Pagina on-line da 03/06/2012

 

tratto da Memoires de l’Académie de Stanislas, 1898, V serie tomo 16, pp 143-158.

 

 

Traduzione di Massimo Marra©, tutti i diritti riservati riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per quasiasi fine.  

 

 

La ricerca dell’oro è all’ordine del giorno: dalle sabbia brucianti della Transilvania alle vette ghiacciate dell’Alaska, la febbre dell’oro imperversa violenta, più crudele che mai. Si è in procinto, pare, di scoprire un processo per liberare dall’acqua di mare l’infima quantità d’oro che essa contiene in soluzione (1); un chimico americano, il dr.Emmens, pretende di trasformare l’argento in un metallo nuovo, l’argentaurum, che offrirebbe tutte le caratteristiche del metallo più prezioso; si ricerca infine perfino nei vecchi scudi che la Zecca fa fondere, per raccogliere la quantità infinitesimale di oro che vi è contenuta. La scienza moderna riprende, con i nuovi agenti di cui può disporre, lo studio del grande problema che ha appassionato il mondo da quindici secoli, e la “grande opera” dei filosofi ermetici diviene quasi una questione d’attualità.

Non è dunque inopportuno far conoscere l’esistenza di un laboratorio alchemico che ha funzionato al castello di Condé, a due leghe da Nancy, dal 1609 al 1613. Se i documenti contenuti nel Trésor des Chartes non levano completamente il velo che nasconde ancora la fine misteriosa degli alchimisti lorenesi, essi permettono almeno di intravedere il loro metodo, e gettare un po di luce su di una questione storica rimasta, nonostante tutto, assai oscura.

Scienza occulta, l’alchimia è passata come tale alla storia.

Il suo oggetto, nessuno lo ignora, era la trasmutazione dei metalli. Cambiare i metalli vili in metalli nobili, fabbricare oro o argento attraverso procedimenti artificiali, tale era il fine di questa decana di tutte le scienze. Senza arrivare a pretendere, come gli adepti del XVIII secolo che l’alchimia fosse già conosciuta prima del diluvio, si può tuttavia ammettere che le pratiche metallurgiche e le prime idee di trasmutazione si perdono in una antichità probabilmente assai remota.

Venuta d’Egitto e di Caldea, le culle di ogni scienza umana, questa tradizione era conosciuta anche dai Romani, e Plinio il Vecchio racconta (3) che Caligola fece calcinare una quantità considerevole di orpimento (4) per trarne dell’oro; vi riuscì, ma la resa fu così minima, che la quantità d’oro ottenuta non pagava i costi dell’operazione. È il primo tentativo di preparazione artificiale dell’oro che l’antichità ci abbia trasmesso. Verso il IV secolo i greci d’Egitto porteranno l’alchimia a Costantinopoli; gli Arabi, dal canto loro, la esporteranno in Spagna, da dove ella conquista l’occidente. Malgrado le condanne di cui essa fu oggetto, la scienza ermetica si espanse, al XIII ed al XIV secolo con Raimondo Lullo, Ruggiero Bacone e Nicolas Flamel. Nel XV secolo, il re d’Inghilterra Enrico VI, coniò della moneta falsa con dell’oro alchemico; infine, nel XVII secolo, la “grande opera”  raggiunse il suo apogeo, prima di piombare nella ciarlataneria. (5)

