Pagina on-line dal 26/05/2012

prima pubblicazione in Atrium – Centro Studi Metafisici e Tradizionali, anno VI (2004), n° 2, pp. 3-34.

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Il fenomeno estetico è semplice, si abbia solo la
capacità di vedere ininterrottamente un vivo gioco
e di vivere attorniati da schiere di spiriti, allora si
è poeti; si senta solo l’impulso a trasformare se
stessi e di parlare trasfusi in altri corpi e anime,
e si è allora drammaturghi.”.

Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di Furio Jesi,
Newton Compton, Roma 1988, pag. 63)

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Della poesia e delle sue antiche fortune.


In un passo famoso dell’Iliade (VIII-18\26), Zeus, assiso sull’Olimpo, intima furente agli altri dei di astenersi dalla battaglia, e tra le altre, pronuncia queste parole :

“….Su dunque, provate, o numi, affinché tutti sappiate: / Una catena d’oro dal cielo voi sospendendo / attaccatevi tutti o déi e dee quanti siate :/ dal cielo no, non potreste tirare giù verso terra/ Zeus, il senno supremo, per quanto vi affaticaste./ Ma quando fossi io invece a voler tirare sul serio, / vi trarrei con la stessa terra e con il mare stesso :/ poi legherei la catena intorno alla vetta dell’Olimpo / e penderebbero alte da quella tutte le cose…..” (Trad. di Mario Giammarco, ed. Newton Compton 1997).

Nulla può, dunque, attrarre verso la terra ed il tempo il senno supremo, la qualità divina del padre degli dei. Alla sua mano viceversa, sono legate le cose e le creature. Una catena d’oro, che nei secoli successivi i maghi e gli alchimisti ricorderanno appunto con il nome di Aurea Cathena Omeri, lega le cose del mondo alla loro origine celeste ed invisibile. Tutto è dunque collegato da un invisibile legame, eterno e invincibile, che collega la terra al cielo, il creato alla sua scaturigine.
Anche Platone, in un paso famoso del Timeo, che sarà oggetto di infiniti commenti nei secoli successivi, parla del legame occulto e misterioso che sembra legare tutti gli aspetti della realtà. Tra il mondo archetipale, eterno, sempre uguale a se stesso, incorruttibile, e quello sublunare, corruttibile e soggetto al mutamento, vi è un mondo intermedio, una materia traslucida che collega l’origine al creato, l’eterno al transeunte (1). Il filosofo parla anche nello Ione di questo legame invisibile. I suoi commentatori ed i soliti maghi ed alchimisti, ne ricorderanno infatti l’Annulus Platonis, parente stretta della più tarda pietra filosofale, il miracoloso medium coniungendi tincturas. Ecco come Socrate si rivolge al rapsodo Ione:

“….perché questa pietra non solo attrae direttamente gli anelli di ferro, ma comunica il proprio potere agli anelli stessi che fanno quel che fa la pietra: attraggono, cioè, altri anelli, sicché si formi a volte una lunghissima catena di pezzi di ferro e d’anelli pendenti l’uno dall’altro. Ma in tutti questi il potere non emana che da quella pietra…..”(trad. di Emidio Martini, in Tutte le Opere ed. Sansoni 1988, pag. 836)

D’altro canto, identico ci appare il simbolismo sotteso alla biblica scala di Giacobbe (Genesi 28-10/13) (2), ed ancora, analogo, il principio enunciato nella Tabula smaragdina attribuita tradizionalmente ad Ermete: ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per il miracolo di una cosa unica.
La trama nascosta di analogie, legami e parentele che occultamente regge il cosmo, ha guidato la visione umana del mondo e della natura per millenni. La tradizione ermetica ha designato questo legame universale come Anima Mundi, una definizione formulata già nella scuola di Chartres, nelle pagine, ad esempio, di un Gugliemo di Conches. Uno spirito unico ed omnipervasivo, promanante direttamente dalla divinità, anima ogni aspetto del creato. Il cielo e la terra si rispecchiano l’uno nell’altra in una fitta e nascosta rete di interrelazioni e corrispondenze. Il susseguirsi delle maree, il rincorrersi delle stagioni, l’alternarsi stesso di luce ed ombra, sono fenomeni in cui l’evidenza dell’azione del disegno della creazione, svela l’analogia profonda e principiale che regola il tutto cosmico.
Ogni pianta, animale, tipo umano, ogni profumo, ogni colore, ogni sensazione ed ogni stato interiore obbedisce a questa legge universale e si riflette in rapporto reciproco con analoghi innumerevoli, ognuno diverso, eppure, nel contempo, apparentato agli altri, rivelatore di gradazioni infinite di affinità e distanze, repulsioni ed attrazioni reciproche.
Con lo sciamano, il sacerdote e il mago, il poeta si accomuna nella conoscenza e nella sensibilità per la percezione degli invisibili fili di questa ragnatela di corrispondenze e parentele, di risonanze e repulsioni. Come il musico sacro, egli gioca con la sostanza del mondo, trasforma i suoni in parole e le parole in ritmo e canto. Sa evocare dall’immateriale il materiale, dal mito la creazione. Guida l’immaginazione del suo popolo rimaneggiandone indefinitamente le radici e gli orizzonti. Egli è in amistà, dunque, con gli dei e con la loro potenza magica, ne conosce il linguaggio segreto.
Agli uomini il poeta addita le regole nascoste della fondazione e comprensione del mondo, e rende così udibili armoniche impercettibili, ascendenti verso una realtà a volte troppo sottile per essere percepita dall’uomo comune. Così facendo egli rinsalda ciò che è diviso, traduce in mito condiviso la verità sottese alla natura ed alla vita. Il canto del poeta è sempre il racconto delle origini comuni, la lingua materna della memoria collettiva.
E’ per questo che egli, per Shelley e Novalis, è il perno della struttura sociale. In quanto tramite espressivo dell’immaginario collettivo, egli è il fulcro del vincolo societario, il cemento culturale della compagine sociale; in quanto artefice prediletto degli dei, in quanto pontifex, ovvero facitore di ponti tra la terra e il cielo (3), egli garantisce la comunanza del linguaggio dell’immaginario degli uomini con quello originario degli dei. Egli è il vero artefice della cultura di un popolo.
La perdita del senso poetico corrisponde alla degenerescenza del legame sociale, per dissoluzione dell’orizzonte culturale comune, per la sparizione dell’ancestrale legame con la lingua delle origini, la fonte rigeneratrice dell’universo immaginario da cui scaturiscono la morale, gli affetti ed i valori di una società. La dissoluzione dell’orizzonte culturale mitico corrisponde al crollo di ogni possibile etica, di ogni struttura sociale.
Non esiste una lingua, un sistema di segni che possa donare linfa vitale alla cultura collettiva prescindendo dalla lingua delle origini. Persa la via per il cielo, ai cui lati scorrono i ruscelli vivificanti, i rivi delle sorgenti della vita, l’intero paese si inaridisce e muore, l’intera popolazione diviene sterile.
L’epistemologo e storico della scienza Pierre Thuillier in La grande implosion (4), ha immaginato, all’indomani della grande catastrofe socio-politica della civiltà occidentale, nel 2077, un gruppo di studio formato da umanisti, storici e poeti impegnato a tempo pieno ad indagare sulle cause dell’implosione repentina della civiltà occidentale. I risultati dell’inchiesta rivelano una civiltà che, sorda ai pur innumerevoli avvertimenti dei filosofi e dei poeti, ha instaurato ed accresciuto le proprie facoltà tecnologiche a detrimento della poesia, svendendo all’economicismo ed alla mercificazione assoluta il proprio immaginario e la propria memoria. Distruggendo i miti e instaurando la dittatura di una specifica concezione della ragione, quella neo-positivista, scientista e utilitarista, l’occidente ha barattato il proprio futuro, andando incoscientemente incontro alla propria nemesi, al collasso culturale e sociale ed al conseguente decadimento civile. Nella sua disamina storica delle motivazioni e dei momenti salienti di questo processo instauratosi all’interno della società degli ingegneri, Pierre Thuillier raccoglie innumerevoli testimonianze degli allarmati appelli di intellettuali e poeti. Se la memoria non ci inganna, al folto appello dell’epistemologo mancano alcune righe illuminanti di Shelley, che nel 1821 già descrivono efficacemente il processo della dissoluzione dell’orizzonte poetico.

