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Marcelin Berthelot intorno al 1901
Marcelin Berthelot
FONTI BABILONESI E CALDEE.
(cap. III paragrafo 2 di Les origines de l’alchimie, Steinheil, Paris 1885, pp. 45-53)
Traduzione di Massimo Marra, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.
Il testo che presentiamo di seguito è dovuto alla penna di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali di storia della scienza come La chymie au Moyen Age, Les Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l’Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.
Buona lettura.
M. M.
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Avvertenza: I testi in greco antico riferiti alle citazioni nel testo, nell’originale francese inseriti in nota, sono stati soppressi per le note difficoltà di resa in html dei corretti segni diacritici.
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Le teorie alchemiche non provengono solo dall’Egitto; esse posso reclamare anche, in parte, delle origini babilonesi. E da quel lato che esse si ricollegano al sistema delle scienze occulte di provenienza orientale: magia astrologia, alchimia, medicina, dottrina dei metalli, delle pietre preziose e dei succhi delle piante, formavano un corpo unico nell’antichità e durante tutto il Medio Evo; conformemente alle vecchie leggi di analogia che ho segnalato parlando del Libro di Enoch.
I caldei, vale a dire i maestri delle scienze occulte, giocavano un ruolo fondamentale a Roma, nella storia dei primi secoli della nostra era. Tacito ne parla frequentemente; sempre come di personaggi sospetti, associati ai magi, promotori di speranze colpevoli (1). Egli cita anche un Pammenes, famoso nell’arte di caldei e, per questo motivo, esiliato (2). Ritroveremo lo stesso nome tra gli alchimisti.
Questi caldei venivano dalla Siria e dalla Mesopotamia: erano i rappresentanti di religioni orientali e dottrine segrete coltivate nei templi. In effetti, i culti della Siria e dell’Asia Minore erano impregnati di mitologia babilonese: nelle grandi città dell’Eufrate come Ctesifonte, erede di Seleucia e di Babilonia, si era formata una cultura greco-persiana, di cui ritroviamo testimonianza negli alchimisti. Concentriamoci in modo particolare su questa filiazione, dal doppio punto di vista mistico e pratico.
Democrito è dato dagli alchimisti egiziani come il primo padre dell’arte, padre apocrifo, ben inteso; ora, il maestro di magia di questo Democrito era, secondo Plinio, così come secondo gli alchimisti, il medio Ostane. Non è tutto. Lo pseudo-Democrito compara le pratiche degli adepti persiani a quelle degli egiziani nella sua lettera a Leucippo (3), così come nei commentari di Sinesio. Allo stesso modo, Zosimo invoca i libri dei profeti persiani. Lo psudo-Zoroastro di cui parla Porfirio si ritrova in Zosimo (4). Anche questo un apocrifo, contemporaneo degli alchimisti, che si fregiava del nome del vecchio profeta iraniano. Circolavano sotto questo nome dei trattati di medicina ed astrologia, di cui i Geoponica ci hanno conservato dei frammenti.
Altrove Olimpiodoro cita (5) il libro dei Kyranides, o libro delle prescrizioni divine, il quale ci riporta ancora verso la Persia e verso la fine del II secolo. Esiste realmente un libro con questo titolo (6), che ci è pervenuto ed è stato stampato da Fabricius (7).
Vi si tratta di 24 gemme e 24 erbe, così come delle loro virtù magiche e mediche. Tutta l’esposizione è conforme alle pratiche dei magi ed a tradizioni che si sono conservate fino ad oggi in oriente, al riguardo della potenza segreta delle pietre e delle erbe. Anche Galeno cita il libro dei Ciranidi come fonte primaria degli alchimisti; pure Sincello ne parla. Diciamo infine che i cronisti bizantini attribuiscono a Diocleziano la distruzione dei trattati persiani d’alchimia, cosi come quella dei trattati egiziani: il che è conforme nel contempo tanto alla pratica dei romani quanto alle testimonianze già segnalate sulla diffusione, nella cultura del tempo, delle scienze occulte.
Dal punto di vista pratico, esisteva a Babilonia come in Egitto, tutto un insieme di processi industriali assai perfezionati, relativi alla fabbricazione dei vetri e dei metalli, alla tintura delle stoffe, alla tempera del ferro (acciaio di Damasco e dell’India). L’esistenza di questi processi è resa manifesta dall’esame dei resti dell’arte assira; tuttavia non possediamo dettagli precisi sui procedimenti di fabbricazione. Queste conoscenze erano d’altronde comuni sia ai Fenici che alle popolazioni siriane, intermediarie tra l’Egitto e Babilonia. Esse si sono conservate per via tradizionale fino agli Arabi ed ai Persiani moderni, la cui arte ha tratto da queste particolari fonti, al meno dal Medio Evo, la sua principale originalità. In ogni caso, tali conoscenze non erano estranee agli alchimisti, ed esse spiegano perché essi invocano i profeti persiani al fianco dei profeti egiziani.
