, in 4°.
Questo libro eccellente è sfortunatamente senza utilità nella nostra questione, malgrado ciò che sembra promettere il titolo. In effetti, non essendo san Tommaso uno degli autori più violentemente attaccati da Naudé, Jacques d’Autun non ha consacrato che qualche riga al suo riguardo (p. 1090), lasciando completamente da parte l’alchimia.
Un appoggio ben più prezioso ci sarà dato dal Rev. P. de Castaigne, religioso dell’ordine di San Francesco, dottore in teologia, abate di Sou, consigliere, elemosiniere ordinario del re e nominato da Luigi XIII vescovo di Saluces, di cui nessuno mette in dubbio l’ortodossia.
Nelle sue Oeuvres tant médicinales que chymiques (Paris, Jean d’Houry, seconde édition, 1661), dedicate a François Favre, vescovo di Amiens e gran maestro dell’Oratorio del Re, troviamo (II parte, p. 4) una nota per l’Opera filosofica di Jean Saunier, così concepita.
«Ma cosa diremo di quel gran Dottore Angelico San Tommaso d’Aquino, dell’ordine dei venerabili padri Predicatori, che, lui stesso, compiva questa opera santa dell’oro potabile? Io stesso ho avuto tra le mai il suo scritto originale, scritto di suo proprio pugno in latino, cominciante: Sicut lilium inter spinas. E se egli ne avesse usato per soccorrere i malati facendo Santa opera di Misericordia, non sarebbe stato ripreso da qualche invidioso medico del tempo? Si, ma egli gli avrebbe risposto dicendo: tanto di naso».
Ma l’abate Lenglet Dufresnoy sembra essere l’autore che ha meglio compreso l’opera alchemica di San Tommaso e che gli ha reso più pienamente giustizia (7).
«Convengo – ci dice – che un zelo indiscreto ha fatto mettere sotto il nome di quest’uomo illustre qualche trattato non suo; ma ve ne è qualche altro che si avrebbe difficoltà a contestargli. Quello della natura dei minerali (de esse et essentia mineralium) non è in verità degno di un così gran filosofo, non più del commentario sulla Turba che gli si attribuisce. Ciò nonostante, il suo Tesoro d’Alchimia indirizzato a fra Reginaldo, suo amico e compagno, non respira che la pratica di una filosofia singolare e segreta che egli ha almeno visto esercitare da Alberto Magno, che egli cita in questo libro come maestro in ogni sapere e soprattutto in questa scienza…
Questo piccolo trattato non contiene che otto pagine ed è, per chi lo sa intendere, ciò che di meglio io ho visto in questo genere…».
Questa opinione di uno dei più colti storici dell’ermetismo è preziosa. Il piccolo trattato a fra Reginaldo potrebbe in effetti essere sufficiente per il completamento di tutta l’opera senza il soccorso di alcun altro maestro. È dunque meglio far tacere ogni obiezione, accettare un’autenticità tradizionale simile a quella della maggior parte delle opere antiche e che, lungi dallo sbiadire la gloria di san Tommaso, non fa che aggiungere al suo splendore, aumentando d’un piccolo mirabile trattato la serie incomparabile dei capolavori che egli ha lasciato alla Chiesa.
Ad ogni possibile contestazione, noi opporremo l’esempio del Liber eruditionis principium, stampato per la prima volta nel 1857 sotto il nome di san Tommaso (8), e che era appena stato scoperto alla biblioteca del Vaticano. Nessuno ne ha messo in discussione l’autenticità: ciò nonostante mai menzione ne era stata fatta in precedenza, ed alcuna prova poteva farlo attribuire a san Tomaso se non ciò che era scritto all’inizio dell’opera, il nome di questo grande Dottore. È precisamente il caso del Trattato della Pietra. Il nome di san Tommaso vi si trova scritto per tradizione, e se la prova è sembrata sufficiente dopo sei secoli per attribuirgli un manoscritto sconosciuto, a maggior ragione essa lo sarà per la sua opera alchemica che ha altri precedenti.
Aggiungiamo che alcuno tra i trattati ermetici di san Tommaso è stato mai inserito nell’index del Concilio di Trento.
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I due trattati di cui diamo per la prima volta la traduzione francese si trovano riuniti nel tomo III del Theatrum Chemicum (Argentorati, in 8°, 1613), sotto il titolo generale di Secreta Alchemiae.
Il primo trattato è intitolato De lapide Philosophico. Esso si trova ancora, in parte, nelle edizioni seguenti:
1° S. Thomas de Esse et Essentia mineralium, in 4°, Venetiis 1488.
Questa edizione, data un po’ più di duecento anni dopo la morte di san Tommaso, nel periodo delle origini della stampa, prova che la gloria alchemica di questo dottore data da assai lontano e che i manoscritti ne dovevano essere allora assai diffusi.
2° Idem, in 8°, 1592.
3° Idem al tomo V del Theatrum Chemicum, pag. 806.
È questo il trattato Esse et Essentia mineralium, o, secondo altri, De esse et essentia metallorum, di cui l’abate Lenglet Dufresnoy mette in dubbio l’autenticità, come abbiamo visto in precedenza. Ma è probabile che egli non conoscesse che queste tre ultime edizioni, che sono visibilmente troncate e che non sembrano che abbozzi della prima citata. In effetti, in esse mancano il primo ed i tre ultimi capitoli, che si trovano invece nel tomo tre del Theatrum e che abbiamo tradotto; inoltre vi si trovano numerose varianti.