“Lo studio delle scienze che hanno allargato i limiti dell’impero dell’uomo sul mondo esterno ha, per mancanza di capacità poetica, circoscritto in proporzione i limiti del mondo interno; e l’uomo, avendo reso schiavi gli elementi, rimane egli stesso schiavo. A cosa se non all’esercizio delle arti meccaniche in maniera non proporzionata alla presenza della facoltà creativa, che è la base di tutta la conoscenza, si deve attribuire l’abuso delle invenzioni per ridurre e organizzare il lavoro sino all’esasperazione della diseguaglianza tra gli uomini? Da quale altra causa deriva il fatto che le scoperte che avrebbero dovuto alleggerirlo, hanno aggiunto un peso alla maledizione imposta ad Adamo?” (5).

La scuola di Francoforte, ed in particolare i lavori di Adorno ed Horkheimer, hanno svelato alla filosofia occidentale il disvalore connesso all’illuminismo ed al suo attacco sistematico al mito (6). La dissoluzione dell’orizzonte poetico, probabilmente, ne è la chiave di lettura più allarmante.


Del poeta e dei suoi misteri.

È forse per le sue prerogative divine che la poesia non è mai, nella storia dell’uomo, associata ad una origine semplicemente umana. L’origine della poesia, così come quella della musica, è il più imbarazzante mistero della epistemologia positivista.
Il moderno bisturi positivista ha affondato la propria lama sanguinosa anche nei sogni, attraverso una congerie di interpretazioni psicoanalitiche, che hanno sostituito il proprio mito a quello in dissoluzione che narrava di antichi dei e delle loro maschere simboliche. Di fronte alle prove scientifiche fornite dalle teorie psicologiche, l’epistemologia positivista dovrebbe sbellicarsi dal ridere, ma non può farlo. Se non accettasse i fumosi travestimenti della psicoanalisi, l’unica spiegazione disponibile tornerebbe ad essere quella, ormai sepolta, del mito e degli dei. Si accetta, dunque, a qualunque costo, la psicoanalisi con i suoi pericoli, le sue fragilità epistemologiche che svelano in maniera illuminante, più d’ogni altra disciplina, il grossolano meccanismo di sostituzione mitica dello scientismo.
Ma la poesia, ancor più, forse, di tutte le arti, rimane oltre ogni possibilità ermeneutica.
Apparentata al sogno, ma immensamente lucida, la creazione artistica, che utilizza canoni e leggi, inserisce con il talento e l’ispirazione un elemento ribelle ad ogni lettura dialettica, positiva. Un mistero riottoso ad ogni interpretazione.
L’ispirazione, l’enigma poetico, è vissuto tradizionalmente come un intervento esterno, una possessione. Estranea all’individuo in quanto tale, essa è la forma con cui le qualità metafisiche e le sensibilità sottili si manifestano e si esprimono. Il corpo del poeta è il teatro di una epifania del sacro, la sua creatività è lo strumento di forze che ogni tradizione, indistintamente, non ha saputo che indicare come metafisiche.
Il giovane romantico Wackenroder, assai prima della nascita dell’idea psicoanalitica, coglie tuttavia immediatamente il mutismo o il balbettio imbarazzato della modernità di fronte al mistero dell’arte. Egli non riesce a non scagliarsi contro il delitto dei sistematici, dei teoreti e critici che imbastiscono teorie estetiche volte a razionalizzare la pura essenza metafisica dell’ispirazione artistica.

“…I così detti teorici e sistematici, poi, ci descrivono l’ispirazione dell’artista per sentito dire, e sono completamente soddisfatti se con i loro vanitosi e profani filosofemi riescono a mettere insieme delle parole approssimative intorno a ciò di cui non conoscono né lo spirito, che non si lascia afferrare con le parole, né il significato… Riconoscono si, che il pittore e lo scultore debbono arrivare ai loro ideali attraverso un cammino che non è quello comune della natura e dell’esperienza; ammettono che ciò avvenga in una maniera misteriosa; e tuttavia credono e fanno credere agli scolari di sapere come ciò avviene; perché sembrerebbe loro una vergogna se nell’anima dell’uomo dovesse rimaner chiusa e nascosta qualche cosa sulla quale essi non potessero dare informazioni ai giovani desiderosi di sapere. E c’è in verità altra gente incredula e schernitrice che, con sorrisi e motteggi, nega completamente ogni elemento divino nell’ispirazione artistica e non vuole assolutamente ammettere una speciale distinzione o grazia del cielo per alcuni spiriti nobili ed eccezionali, perché si sente troppo lontana da loro… Essi rovinano le giovani anime degli scolari quando imbandiscono loro con tanta audacia e leggerezza delle opinioni precise su cose divine, come se fossero umane; e così li inducono nella folle illusione che sia in loro potere di capire ciò che i più grandi maestri dell’arte – io posso dirlo liberamente – raggiunsero solo mercé un dono divino…” (7).