Gli alchimisti arabi consideravano i metalli come corpi uniformemente composti  di zolfo e di mercurio: il mercurio rappresentava il principio metallico, e lo zolfo l’elemento combustibile. Secondo loro, i metalli no  differivano che per le proporzioni e per il grado di purezza dei due costituenti. Più un metallo era inalterabile, più era nobile. L’oro era il re dei metalli, e tutti i metalli tendevano pertanto a diventare oro sotto l’azione degli astri. In conseguenza, gli alchimisti di Bisanzio, sull’esempio dei Babilonesi avevano dato ai metalli il nome dei pianeti che, secondo la loro dottrina, li generavano. l’oro era consacrato al sole, l’argento alla luna, il rame a Venere, il piombo a Saturno, etc.. Quanto al mercurio, materia prima della “grande opera”, era, ovviamente, consacrato ad Hermes. L’azione degli astri sui metalli era lenta, e così la grande preoccupazione degli alchimisti era scoprire la sostanza meravigliosa capace di realizzare immediatamente l’agognata trasmutazione. La “pietra filosofale” o “gran magistero”, è stato sovente descritto dagli adepti che pretendevano di averla osservata; non solo essa permetteva di trasformare in oro i metalli volgari, ma, in più assicurava la salute e prolungava l’esistenza.

Gli arabi avevano saputo mantenere l’alchimia circoscritta allo studio dei fatti, il medio evo, ritornando alle superstizioni dell’antico Egitto, introdusse nelle ricerche l’ispirazione religiosa, e le pratiche misteriose di cui gli adepti circondavano i loro lavori, unite alle soverchierie dei ciarlatani, aumentarono ulteriormente la fede del volgo nell’intervento di potenze occulte.

Come l’antichità, il medio evo associa l’alchimia con la magia, e si sa bene come quest’epoca, così feconda per altri punti di vista, sia rimasta sterile dal punto di vista scientifico. Ciò nonostante, in presenza dei risultati ottenuti , gli alchimisti stessi potevano credere in buona fede, alla riuscita finale delle loro operazioni. L’analisi delle leghe preziose era talmente imperfetta, in quest’epoca, che anche nel XVI secolo, allorquando nelle Zecche l’acqua forte rimpiazza il solfuro d’antimonio per il saggio dei metalli, si è dovuto prendere sovente per oro anche delle leghe in cui il metallo prezioso era appena sufficiente per difendere l’argento dai reattivi.  (6)

A partire dalla prima metà del XVII secolo, degli adepti percorsero l’Europa, non più per insegnare la composizione della pietra filosofale, ma al contrario, serbandone gelosamente il segreto, per mostrare solo ai profani stupefatti i risultati prodigiosi che essi pretendevano conseguire.

La polvere di proiezione, vale a dire l’agente con la virtù di trasformare in oro un metallo inferiore, era quasi sempre una polvere rossastra, probabilmente del cloruro d’oro. In tutta la Germania non si parlava d’altro, in quei tempi, che della Società dei Rosa – Croce e delle trasmutazioni miracolose compiute da Alessandro Sethon e da Sendivogio. Anche in Lorena diversi gentiluomini non temevano di occuparsi della
“grande opera”: il poeta alchimista Clovis Hesteau de Nuysement, ricevitore generale della contea di Ligny, contava tra i suoi collaboratori François de Riguet (7), La Roche-Brinel ed Antoine de Couvonges (8). Ciò nonostante, un medico loreno, Nicolas Guibert, rinunciò alla grande opera  e fece apparire un libro contro l’alchimia, opera che sollevò in Germania violente proteste (9). È allora che due adepti, designati sulle prime con i soli nomi di battesimo di Pierre e di Claude, arrivarono ad offrire i loro servizi al duca Enrico II.

Il momento era ben scelto; principe debole e spendaccione, Enrico II era a corto di denaro (10): egli accetta con sollecitudine le offerte dei due alchimisti e gli fa montare un laboratorio al castello di Condé. Questo castello, di cui non restano che rovine informi, era ancora, a questa epoca una fortezza importante, difesa da diverse torri e da un mastio; le sue muraglie spesse cinque piedi, erano guarnite da «52 cannoni di pietra, foggiati a gola di leone», distanziati di venti piedi gli uni dagli altri, il che suppone uno sviluppo delle mura all’incirca di 300 metri.