Precisiamo qualcuna delle teorie venute dalla Caldea.
È probabilmente ai babilonesi che conviene risalire per la parentela mistica così celebre tra i metalli e i pianeti: Non so se si possa trovare un’indicazione più antica di quella di Pindaro che esprima la relazione dell’oro col sole (8). Questa relazione, così, come l’influenza degli astri sulla produzione dei metalli, si trova esposta nella maniera più netta nel commentario di Proclo sul Timeo. Vi si legge in effetti: «L’oro naturale (9) e l’argento, e ciascuno dei metalli, così come le altre sostanze, sono generate nella terra sotto l’influenza delle divinità celesti e dei loro effluvi. Il Sole produce l’oro, la Luna l’argento; Saturno, il piombo, e Marte il ferro (10)».
Olimpiodoro, filosofo neoplatonico del V° secolo, il quale sembra distinto dall’alchimista e meno antico di questi, ci dà una enumerazione più estesa: egli attribuisce il piombo a Saturno, l’Electrum (lega di oro e argento) a Giove, il ferro a Marte, l’oro al Sole, il bronzo o il rame a Venere, lo stagno a Hermes, l’argento alla Luna. Allo stesso modo nel manoscritto di San Marco (fol. 6) si legge a fianco dei segni corrispondenti: Sole, l’oro; Luna, l’argento; Saturno brillante, il piombo; Giove splendente, l’electrum; Marte infiammato, il ferro; Venere portatrice di luce, il rame; Mercurio lucente, lo stagno.
Vi è in questo caso qualche attribuzione differente dalle nostre, ma conforme a quelle dei vecchi alchimisti. Così l’Electrum, lega d’oro ed argento, figura anche in Zosimo come associato a Giove (11). Lo si trova ugualmente in una delle liste dei segni alchemici, come ricordavo poco fa. Era, in effetti, un metallo particolare per gli Egiziani; tuttavia più tardi esso disparve dalla lista dei metalli ed il suo stesso nome, passò, per una singolare transizione, causata senza dubbio dall’analogia delle colorazioni, a quello di una lega di stagno color d’oro, l’ottone. Nello stesso tempo il segno di Giove, divenuto disponibile, fu applicato allo stagno.
I segni attuali d’Hermes e del pianeta corrispondente figurano sulle pietre incise e sugli amuleti gnostici delle collezioni della Biblioteca Nazionale di Parigi. Questo segno e questo pianeta erano attribuiti in un primo momento allo stagno; allorquando questo metallo cambiò di segno e pianeta, il suo simbolo e il relativo pianeta furono attribuiti al mercurio, vale a dire al corpo che giocava un ruolo fondamentale nella trasmutazione dei metalli. Questi cambiamenti di notazione hanno avuto luogo tra il V ed il XII secolo. Essi ricordano quelli che la storia della chimica ha tanto sovente presentato. Si tramandano nelle liste successive che hanno contribuito a formare i lessici alchemici piazzati in capo ai manoscritti, come mostrerò in seguito.
Comunque sia, i vecchi autori si riferiscono costantemente al parallelismo mistico tra i sette pianeti e i sette metalli, ai quali Stefano d’Alessandria associa i sette colori e le sette trasformazioni. Così, nel simbolismo dei vecchi alchimisti, lo stesso segno rappresenta i metalli ed il pianeta corrispondente. Il segno astronomico del sole, tale quale figurava nei geroglifici egizi, tale quale si ritrova ancora oggi nell’Annuaire du Bureau des longitudes, è usato per l’oro; il segno della luna per l’argento; e questo doppio senso dei segni siderali si ritrova già nei papiri di Leida.
Tutte queste nozioni, sia chimiche che astrologiche, sono almeno dell’epoca alessandrina, ammesso che non risalgano a tempi ancor più antichi. Esse spiegano l’aspetto mistico degli alchimisti. L’uovo filosofico gioca un ruolo capitale nell’alchimia ed appare, fin dalle origini dell’arte, come punto di partenza dei suoi emblemi e della sua notazione. Esso è nel contempo il segno dell’opera sacra e della creazione dell’Universo (12). Tutte le sue parti hanno un significato simbolico, la cui enumerazione sembra essere la prima forma di lessico alchemico. Si tratta di un simbolo sia egiziano che caldeo. Secondo la mitologia egizia, il demiurgo Khnoum, altrimenti detto Chnouphis, volendo realizzare la creazione, fece uscire dalla sua bocca un uovo, ovvero l’universo. Nei nostri musei lo vediamo fabbricare su di una ruota da vasaio l’uovo misterioso, dal quale la leggenda traeva il genere umano e la natura intera.