Proveniente tradizionalmente dallo spirito dei morti o dagli dei ultraterreni, la poesia si manifesta essenzialmente come non umana. È come l’invasamento della pizia, l’ένθουσία, l’ένθουσιασμός, l’ispirazione divina, la possessione pressoché incoercibile di chi entra in comunione col mistero della divinità.
Sulle origini della poesia dalla manìa, dal furore profetico, anche Platone è assai chiaro. Nel Fedro, dopo aver stabilito che il furore divino è il più prezioso dei doni concessi all’uomo, Platone passa in rassegna l’invasamento della profezia e quello dei riti misterici. Al terzo posto egli pone l’invasamento poetico, non perdendo, peraltro, l’occasione di sottolineare il valore sociale e pedagogico della poesia:

“…Una terza forma di rapimento e di follia, ispirata dalle Muse, è quella che, impadronitasi di un’anima tenera e vergine, destandola ed esaltandola a comporre odi ed altri poemi, col celebrare innumerevoli gesta d’antichi eroi contribuisce a educare le generazioni future. E colui che senza un siffatto furore picchia alla porta delle Muse, persuaso che basti l’arte a renderlo poeta, non conseguirà l’intento, e la poesia di chi ragiona sarà eclissata da quella di chi delira…” (8).

Altrove, nello Ione, Platone si diffonde più lungamente sulla manìa poetica, sul furore sacro ispirato dalle muse.

“… Così anche la Musa, è soltanto essa che crea degl’ispirati, e attraverso questi si forma una catena d’altri entusiasti, Giacché tutti i poeti epici, i buoni, non per arte, ma perché ispirati e posseduti dalla divinità, compongono tutti quei bei canti, e nello stesso modo i buoni poeti melici: e come gli agitati da un furore coribantico, non più padroni del loro senno, danzano, così anche i melici, non più padroni del loro senno, creano quei loro bei poemi lirici. Anzi, non appena colto un’armonia ed un ritmo, son presi da un furore bacchico e divengono invasati; e come le baccanti attingono dai fiumi miele e latte, quando son possedute dal nume, non quando sono nella pienezza del proprio senno, così anche l’anima dei poeti melici fa quello che essi stessi dicono. E i poeti ci dicono che da fonti melliflue, scorrenti da non so quali giardini e boschetti delle Muse, cogliendo i loro canti, li portano a noi, come le api, anch’essi, così a volo. E dicono il vero. Il poeta infatti è un essere leggero, alato e sacro, e non è in grado di poetare se prima non sia posseduto dal nume e fuor di senno e non più padrone della propria mente. finché possegga questo bene, ogni uomo è nell’impossibilità di poetare e di profetare. Poiché dunque e cantano e dicono molte belle cose su certi argomenti, come tu su Omero, non per arte, ma per un dono divino…” (9).

È dunque Calliope (10) dalla bella voce, insieme alle sue otto sorelle muse, ad ispirare ai poeti la follia creativa, la manìa sacra in cui ha origine il verso. Figlie di Zeus e di Menmosine, la memoria, le Muse sono legate ad Apollo, ne condividono gli attributi e le prerogative. Apollo è il dio solare della misura, dell’armonia, associato in genere ad un ideale puro ed etereo di bellezza ed ordine. Nelle sue mani vi è la cetra, dono del fratello Hermes – che è pure sempre il primo ad aver inventato lo strumento armonico. Nell’ermeneutica nietzscheana al suo opposto vi è Dioniso, il dio dell’ebbrezza e del baccanale, della danza sfrenata, della dissoluzione dell’io, dio ctonio e tellurico.
Giorgio Colli ha sottolineato come il sereno dio solare, patrono di un sovraterreno distacco da ogni forma di disarmonia, da ogni disordine caotico, si apparenti con la sua agitata controparte ctonia, il coribantico e sfrenato Dioniso, nella comune scaturigine dal territorio della manìa, dal furore profetico e mistico (11). Al di sotto della suddivisione di caratteri e attribuzioni, il terreno infero e caotico della possessione costituisce il radicale comune. Una parentela che si mostra nella sua maniera più evidente in un figlio, un protetto comune, un dio sospeso tra Dioniso ed Apollo che assumerà in sé, quale caratteristica principe, la perfezione del canto, divenendo il Dio dei musici e dei poeti. Figlio della musa Calliope, Orfeo possiede la lira apollinea, e condivide col dio solare, talvolta presentato come suo padre, iconografia ed attributi (12). Il suo canto ammansisce le fiere, muove pietre ed alberi, gli dona facoltà soprannaturali che si accompagnano a tutte le sue apparizioni. Eppure il suo viaggio agli inferi ed il suo tentativo di salvare Euridice lo apparentano anche a Dioniso, che sottrasse agli inferi la madre Semele. Apollodoro lo presenta senz’altro nella duplice natura di figlio di Apollo e di fondatore dei misteri di Dioniso (13). Una delle versioni del mito della sua morte ad opera delle Menadi, che ne sbranarono il corpo, vuole che le omicide staccassero la testa del dio e la inchiodassero alla sua lira, gettando in mare o in un fiume la macabra reliquia. La testa e la lira navigarono continuando a suonare e cantare fino ad essere portate all’isola di Lesbo, che da allora divenne la terra elettiva del canto e della musica. Qui la testa fu deposta nel tempio di Dioniso e la lira in quello di Apollo. Probabilmente la confusione e sovrapposizione tra Apollo e Dioniso che rivela Bachofen nel mito greco (14), ed in particolare in Orfeo, più che il prodotto di una sovrapposizione sincretistica è il disvelamento di una indistinzione originaria, di una comunanza di radici.
Platone, che non mostra alcun dubbio nell’attribuire questa medesima radice alla poesia, appare dunque ben conscio della vera fonte della creatività poetica, in cui Apollo e Dioniso si danno la mano.


Sulla scala di Giacobbe: suono, parola, verso.

In ogni caso anche Museo afferma che per i
mortali la cosa più dolce è il cantare.
Aristotele, Politica 1339 b, 21-22
da G. Colli La sapienza Greca, vol. 1 pag. 301