Costruito in un sito pittoresco, al di sopra della Mosella, nel mezzo di vigne e dei boschi, Condé era una residenza gradevole; i duchi, in seguito, si fecero costruire ai piedi della collina, quasi sulle rive del fiume, un secondo castello, meno grandioso ma più confortevole della vecchia fortezza, ed i principi della famiglia ducale vi venivano spesso in villeggiatura. Questo castello a valle esiste ancora in parte; esso porta il numero 19 nella strada detta del Vecchio Castello. Ma il castello a monte aveva,, nel frattempo, conservato al sua antica funzione, e serviva da prigione di stato: il famoso vescovo di Metz, Conrad Bayer de Boppart, vi fu detenuto nel 1439, e lo sfortunato capitano Bataille, di cui Pfister (14) di recente evocò la figura misteriosa, vi fu detenuto dopo il 1595. È dunque nel castello a monte, che, verosimilmente, furono alloggiati gli alchimisti, benché l’aria del paese non contasse nulla per persone che passano per negromanti ed erano in leggero odore di eresia. Condé, in effetti, aveva la reputazione d’essere un vero e proprio nido di stregoni: dal 1582 al 1619 vi si bruciarono sei uomini e sette donne del villaggio, riconosciuti colpevoli di sortilegio e veneficio.

Comunque sia, troviamo i nostri alchimisti installati nel castello « per nobile desiderio di Sua altezza», e H. Lepage consacra i nostri artisti le righe seguenti in Les comunes de la Meurthe (15): «Qualche anno prima (1612 e 1613) due individui che non risultano designati che attraverso i nomi di Pierre e Claude, e che si qualificano alchimisti, vi erano stati richiusi probabilmente sotto la medesima accusa (di sortilegio) che si vedeva tanto frequentemente ripetuta nel nostro paese».

Ciò non è totalmente esatto: vi è ragione di credere che i due adepti, arrivati a Condé come lavoratori liberi, vi furono imprigionati  solo quando si constatò che essi avevano mancato alle loro promesse: Quanto ai loro patronimici, ci sono rivelati da una notula di contabilità, i conti dei costi del processo che gli fu intentato nel 1613 (16): essi si chiamavano in realtà Pierre Rouyer o Le Rouyer e Claude Pigny. 

Il primo anno, vale a dire nel 1609, essi lavorarono centoottantotto giorni, ed il capitano-prefetto di Condé, Charles de Pullenoy (17), fa fede di una somma di 1321 franchi (18), spesi per il loro salario e per le spese che il loro lavoro generava (19). Il loro sostentamento costava 7 franchi al giorno, tanto per loro che per i loro domestici, mentre quello di un normale prigioniero dello stato non ne costava che 1.

Nel 1610 (20) Pierre e Claude ritornano a Condé e lavorano solo dal 10 marzo al 5 aprile, ossia per 26 giorni. Il loro sostentamento costò 7 franchi al giorno, come l’anno precedente. Essi occuparono tre camere, sopra le cucine del castello; gli si montano fornelli, gli si forniscono gli utensili, lingotti d’argento che si sarebbero dovuto cambiare in oro, 141 libbre (21) di piombo “per fare la loro coppella” (22) ed infine due brocche (23) di aceto «da mescolare con le loro droghe». Secondo l’uso, i due alchimisti erano guardati notte e giorno, nel timore, senza dubbio, che essi facessero sparire qualche particella del prezioso metallo; questa condizione si definiva «essere messo in loggia». La  precauzione era inutile; invano si invia, per controllare i lavori, il signor Mery, saggiatore della zecca, che soggiorna al castello dal 10 al 25 marzo; invano il maestro di zecca (24) stesso arriva in persona presso i “lavoranti dei metalli”. I due funzionari dovranno solo confessare la loro impotenza e ritornare a Nancy, con le orecchie basse, mentre un carretto riportava nella capitale i loro stracci con i resti dell’argento che gli era stato affidato. A quest’epoca tutti viaggiavano a cavallo, il maestro della zecca come il semplice saggiatore.