In un ordine analogo di assimilazioni mistiche ed astrologiche, anch’esse originarie di Babilonia, e sulle quali gli alchimisti ritornano sovente, l’universo o macrocosmo ha per immagine l’uomo, o microcosmo. Tutte le sue parti fondamentali vi si ritrovano, ivi compresi i segni dello zodiaco (13).
A queste concezioni astrologiche venivano ad associarsene altre, prese a prestito dalla germinazione e generazione, che ci ricordano quale importanza i fenomeni agricoli avessero in Mesopotamia ed in Egitto: «l’oro genera l’oro, come il grano produce il grano, come l’uomo produce l’uomo» ripetono senza cessa gli adepti. Queste idee che sono state in vigore tra gli alchimisti durante il Medio Evo, esistevano già presso i nostri autori greci. Si vede come esse traggano la propria origine dall’Egitto e da Babilonia.
L’onda delle speranze illimitate, eccitata dagli studi alchemici, non si estendeva solo all’arte di fare l’oro, ma anche all’arte di guarire le malattie. Quest’ultima è invocata da Ostane il filosofo, uno dei più antichi pseudonimi, chiamato anche il mago, ovvero il Caldeo, il cui nome è citato da Plinio. Ora, nel libro alchemico che porta il suo nome, l’acqua divina guarisce tutte le malattie. Da ciò la concezione della panacea, dell’elisir di lunga vita, del rimedio universale presso gli arabi, eredi della cultura caldea e persiana.
La tradizione alchemica si estende al di là dell’Egitto e della Caldea. Dalla notte dei tempi le conoscenze pratiche, nell’ordine delle scienze reali come in quello delle scienze occulte, si sono propagate lontano nel mondo, con una singolare rapidità, e ne riconosciamo sovente, non senza sorpresa, la traccia nei monumenti contemporanei di diverse civiltà. È così che l’alchimia appariva, nel II secolo, in Cina, nella stessa epoca in cui essa fioriva in Egitto e presso gli Alessandrini. Ecco i chiarimenti che lo studioso d’Hervey de Saint Denis, professore al Collège de France, ha voluto fornirmi a questo riguardo. Si trova, nella grande enciclopedia Peï-ouen-yun-fou, che gode in Cina di una reale autorità, questa notizia assai chiara: «Il primo che purificò il tan (espressione tecnica consacrata per significare la ricerca della trasmutazione dei metalli) fu uno chiamato Ko-hong, che visse al tempo della dinastia degli Ou ». La dinastia degli Ou ha regnato dall’anno 222 all’anno 257 della nostra era. È dunque alla metà del III secolo che i cinesi avrebbero cominciato ad occuparsi di alchimia. L’iniziativa, secondo il dizionario yun-fou-kinn-yu, si dovette ai monaci della setta del Tao, seguaci del filosofo Lao-Tze, il quali praticavano anche la magia. Gli alchimisti cinesi si impegnavano a trasmutare lo stagno in argento e l’argento in oro; essi ponevano sempre nel crogiolo, con la pietra di tanno, una certa quantità del materiale cercato, visto come sostanza madre. Tali pratiche erano utilizzate anche presso i greco-egiziani, e lo stesso dicasi anche per l’associazione della magia con l’alchimia.
NOTE:
(1) Annali, II, 27. – Ad Chaldaeorum promissa, magorum sacra, somniorum etiam interpretes. – III, 22: quaesitum per Chaldaeos – VI, 20; XII, 22, 52; Objiceret Chaldaeo, magos, – XIV, 9.
(2) Pammenem, ejusdem loci exsulem et Chaldaeorum arte famosum. (Ann. XVI, 14).
(3) Ms. 2.327, fol. 258.
(4) Ms. 2.249, fol. 97; ms. San Marco, fol. 190.
(5) Ms. 2.327, fol. 214.
(6) Vedi Salamsii Pliniae Exercitationes, p. 69 (1689).
(7) Bibl. Graeca, XII, 755, prima edizione.
(8) Istimiche, ode V.
(9) Questa definizione sembra implicare una opposizione tra oro naturale e oro artificiale.
(10) Proclo, Commentario sul Timeo, 14, B.
(11) Nei suoi Metereologica: passaggio citato da Fabricius, I, V, ch. VI, Bibliotheca Graeca.
(12) Ms. 2.327, fol. 23, in basso. Vedi p. 24.
(13) Olimpiodoro, Ms. 2.327, fol. 213, v°.