Il verso, così come la musica, nelle culture arcaiche è legato inscindibilmente ad un contenuto cosmogonico. Il suono poetico, così come quello del canto, è la diretta espressione del verbo creatore. Il Dio biblico crea con la parola, la tradizione cabalistica attribuisce ad ognuna delle lettere che compongono il suo nome, un’identità sessuale che esprime la potenzialità generativa. Il suono è l’elemento fondante dell’atto cosmogonico. Esso viene emesso, in moltissime cosmogonie, dalla divinità o dal demiurgo, e si sostanzia in luce, poi in materia. Decine di cosmogonie tradizionali ripropongono questo schema di creazione sonora (15). Il Dio della genesi crea l’universo attraverso la Parola; attraverso la voce del Verbo si sostanzia la realtà.
Nella mitologia indiana Prajāpati sacrifica, nella creazione, il suo corpo «composto di inni», ed alla fine, spossato dal sacrificio, è ridotto solo ad un cuore. Chiede aiuto per ricomporre il proprio corpo, ed è attraverso i canti che le acque gli restituiscono un tronco.
In Africa, la moglie di Mvidi, il progenitore mitico dei Songhe, nel bacino del Kasai, partorisce con uno scoppio di tuono. Il dio dei Masai del Kenia, crea, come il Jahvé ebraico, attraverso la parola. Il dio Volpe degli Achomavi, nella California settentrionale, creò la terra cantando. Il suo collega dei Wiyot, il Vecchio, infonde la vita starnutendo. Per i Kato, sempre in California, la creazione parte dal Tuono, mentre per i Maidu il sole si origina dal grido del Padre primordiale. Nella mitologia della scuola egiziana di Heliopolis il dio Ra crea il mondo con un grido luminoso. In una leggenda giapponese è il riso di 800 miliardi di dei a trarre il sole dall’antro sassoso che lo custodiva.
La voce del Dio che parla, canta, starnutisce, ride, se da un lato è suono, dall’altro, non bisogna dimenticarlo, è intimamente e profondamente correlata alla realtà vitale primordiale del respiro come segno dell’anima. Il fiato, che è la fonte del suono, è vita. Il soffio è anima. E’ l’alito divino che anima l’Adamo di fango.
Si tratta di un suono puro, indeterminato. La potenza cosmogonica di questo suono è racchiusa, di là di ogni forma, nell’essenza stessa della risonanza. Per questo la preghiera dell’asceta, che deve risalire i gradini della creazione fino a dio, si sostanzia nel mantra, nel sutra (16), nella giaculatoria, in cui le parole, i significati delle parole, annegano – devono annegare – nella pura risonanza, nella mera spazialità sonora. Così è nell’induismo e nella preghiera zen. La tecnica cristiana orientale della preghiera del cuore, pur se prevede il supporto di una dimensione immaginale, ha conservato questa coscienza primordiale del valore del suono, laddove esso sia propagato concretamente o interiorizzato, come avviene nelle fasi avanzate di questa tecnica. La recitazione delle litanie e delle giaculatorie, con la sua cadenza ritmica ed ossessiva tanto diffusa nella pratica popolare, non ha radici diverse. Ciò che conta, ciò che apre le porte, è il suono nella sua più pura essenza inarticolata.

“…abbandonando la parola
determinata da genere, quantità, etc ,
egli avanza verso il mistero
della sonorità nasale
…..
in seguito l’adepto,
concentrando il pensiero
….
fa progressivamente salire
il soffio unito al fuoco
….
È il Suono per eccellenza
l’Imperituro che si colloca
aldilà di tutte le categorie:
Vocali o consonanti, sorde o sonore
….
Ed è attraverso il suono
che l’adepto discende il cammino…” (17).

Il suono puro, inarticolato, è dunque in rapporto di superiorità gerarchica col suono organizzato, o, meglio col significato razionale che al suono articolato attribuisce la lingua. Delle componenti della parola, il primo posto spetta alla sua pura essenza e manifestazione sonora. Per questo motivo, all’interno del rituale, la corretta pronuncia ed intonazione degli inni sono considerati di importanza maggiore rispetto a qualunque altro aspetto.
Marius Schneider ricorda, a questo proposito:

“Anche Goethe dovette intuire qualcosa di questa priorità del suono allorché scrisse tra le sue massime: «La dignità dell’arte si svela nella musica in modo eminente, dato che essa non ha una materia con cui debba fare i conti». Anche Anandavadhana (secolo IX) nel suo Dhvanyâloka (un trattato indiano sull’intonazione nella dizione poetica) formulò il pensiero che il puro suono ha un grado di essenza maggiore della parola detta. Per questo poeta filosofo il suono (dhvani) è l’anima della poesia. La frase va pronunciata correttamente e chiaramente, ma essa è un mezzo per dire qualcosa di più profondo, perché l’ineffabile può essere comunicato solo attraverso il dhvani cioè il tono fondamentale che pervade l’intera poesia e che desta in noi ciò cui la parola allude. Questo significato più profondo del suono, che può essere del tutto differente dal senso delle parole metaforiche, si impone solo a poco a poco nella nostra sensibilità. Solo dopo che la parola detta ha risuonato, incomincia, come l’eco di una campana, a vibrare.” (18).

Il puro suono cosmogonico, dunque, nel progredire della creazione dell’universo, si sostanzia in luce. Progressivamente o d’improvviso esso si trasmuta in materia, di traslucido ed aereo diviene opaco, denso. Da aereo materiale.
Della potenza generativa del suono, della sua facoltà cosmogonica il corpo conserva il ricordo ancestrale. Pavel Florenskij, con l’acutezza che gli è propria, nota il legame profondo che sembra unire la qualità della voce umana allo sviluppo delle capacità generative ed alla pubertà:

“È il caso di considerare il parallelismo omotipico del sistema di respirazione della voce e del sistema coronario e genitale, e precisamente l’omotitpia degli organi della voce e degli organi genitali. La loro centralità nell’organismo e la loro relazione essenziale con tutte le funzioni è ben nota, così che cambiamenti in quest’ambito portano con sé cambiamenti analoghi nel sistema vocale.” (19).

Il suono rivela così con chiarezza nel microcosmo umano la sua qualità cosmogonica.
Il principio sonoro, dunque, sembra discendere dall’universale, potenziale ed invisibile, al denso ed individuato, secondo una scala che permane al di sotto della realtà, occulta ma non per questo meno persistente, che si determina come il territorio di comunicazione tra l’uomo e il reame degli dei. Il primo gradino è la luce (20), il passaggio dall’invisibile al visibile. Il secondo, in qualche modo, è la parola.
Ancora Florenskij si trattiene sulla qualità essenziale della parola quale elemento di limite tra il mondo interiore e la realtà esterna. Emessa e, per così dire, generata nell’ambito dell’interiorità umana, la parola rappresenta il tramite di confronto con l’universo che viene a risolvere una crisi complessa e profonda nel processo di definizione della realtà.

“Il problema è che la parola, quale termine intermedio fra mondo esterno e interno, è un’entità anfibia, che vive sia nell’uno sia nell’altro, intesse specifiche relazioni tra questo e quel mondo, e tali relazioni, per quanto l’occhio del positivista stenti a percepirle, tuttavia esistono e stanno alla base di tutte le ulteriori funzioni della parola. Questa base, evidentemente, punta a due direzioni: anzitutto muove da colui che parla verso l’esterno, come attività che da colui che parla esce fuori verso il mondo; in secondo luogo, in quanto percezione che riceve colui che parla dal mondo esterno, va verso colui che parla. Detto altrimenti: attraverso la parola la vita viene trasformata e assimilata allo spirito. O ancora: la parola è magica e mistica. Considerare l’aspetto magico della parola significa comprendere come e perché noi possiamo agire nel mondo tramite la parola… la parola pronunciata traccia il bilancio del nostro desiderio interiore di verità e ci mette davanti agli occhi l’impulso di una conoscenza quale meta raggiunta e valore acquisito dalla coscienza… Due energie, quella della realtà e quella del conoscente, sono prossime l’una all’altra, e forse si mescolano, ma tale mescolanza fluttuante non rappresenta ancora un’unità e suscita, a seguito della lotta inconciliata dei suoi elementi nel nostro intero organismo, un forte desiderio di equilibrio. La tensione cresce, e sempre più forte si percepisce il contrasto tra colui che conosce e ciò che deve essere conosciuto. È come prima del temporale: la parola è il lampo che straccia il cielo da est a ovest e rivela il senso incarnato; nella parola vengono compensate e unite le energie accumulate. La parola è un lampo, non è l’una o l’altra energia, ma un nuovo fenomeno energetico, costituito da due unità, una nuova realtà nel mondo: un canale di collegamento tra ciò che finora era separato….” (21).