È incontestabile che questo trattato porti numerose tracce di rimaneggiamento, così come grandissime inesattezze. Il testo ne diviene talvolta così oscuro, che lo si crederebbe cabalisticamente scritto, benché non lo sia. Abbiamo seguito in questa traduzione il testo del tomo III confrontandolo con quello delle altre edizioni e di qualche manoscritto che offriva lezioni più corrette, senza credere tuttavia di aver sciolto tutte le difficoltà.
Per terminare la bibliografia di questo primo trattato, conosciamo attraverso un documento assai segreto, che esisteva nel XVII secolo, una traduzione francese della parte tronca di quest’opera, che era stata fatta sull’edizione di Venezia, ma che non conobbe mai la stampa. Era un manoscritto in-folio che potrebbe forse trovarsi oggi in qualche biblioteca privata, ammesso che le vicissitudini del tempo lo abbiano risparmiato.
Quanto al secondo trattato, che si trova, ugualmente nel tomo III del Theatrum, intitolato Thesaurus Alchemiae e dedicato a fra Reginaldo, noi ne conosciamo le edizioni seguenti:
1° Tomae Aqauinatis, secreta alchimiae; Coloniae, 1579.
2° Id. Secreta Alchimiae magnalia, in 8°, Lugduni, senza data.
3° Id. Lugduni Batavorum, 1598.
4° Thomae Aquinatis Alchimiae magnalia, item Thesaurus Alchimiae, in 8°, Lugduni, 1602.
Non ritorneremo sugli elogi che Lenglet Dufresnoy ha riservato a questo trattato.
Esiste ancora un’opera di San Tommaso, la cui traduzione non ha potuto trovare posto qui, ed il cui interesse è per la verità minore:
Essa è intitolata:
Liber Lilii benedicti nuncupatum, etc.
È un commentario su di un poema alchemico di 18 versi (Theatrum Chemicum tomo IV, p 959). È forse quest’opera quella di cui il rev. P. de Castaigne possedeva il manoscritto di pugno dello stesso san Tommaso. Tuttavia io credo piuttosto che si tratti ancora di un’altra opera oggi perduta.
Infine, segnaliamo il commentario sulla Turba dei Filosofi di cui parla Lenglet Dufresnoy, ma che io non conosco sotto il nome del dottore Angelico.
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Prima di intraprendere la lettura di questo trattato, ricordiamoci che gli adepti raccomandano la preghiera e soprattutto la purità di cuore. Che gli increduli meditino queste parole della Scrittura: Altissimus de terra creavit medicamentum quo sapiens non despiciet (Eccl. C. 38, v. 4), citazione cui non può darsi che un senso alchemico.
E quest’altra (Proverbi, cap. III; 16): “la saggezza ha la lunghezza dei giorni nella destra, e nella sua sinistra le ricchezze e la gloria!”. Ammirevole definizione della Pietra filosofale, che è nello stesso tempo, secondo tutti gli autori, una medicina che prolunga la vita ed una inesauribile fonte di ricchezze, mentre la scienza che vi conduce è la saggezza per eccellenza.
L’adepto si ricorderà inoltre che la conoscenza perfetta di tutte le combinazioni del Tarocco è necessaria per il compimento di tutta l’opera. Questo segreto, qui riannunciato per la prima volta dopo tre secoli, si trova implicitamente contenuto nell’opera intitolata: La Toyson d’Or ou la fleur des thrésors, en laquelle est succinctement et méthodiquement traicté de la Pierre des Philosophes, par ce grand philosophe Salomon Trismosin, précepteur de Paracelse, Paris, 1613. Vi si troveranno ventidue figure a colori che rappresentano le ventidue fasi delle sette operazioni principali della trasmutazione.
Porgeremo ugualmente alla meditazione le sentenze simboliche che accompagnano le stampe ammirevoli di un’opera ermetica forse pressoché sconosciuta (9), ma tra le più elevate e meglio ispirate.
Ars Laboriosa Convertens Humiditate Ignea Metalla In .
Caliditas Humiditatis Algor Occulta Sivitas.
Cunctipotens Autor Lucis Omnia Regit.
Author Mundi Omnipotens Rex.
Iucunde Generat Natura Ignea Solis.
Iu Gehenna Nostrae Ignis Scientiae.
Aurifica Ego Regina.
Album Quae Vehit Aurum.
Trium Elementorum Receptaculum Recondo Aurifondinam.
Separandum Venerum Leniter Philosophiis Homogeneam Viscositatem Resuscitat.
Medicinam Ego Rubeam Creo Universalem Regiamque In Utero Soli.
Solus Altiora Laboro.
Queste sentenze danno, in qualche modo, la chiave assoluta dell’opera, e noi terminiamo augurando al lettore, come hanno fatto tutti gli Adepti, la più perfetta riuscita nelle loro esperienze, se essi vorranno riporre la loro fiducia e la loro speranza unicamente in Dio.
NOTE:
(1) Apologie pour les grands hommes soupçonnez de Magie, par G. Naudé, Parisien, in 12°, 1712.
(2) Segeri Weidenfeld, De secretis adeptorum liber, Hambourg 1555.
(3) Paracelso, Les XIV livres des paragraphes de Paracelse Bombast, Paris, 1631, in 4, discorso dell’alchimia. Terzo fondamento dell’alchimia paracelsiana, pag. 13.
(4) Fables égyptiennes et greques, t. I, p. 170, Paris 1786.
(5) Paris, 1695, piccolo in 8°.
(6) Edition Garnier, 1872.
(7) Histoire de la philosophie hermetique, 3 vol. in 12°, 1742, T. I, p. 152.
(8) Opuscules de saint Thomas, Paris, Vivès 1857, tome IV.
(9) Escalier des sages ou Thresor de la philosophie des anciens, mis en lumière par Barent Coenders van Helpen, gentilhomme. Cologne, 1693, in-folio.