Ciò nonostante il duca mostrava fede robusta, e tale era la sua fiducia negli alchimisti che gli permette di riprendere i loro lavori. Senza dubbio essi avevano dimenticato di mettere un po’ d’oro nel fondo del crogiolo, precauzione indispensabile, a dire dei filosofi ermetici, per la riuscita della trasmutazione. Dunque, li si rifornisce, e , il 27 novembre 1611 (25) troviamo Pierre e Claude installati nuovamente davanti alle loro storte. Essi hanno anche ottenuto un aumento di salario: il loro sostentamento è ora di 8 franchi al giorno in luogo di 7. Si è anche rinnovato l’armamentario, ed è stato fornito il combustibile, i crogioli, l’acqua forte e l’argento (26), 50 libbre di piombo e tre carretti di ossa “per fare le loro ceneri”. Il saggiatore della zecca viene ad assicurarsi che non gli manchi niente, e quattro guardie svizzere, distaccate dalla guardia ducale, vengono incaricate della sorveglianza.  Nonostante il calore delle fornaci, malgrado la gloriosa reputazione legata alla loro nazionalità, i quattro svizzeri non berranno che 126 brocche di vino da quattro gros (27) l’una, ovvero l’equivalente di circa un litro e un quarto al giorno per ognuno.

Per due mesi i nostri alchimisti lavorano, soffiano, mescolano i loro reagenti, provano tutte le formule, tutte le reazioni per arrivare al risultato promesso ed impazientemente atteso. Alla fine si ritira il crogiolo dal fuoco, lo si spezza e, nel fondo, brilla un lingotto: è oro? Il saggiatore della zecca, il signor Méry, fa la prova; ahimé! i nostri alchimisti si sono nuovamente sbagliati.

Questa volta la pazienza del sovrano è alla fine: il signor Méry riceve l’ordine di riprendersi oro e argento residui e di appropriarsi dei reagenti e delle sostanze che restano: i due alchimisti sono messi sotto chiave il 27 gennaio 1612.

L’affare è abbastanza grave, perché il procuratore generale in persona, Claude-Marcel Remy (28), arriva a Condé per seguire più dappresso l’istruzione del processo. Questa è affidata a due assessori di Nancy, i signori Noirel (29) e Maucervel, che restano quattro giorni a Condé per interrogar gli accusati ed ascoltare i testimoni. Pierre e Claude dovettero sollecitano la remissione dell’accusa; avevano essi fede nella loro opera? oppure, avventurieri audaci, speravano di guadagnare tempo e di essere aiutati da un felice caso? Essi ottennero comunque il permesso di continuare le loro ricerche, e non è escluso che la morte di Rodolfo II non fosse del tutto estranea a questa decisione. Questo principe, conosciuto per adepto convinto della grande opera, passava per possessore della pietra filosofale. La cosa parve essere del tutto indubbia quando si trovò, nel suo laboratorio, 84 quintali d’oro e 60 quintali d’argento, colati in piccole masse in forma di mattone (30). L’evento fece una gran rumore. Enrico II riprende fiducia, gli alchimisti dichiarano che cambieranno metodo ; gli si invia il maestro della zecca, per sapere « in che modo intendono lavorare». Il saggiatore gli porta da Nancy dei “matelas” (senza dubbio dei matracci) (31) , dell’argento vivo, del rame, del piombo, dello zolfo, ed anche una forbice per tagliare l’argento. Forse i nostri alchimisti avevano letto Plinio, e volevano ripetere l’esperimento di Caligola, perché domandarono anche dell’orpimento.

Dal 27 gennaio 1612 al 17 agosto 1613, essi rimasero in prigione, sotto la guardia di quattro svizzeri che li sorvegliavano giorno e notte, continuando a bere le loro due brocche quotidiane di vino. Talvolta, i quattro soldati erano sostituiti da robusti campagnoli: la guardia svizzera non era numerosa, e l’assenza di quattro uomini lasciava un vuoto nei ranghi. Un arciduca arrivava a Nancy, la guardia doveva figurare al completo, ed si richiamavano i quattro soldati distaccati a Condé. Lo stesso avveniva se il duca arrivava a Bar e a Plombiéres.