Se il suono nella sua essenza è all’origine del cosmo, l’articolazione del suono in parola rappresenta la nascita della materia individuata ed animata. È la potenza cosmogonica del nome a definire le identità del creato, le forme individuate dei regni visibili. La parola assegna ad una realtà indefinita un numero ed una successione di suoni; il nome, assegnando un valore numerico certo all’entità altrimenti indefinita, è l’identificazione di un’essenza specifica. Una creazione è completa solo quando la sua essenza è identificabile con un nome (e dunque un numero, una delimitazione) che ne catturi la sostanza sonora originale.
Nel Genesi Dio denomina la luce «giorno» e la tenebra «notte», dando così realtà al susseguirsi del tempo. Più oltre, Dio conduce innanzi ad Adamo le varie creature della campagna e del cielo:

“… Li condusse quindi da Adamo per vedere con qual nome li avrebbe chiamati; poiché il nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome. Adamo dunque dette il nome ad ogni animale domestico, a tutti gli uccelli del cielo e ad ogni animale della campagna…” (22).

Anche il babilonese Marduk, all’epilogo della creazione – Furlani (23) traduce ripetutamente un lemma assiro con “determinazione” – pronuncia i nomi delle cose e delle creature a suggello della sua opera:

“… Per far abitare gli dei in una dimora gradevole al loro cuore egli costruì gli uomini,
Aruru costruì con lui seme umano,
bestiame di campo, provvisto di vita, nel campo egli costruì,
il Tigri e l’Eufrate costruì e (li) pose nel (loro) luogo
chiamò il loro nome in modo buono…” (24).

La parola è dunque carica di un valore cosmogonico specifico, essa cattura e fissa, in qualche modo addirittura determina l’essenza ultima della creazione individuata.
Ma vi è di più. In quanto generata della sfera interiore, la parola si sostanzia in forma corporea, ed è quindi essa stessa atto cosmogonico. In sé, come di rado si ricorda, il simbolo non rappresenta, ma in modo spesso oscuri e difficilmente comprensibili, il simbolo è la realtà sacra che adombra alla fragile attenzione umana. La parola ha la sua scaturigine in una tensione incorporea, che si sostanzia in una percezione uditiva, e, pertanto, corporea (25). La parola umana ripete la cosmogonia sonora, è un riflesso del suono creatore emesso dal dio, ed è sostanza corporea, materiale, formata, individuata e completa. Possiede essa stessa, ontologicamente, la qualità che conferisce alla realtà esterna.
Per queste specifiche qualità, la parola si veste delle attribuzioni del logos cristiano, e può costituire dunque essa stessa manifestazione diretta della divinità. Laddove essa si costituisce come scaturigine stessa della realtà, può indifferentemente essere associata o sostituire concettualmente la divinità stessa. Raimon Panikkar, nel commentare il ruolo della parola nei Veda, annota:

“La rivelazione vedica ci dice in innumerevoli testi che vāc, la Parola, non è semplicemente un’invenzione della mente dell’uomo o un mero strumento di comunicazione, o una semplice espressione di ciò che l’uomo è. La Parola vedica è certamente tutto questo, ma è infinitamente di più. Fondamentalmente essa è importante quanto Brahman stesso, non nel senso che ogni essere in definitiva «è» Brahman, ma in modo del tutto particolare; la parola è la prima manifestazione dell’Assoluto dal quale scaturì. In ultima istanza Dio non ha nome perché Egli stesso è Parola…
Sarebbe inadeguato parlare di vāc esclusivamente come del principio dell’intelligibilità dell’universo, perché essa è anche il principio della pura affermazione che emerge dal nulla assoluto. Vāc, è proprio la Parola totale vivente, vale a dire la Parola nella sua interezza compresi i suoi aspetti materiali, il suo riverbero cosmico, la sua forma visibile, il suo suono, il suo significato, il suo messaggio. Vāc è più che mero significato o suono privo di senso; è più di una semplice immagine o veicolo di determinate verità spirituali. Essa non contiene rivelazione, è rivelazione. Era al principio. È l’interezza della śruti. La śruti è vāc…. Tutto ciò che è partecipa in vāc, attraverso la quale tutto è venuto in essere e che ha lasciato ovunque la sua impronta…” (26).

Vi è poi il nudo significato. Esso viene oggi percepito comunemente quale elemento principale della parola, suo contenuto sostanziale unico, destituendo il suono, il cui mistero rimane impenetrabile, di ogni valenza originaria. È ed è in realtà proprio il significato che, avulso dalla coscienza sonora appare essere il dato più superficiale della percezione della parola. Esso richiama ad una esperienza percettiva specifica, ad un ricordo culturalmente e storicamente determinato, ma, come tale, avoca a sé un potere di evocazione immaginale che era, in origine, complementare alla funzione sacra del suono. Così, ad esempio, il canto rituale (27) che narra il mito fondatore, in cui ritmo, melodia, poesia e narrazione concorrono a riaprire la porta verso il non-nato, verso il mondo dell’indifferenziato, la scaturigine della creazione.
L’evocazione di immagini, strettamente complementare all’assunzione del senso dialettico del componimento, deve considerarsi insomma un allontanamento dalla struttura originaria della creazione poetica, in cui l’evocazione di immagini è elemento complementare alla pura essenza sonora del verso ed al suo valore magico-rituale. Da questo punto vista gran parte della poesia moderna, basata sulla capacità evocativa di immagini contenuta nella parola scritta, è da considerarsi, dunque, una degenerescenza del senso originario del canto poetico (28).
Separato, amputato dal suo naturale compagno, il suono, e dagli orizzonti magici ad esso connessi, il significato razionale – e la sua monca ed incompleta capacità di sviluppare associazioni spontanee di immagini e memorie – sopravvive oggi quale legittimazione unica dell’uso della parola, alla cui dignità intrinseca rimane, in sostanza, solo quella funzionale di esangue strumento della comunicazione dialettica. Il suono e la sua magia, l’essenza individuata che esso cattura nella percezione delle culture arcaiche, muore nella disattenzione della modernità, si perverte in una dicotomia tra un involucro esterno – il suono, appunto, deprivato di ogni valenza – ed un senso interno, il significato.

“La maggioranza, la schiacciante maggioranza dei nostri contemporanei, non appena ha assaporato la «concezione scientifica del mondo», si è fermamente persuasa che la parola, se agisce, agisce solo come significato razionale, e non riflette minimamente su come questo senso possa essere trasmesso da una coscienza all’altra e quali siano i processi interni che rendono possibile la rivelazione del senso della coscienza. Il segreto presupposto di questa semplificazione estrema delle cose è il dualismo cartesiano nella concezione generale del mondo, dualismo cui non si sottrae nemmeno un problema specifico come quello della parola. L’uomo consiste di materia, che è di natura esclusivamente meccanica, e di anima, la cui essenza va ricercata in modo altrettanto esclusivo nella coscienza. Le due sostanze di Descartes, res extensa e res cogitans, tra loro incomparabili, pur avendo perso in evidenza, continuano tuttavia a segnare la comprensione del mondo in ampie cerchie dell’intelligencja; è una verità scontata, per questa, che i processsi della realtà materiale e il senso che si rivela nella coscienza possano non aver nulla in comune; ma se l’anima e il corpo non hanno nulla in comune, se l’uomo in senso proprio non è una totalità, allora tanto meno la sua parola può essere una totalità. Sul filo di questa interpretazione, secondo cui la parola non è una totalità, ma è costituita da un involucro esterno e da un contenuto interno organicamente scollegati, corre l’ostacolo per la comprensione della magia della parola e del suo effetto sovrarazionale sulla coscienza, sull’anima e sul corpo; di più, sull’intera natura dell’uomo.» (29).

In realtà, i testi sacri sembrano alludere all’impenetrabilità del mistero della parola, sembrano invitare con la loro stessa struttura letteraria ad una considerazione misterica della parola. La parola è circondata da un alone esoterico, è oggetto di speculazione, è posta quale mistero innanzi agli occhi del lettore e del fedele. Ciò che l’uomo può raggiungere è solo la superficie della parola, una parte tutto sommato minore e relativa. La vera potenza infinita della parola, la sua completezza assoluta, principiale, rimane oltre la portata umana, come sembra del resto alludere questo passo dai Rigveda:

“La parola è misurata in quattro quarti. I saggi
che possiedono intuizione conoscono queste quattro divisioni.
Tre quarti, nascosti in segreto, non causano alcun movimento.
Il quarto è il quarto che è pronunciato dagli uomini…” (30).

Dunque, abbiamo visto come originariamente il suono informe della creazione (melodia cantata, soffio, starnuto, tamburo, tuono o strumento magico), sostanziandosi in parola, in lemma determinato, determina nel contempo l’identità e la specificità dell’essere e delle cose. Dalla parola al suono-luce informe, si risale fino all’indifferenziato, al mondo degli dei che precede la nascita dell’universo. Conoscere il nome significa catturare l’essenza, manipolarla: è questo il senso delle parole magiche.
La scala sonora è dunque la via di comunicazione tra visibile ed invisibile.
L’atto rituale di ripetizione della cosmogonia, riproduce nel suono la sostanza ultima delle cose così come esse si condensano nell’attimo della creazione. Il rito, dunque, ripetizione ed imitazione della cosmogonia, deve essere essenzialmente suono:

1 – “Bisogna venerare l’udgitha come fosse la sillaba OM: con Om si inizia infatti il canto rituale. Ed ora spiegheremo questa [affermazione].
2 – L’essenza di tutte le creature è la terra, l’essenza della terra è l’acqua, l’essenza dell’acqua è costituita dalle piante, l’essenza delle piante è l’uomo, l’essenza dell’uomo è la parola, l’essenza della parola è l’RC (inno), l’essenza dell’RC è il SAMAN (melodia), l’essenza della melodia è l’udgitha (canto rituale).
3 – Di queste essenze la vera essenza, la suprema, la migliore è l’ottava, è l’udgitha….” (Chandogya upanisad) (31).

Ma se il suono fornisce la sostanza ultima sottesa alla realtà, la sua organizzazione nei semi formali della realtà individuata è affidata al numero ed alla sua espressione sonora più evidente: il ritmo.
Il ritmo interviene nella creazione facendo sua, ancora una volta, la potenza cosmogonica del numero. La scansione ritmica organizza la cadenza del tempo, lo rende divisibile e, pertanto, ne certifica la qualità creata, completa, concreta. Ciò che è divisibile esiste. E’ uno dei fondamenti della dottrina pitagorica dei numeri. Anche la dottrina filosofica di Filone d’Alessandria ci dice che qualunque cosa non sia considerata degna di essere concepita numericamente, è profana e non santificata, mentre tutto ciò che è fondato su valori numerici è da considerarsi certo e sacro. Lo stesso Logos, esplica la sua attività cosmogonica attraverso un’attività di divisione successiva del creato (32):

“… Sono le cose che vengono portate all’esistenza a richiedere una successione ordinata. L’ordine, implica il numero…” (33).

I numeri, è indubitabile, per lo sguardo arcaico sono il fondamento di ogni certezza della realtà.
Essi segnano il passo ed il ritmo che forma ed ordina la ricchezza debordante del creato, è con il loro apporto che si stabilisce il profilo delicato ed irripetibile che la creta della materia assume nelle varietà innumerabili delle forme individuate.
Il creato, appena scorto da occhio umano, doveva essere l’espressione misteriosa di un mondo nascosto di numeri, di magie di ritmi e ripetizioni scandite, incessanti. La struttura di questo costrutto poetico è nel numero. All’occhio di altre civiltà, più vicine nel tempo e nell’animo di quanto possiamo mai oggi sospettare, dovette essere evidente il legame profondo del numero con il bello, con l’armonico, il completo. Il ritmo periodico è l’espressione più completa di un’armonia numerica, ciclica. L’evidenza dei ritmi naturali, del susseguirsi delle stagioni, dei cicli lunari e mestruali della donna, le fasi della crescita degli animali e dei frutti, costituiscono altrettanti riflessi della perfezione assoluta del ritmo sotteso alla vita.
La musica riafferma così il suo ruolo rituale e magico, in quanto riassorbe e riconduce nella pura ed originaria periodicità ritmica sottesa al creato, l’apparente e disordinata, caotica molteplicità delle impressioni sensibili.

“ Dove risuona la musica nasce ipso facto, l’ordine, poiché i suoi intervalli e il suo «tempo» poggiano su rapporti numerici semplici. Soltanto così si spiega il ruolo di quest’arte nella magia bianca. Nella magia nera la si utilizza in maniera contraria. In luogo del suono ordinato interviene il rumore disordinato.” (34).