Per diciannove mesi, gli alchimisti rimasero dunque rinchiusi, ma il loro regime non era severo. Il loro sostentamento, contato in ragione di 2 franchi al giorno,  costava il doppio di quello dei loro compagni di cattività. Gli si assegna per laboratorio due grandi cucine, e due camere vicine per dormire, definite la  panneterie  e la saulserie. Questo trattamento di favore potrebbe sorprendere se non si sapesse che il de Pullenoy, capitano-prevosto di Condé, era lui stesso un adepto della gande opera. di tanto in tanto, essi ricevevano delle visite; talvolta era il signor Méry che veniva ad analizzare i prodotti ottenuti, talvolta era il signor des Bordes, l’uomo di fiducia del duca,. che veniva a sorvegliare i loro lavori  prima di prendere una decisione al loro riguardo.

Lo sfortunato Des Bordes! Chi si aspettava di trovarlo mischiato in quest’affare? Lui, che dodici anni più tardi, il 28 gennaio 1625, doveva essere bruciato vivo, sotto il pretesto del reato di stregoneria, in quello stesso castello di Condé.

 

 

   

 

NOTE:

(1) La presenza di oro in soluzione nella acque di certe zone era stata scientificamente dimostrata da molto tempo, ma era scappato ai chimici, fino ad oggi, il mezzo atto ad estrarlo. Diversi stabilimenti speciali sorgono con questo fine a nord di Lubecca, nello stato del Maine. Il metodo di estrazione sarebbe basato sull’elettrolisi, e da una singola tonnellata di acqua di mare prelevata a San Francisco, si estrarrebbero venti centesimi d’oro. 

(2) Frantumando completamente le molecole dell’argento, e riaggregandole dopo un appropriato trattamento, il Dr. Emens otterrebbe un metallo talmente simile, dal punto di vista dell’apparenza e delle proprietà fisiche, all’oro, che l’Ufficio di saggio di New York lo accetterebbe al prezzo dell’oro naturale. Fino ad oggi, questa operazione, estremamente interessante dal punto di vista scientifico, non ha dato tuttavia risultati remunerativi; si assicura però che un’attrezzatura più perfezionata permetterebbe una produzione di 1,550 kg. per mese, e cioè circa un quinto della produzione mensile dell’intero Transwaal. (La Nature, 1807,  2° sem. , pp. 1 e 278).

(3) Libro XXXIII cap. IV.

(4) Trisolfuro d’arsenico.

(5) Louis Figuier, L’alchimie et les alchimistesBerthelot, Les origines de l’Alchimie

(6) L. Figuier, op cit.

(7) Su Riguet, cf. Lepage, L’assassinat de Philippe-Egloff de Lutzelbourg, Mémoires de la Société d’archéologie lorraine 1883, p.237

(8) Fourier de Bacourt, Clovis Hesteau (Journal de la Société d’Archeologie Lorraine, 1899, p. 6)

(9) D. Calmet, Bibliotheque Lorraine, col. 453 e 175.

(10) A diverse riprese, Enrico II si occupa di questioni monetarie. La sua ordinanza del 12 giugno 1609, richiamando quelle del 12 maggio 1594 e del 18 agosto 1606, fu completata, due anni più tardi, dall’ordinanza del 18 giugno 1611, che interdiva l’uso  delle basse monete straniere e fissava il valore di quelle che avevano corso in Lorena. (Anc. Ordonn. de Lorraine, ms. de la Bilbiotheque de Nancy, t. III, fogli 221 e 269).

(12) Il piede di Lorena valeva 0,2859 m. (M. de Ricour, Les Monnaies Lorraines, in Mémoires de la Société d’archéologie lorraine 1884, p. 36).

(13) Lepage, Les Communes de la Meurthe, t. I p. 265.

(14) Ch. Pfister, La captivité du marquis de Chaussin (Journ. de la Soc. d’Arc. Lorraine 1897, p. 110 [200]).

(15) T I, p. 265

(16) Archives de Meurthe et Moselle, B 5043

(17) Charles de Pullenoy, signore di parte del feudo di Pullenoy, era anche capitano-prevosto, ricevitore generale e signore dei boschi di Condé e di Val-de-Faux. Era figlio di Mengin de Pullenoy, fatto nobile il 20 marzo 1567, primo valletto di camera di Carlo III e maestro castratore di Lorena nel 1578 . Charles de Pullenoy e sua madre, Louise de l’Isle lo rimpiazzeranno in qualità di  maestri castratori di Lorena e Barrois, nel 1611. (Arm. de D. Richier, p. 32; D. Pelletier, p. 672; Lepage et Germain, Complément, pp. 270, 275, 294, 351; Lepage, Les offices des duchés, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr. 1869, p. 321).

(18) Nel 1610, il franco valeva 1 fr. e 76 centesimi della nostra moneta (M. de Riocur, Les Monnaies lorraines, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr. 1883, p.86)

(19) B. 4965 e 4966.

(20) B. 1328, 4967 e 4968.

(21) La libbra valeva g. 489,51 (M. de Riocur, Les Monnaies lorraines, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr., 1884, p. 43)

(22) Coppellazione, operazione avente per obiettivo il separare l’oro e l’argento dai metalli comuni con i quali sono in lega.

(23) La brocca (Pot) valeva lt. 2, 44 (M. de Riocur, l.c., p. 38)

(24) Nicolas Gennetaire, consigliere di S. A., maestro generale delle monete il 21 giugno 1582, figlio di Claude Gennetaire, funzionario del duca Carlo III, fatto nobile il 23 marzo 1549. Fu in seguito sovrintendente dell’ospedale di Nancy e morì il 2 maggio 1618 (v. Arm. de D. Richier, pp. 30 e 47; D. Pelletier, p. 289; Lepage et Germain, Complément, p. 267; Lepage, Les offices des duchés, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr. 1869, p. 236).

(25) B. 4969 e 4970.

(26) Non è inutile far notare che il dr. Emmens impiega, allo stesso modo, l’acido nitrico per il trattamento dell’argento nella fabbricazione dell’Argentaurum.

(27) Nel 1608, il gros valeva 11 centesimi (M. de Riocur, Les Monnaies lorraines, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr. 1883, p. 93).

(28) Claude-Marcel Remy, nato verso il 1575, era il primogenito del ben più famoso Nicolas Remy, procuratore generale di Lorena, fatto nobile il 9 Agosto 1583. Al principio avvocato al Parlamento di Parigi, egli ottiene, a ventiquattro anni, la carica paterna, il 26  agosto 1599,  ma sembra non essere realmente entrato incarica che nel 1606. Morì nel 1631 (V. Arm. de D. Richier, p.35, D. Pelletier, p. 690; Lepage et Germain, Complément, p. 282; Lepage, Les offices des duchés, Mem. de la Soc. d’Arch. lorr. 1869. 1869, p, 141; Leclerc, Notice sur Nicolas Remy, Mem de l’Acad. de Stanislas, 1868).

(29) Jean Noirel, signore di Brabois, consigliere di Stato ed assessore alla giustizia ordinaria di Nancy, figlio di Nicolas Noirel, signore di Domgermain e di Bois-Le-Comte ed assessore ai boschi di Toul, fatto nobile da Carlo III il 3 giugno 1568. (V. D. Pelletier, p. 597; Lepage e Germain, Complément, p. 275).

(30) L. Figuier, l. c. p. 121.

(31) Vasi a collo lungo in uso nei laboratori.