La natura è periodica, il suo ritmo è deciso in base alla scansione di un tempo sotteso a quello storico, profano. Il ritmo rituale, il metro poetico e musicale, riproduce dunque la periodicità del tempo sacro, che l’intero calendario liturgico e festivo sottolinea attraverso la festività e la rituaria.
Sullo sfondo la distinzione tradizionale tra tempo sacro, ciclico ed eterno, tempo della cosmogonia e degli dei, e tempo cronologico, durata profana.
Il tempo sacro è, per antonomasia il tempo della creazione, il tempo in cui si attua la cosmogonia, l’eterno presente primordiale in cui si determina il cosmos, in cui si riproduce l’atto divino all’origine di tutte le cose. E’ il tempo, o meglio la percezione spazio-temporale cui accedono il rito e l’estasi, il sacerdote ed il posseduto, ed in cui, per forza di cose, devono svolgersi le liturgie e le rappresentazioni misteriche. Il sacerdote, l’iniziato ed il posseduto, ritornando ad immergersi nel tempo originario, ritornano allo stato della purezza primordiale e partecipano alla cosmogonia, imitando la divinità.
Un carattere di questo tempo è l’infinita reversibilità. Il tempo sacro scaturisce sempre uguale a se stesso, senza origine e senza seguito, riproducendo infinitamente il divino presente dell’atto cosmogonico, e riperpetrando, nella ciclicità festiva, la ierofania che sottende allo scorrere del tempo storico profano. Non sottostando alle leggi della durata profana, il tempo sacro “non passa” ed è indefinitamente recuperabile, assumendo il carattere di base “indistruttibile” e perenne, eterno presente da cui scaturisce la durata del tempo storico.
Quest’ultimo non è che il riflesso opaco, entropico della potenza del tempo ciclico. E’ il regno di Crono, del dio divoratore dei figli, il luogo della trasformazione, della morte, della nascita individuata e dell’impermanenza. Il suo inesorabile dipanarsi nel corso della vita umana, attraverso il calendario festivo, è punteggiato dall’irruzione ciclica del sacro, che ne legittima e sancisce i limiti ed il ruolo.
Così, analogicamente alla ciclicità del tempo sacro, il ritmo poetico e musicale modella il proprio contenuto cosmogonico sul ritmo cosmico, sulla ripetizione ciclica dell’eterno istante sacro.
È per questo che in tutti i rituali apotropaici e di iatromagia, il ritmo svolge un ruolo fondamentale. Esso rappresenta l’ordine cosmogonico che si afferma sul caos del tempo profano; ripetendo il ritmo creatore, imitando la cosmogonia, si riafferma la vittoria del cosmos. Il pontifex, lo stregone, si armonizzano con il seme creatore della realtà, imitandone l’espressione numerica e ritmica. Di fronte alla scansione dei ritmi universali sottesi alla realtà, i demoni arretrano, si confondono, cedono, il loro potere si limita, talvolta si annulla. Lo sciamano si veste di suoni e di ritmi. Anche nel rozzo e spettacolare immaginario holliwoodiano egli impugna maracas, al collo ha campanelli, ai piedi cavigliere. Il suo movimento sonoro è una continua minaccia urlata ai demoni che popolano la realtà. È per lo stesso motivo apotropaico, in fondo, che ancora oggi nelle civiltà occidentali e cristiane, le ore sono scandite dalle campane. Lo scorrere del tempo, scandito dai rintocchi regolari, ribadisce la vittoria del cosmos sulle forze distruttive del caos. E quando, nelle rituarie popolari, durante la Settimana Santa, le campane si legavano in segno di lutto, sciamavano i giovani del paese con pentole, tamburi e strumenti di legno improvvisati, per non lasciare nel silenzio campo libero ai demoni. Le campane si sciolgono il sabato Santo, e suonano a festa (35).
Ad un occidentale moderno, privo di preparazione specifica, cui si domandasse se è nata prima la danza o la scansione ritmica, parrebbe probabilmente ovvio ipotizzare una precedenza della musica sul ballo, rifacendosi alla sensazione della scoperta della musica che, prodottasi in un qualche momento dimenticato, egli suppone sepolta nella sua coscienza, o, più probabilmente, al fatto che egli prova l’impulso della danza solo in presenza di musica.
La scoperta del contrario, e cioè che il ritmo nasce dal corpo, lascia in genere passabilmente stupiti.
Il nostro corpo, all’unisono col cuore e con la respirazione, ritma incessantemente il trascorrere della nostra vita. Se il tempo cosmico svela all’iniziato la natura periodica del suo scorrere, allora tale natura si mostra nella maniera più evidente nel fondo stesso della vita corporea dell’uomo.
Gli strati più profondi ed arcaici della coscienza contengono un senso del ritmo primordiale, perfettissimo. È grazie a questo se azioni che richiedono una cascata di complicatissime sequenze cinetiche possono avvenire. Con questo senso, ad esempio, camminiamo, privi della più elementare concentrazione. Questo senso interno del ritmo ci permette di compiere sequenze di gesti automatici con buona approssimazione. Proviamo ad interporre la concentrazione ed il pensiero cosciente tra noi e queste azioni, e vedremo rapidamente ingigantirsi il livello di difficoltà ed il margine di errore. Questo senso occulto governa le nostre cadenze, gli accenti del nostro quotidiano.
Chiunque ha provato l’irresistibile impulso – che nasce ogni qualvolta si esegue un’azione ripetuta – di dare all’azione stessa un ritmo ed una regolarità che liberi l’attenzione dall’esecuzione cosciente, e che nel contempo aumenti la scioltezza e l’efficacia dei movimenti.
Con una musica inudibile ed ineludibile già racchiusa nella nostra coscienza, il nostro corpo danza, con passi anche assai complessi.
Si hanno ormai ben pochi dubbi nell’attribuire al corpo il primato di matrice del ritmo, ed al movimento il primato di espressione sonora originaria. Il battito del piede sul selciato, gesto osservabile in qualunque tipo di danza, o il battito di una parte del corpo su di un’altra, sono le espressioni più immediate di tale primato.
Risulterà ovvio che se il corpo ha uno spazio, ed il movimento-musica ne delimita la variabilità, la musica ritmica nasce dalla danza, che rivendica così una primogenitura troppe volte ignorata. Ed infatti, come la poesia ed la musica, anche la danza è, essenzialmente, un’espressione del numero.
Essa, analogamente a ciò che il ritmo produce nel suono, delimita gli spazi dell’agire sacro della cosmogonia, ne sancisce l’armonica concatenazione delle fasi, ne ripete e scandisce periodicamente le azioni simboliche. Dove il ritmo divide ed ordina il tempo della creazione, la danza esprime la potenza cosmogonica dell’ordine nello spazio.
Ma, in questa sede, è dell’espressione sonora nella sua purezza che dobbiamo interessarci.
Il movimento animale è il primo ritmo, la prima scansione originaria.
Stabilita l’origine extramusicale del ritmo, è ovvio che esso non presenta, arcaicamente, la stretta associazione con la melodia che noi siamo abituati ad attribuirgli. In molte esecuzioni sacre, la letteratura etnologica, riporta una discordanza tra scansione ritmica e melodia. La melodia sembra essere stata assoggettata al rigore ritmico solo assai tardi, nella storia dell’umanità. I canti a solo primitivi, che si conservano vivi in alcune forme popolari (si pensi, ad esempio, ai canti a fronna – ovvero a distesa – della tradizione popolare campana) ne sono un esempio lampante. D’altronde, l’originale e codificata isoritmia del canto gregoriano, ebbe, nel medioevo, gravi difficoltà ad affermarsi nei conventi, a testimonianza di un ambiente culturale che non concepiva e recepiva il ritmo regolare e codificato. In pratica, è sicuro che il canto gregoriano non conoscesse una esecuzione ritmica regolare ed unificata almeno fino al rinascimento.
Ecco dunque delinearsi una profondità corporea ed insondabile delle radici del verso. La rima ed il suo ritmo, sono l’espressione elementare – ma infinitamente complessa e strutturabile – della matrice ritmica della creazione. Il suono della creazione, la sillaba elementare, emessa dal dio in funzione maschile e dal dio stesso ricevuta in funzione femminile, nella produzione ierogamica e sessualizzata che dona l’origine alla creazione, si organizza in verso obbedendo alla struttura ritmica del mondo creato, imitando l’atto cosmogonico di sottomissione al numero della materia indifferenziata. I versi del canto rituale, della formula magica, la scansione affidata alla sillaba sacra, sono lo strumento del pontifex che basa il suo rapporto con l’invisibile attraverso l’imitazione delle azioni creative del dio.
È per questo che il verbo ποιέω (faccio, creo, produco, foggio) è alla radice dell’azione del ποιητέος, del creatore, di colui che fa, ma anche, per estensione, dell’artista. Il poeta è in possesso delle chiavi del ritmo, della scienza, dunque, grazie alla quale gli dei creano e sorreggono i destini del mondo e dell’uomo. Egli gioca con i fondamenti segreti della danza del mondo. La sua arte ritmica è imparentata strettamente con le stesse leggi della creazione, e dunque i suoi canti possono guarire, evocare, propiziare, trasformare.
Se, dunque, suono e ritmo sono elementi cosmogonici originari, la loro coniugazione nell’espressione poetica – così come in quella più propriamente musicale – rende conto del senso sacrale e rituale del poema epico tradizionale, del recitativo, della cantilena, della cantillazione. Un senso che, come abbiamo visto, si evidenzia con maggior nettezza avendo riguardo alla radice etimologica greca che conserva intatta la più evidente associazione con il contenuto cosmogonico del verso sacro. Il mito e, dunque, la storia della creazione, sono inscindibilmente legati al verso. Gli dei esiodei possono affacciarsi alla coscienza dell’uomo solo con la danza sonora del canto e della poesia.
È in tal modo naturale che la narrazione filosofica, partendosi dal mito, erediti il verso come modulo espressivo naturale. Se la creazione si esprime ritualmente in versi, allora lo farà anche la conoscenza della stessa. L’indagine del filosofo nelle occulte pieghe del mistero dell’esistente, dai frammenti dei filosofici presocratici fino ai versi di Lucrezio, si sostanzia come armonizzazione tra riflessione del sapiente e ritmo della natura maestra. In ossequio al principio di analogia, diviene indispensabile l’omologia tra formula espressiva ed oggetto d’indagine. Il sapiente che nel suo viaggio segue le impronte della natura, ne imita nel contempo il passo, le movenze, il ritmo, appunto. Il verso e la rima, la ripetizione ritmica, sono ancora una volta lo specchio del ciclico susseguirsi del corso degli astri, del ritmo sotteso allo scorrere delle stagioni.
Come dice Novalis, l’occhio del poeta e quello dello studioso della natura, sono fratelli (36). Eppure, allo sguardo indagatore ed al bisturi sezionatore dell’anatomista, il linguaggio poetico ha contrapposto la visione sintetica dell’armonia in funzione di una bellezza a misura umana, necessaria alla comprensione delle vibrazioni più segrete del cosmo:

“Gli studiosi della natura e i poeti si sono dimostrati sempre un unico popolo grazie all’impiego di un’unica lingua. Ciò che gli studiosi della natura hanno raccolto in un tutto e hanno poi disposto in grandi masse ordinate, i poeti l’hanno elaborato per i cuori umani trasformandolo nel nutrimento quotidiano necessario ed hanno ridotto in frammenti quella natura incommensurabile formando numerose nature piccole e gradevoli.
Se questi ultimi hanno seguito con leggerezza più ciò che era liquido e volatile, gli studiosi della natura, sezionandola con tagli netti di coltello, hanno cercato di studiarne la struttura interna e i rapporti fra le membra. Sotto le loro mani la natura gentile moriva lasciando dietro di sé solo resti morti o scossi da convulsioni; al contrario, resa ancora più viva dal poeta, come per virtù di un vino ricco di spirito, essa faceva intendere le idee più divine e vivaci, si sollevava al di sopra della quotidianità, e, danzando e profetizzando, si innalzava verso il cielo dando il benvenuto ad ogni spirito e distribuendo i suoi tesori a piene mani con animo gioioso. In questo modo, in compagnia del poeta ella trascorreva ore celestiali ed invitava lo studioso della natura solo quando era malata o si sentiva scrupolosa. Allora lo informava su ogni questione e onorava di buon grado quell’uomo serio e severo.
Chi allora vuol conoscere davvero l’animo della natura deve cercarla quando è in compagnia dei poeti; qui ella è aperta e riversa il contenuto del suo cuore meraviglioso. Chi, invece, non l’ama dal profondo del cuore e ammira in lei solo questa o quella cosa e brama di sapere, deve visitare scrupolosamente la sua stanza di malata, il suo ossario.”(37).

La poesia cosmogonica greca di un Esiodo, o il verso latino di Lucrezio, riannodano l’evento della creazione divina ed il poema della natura, alla forma ritmica della cosmogonia mitica originaria. La poesia cosmogonica, cosmologica e filosofica si pone, nella dicotomia tra il linguaggio dell’indagatore dei misteri della natura e quello del poeta rilevata da Novalis, senza alcuna riserva dalla parte della pura poesia vivificatrice. Il simbolo ed il suo travestimento naturalistico – o mitico – sono parte vitale del gioco di allusioni e corrispondenze che costituisce il lavoro del poeta. Un mezzo espressivo che si radica, come si è visto, direttamente nelle sue arcaiche origini rituali e magiche.

NOTE:

(1) Timeo, V, 27 – VII, 33.

(2) “… E sognò: or, ecco, gli apparve una scala , che, appoggiata sopra la terra, con la cima arrivava al cielo; e per essa, ecco, gli angeli di Dio che salivano e scendevano. Al di sopra invece stava il Signore….”

(3) “…Le tue parole, Socrate, non so come, mi toccano l’anima, e mi sembra che per un dono divino i buoni poeti sieno a noi interpreti degli dei” (Platone, Ione, V, 535, Trad di Emidio Martini in Tutte le opere a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Sansoni, Osteria Grande 1988, pag.837).

(4) Edizione italiana: La grande implosione: rapporto sul crollo dell’occidente 1999-2002, Asterios Trieste 1997.

(5) Percy Bisshe Shelley, Difesa della poesia, a cura di Angela Mazzola, Rusconi, Milano 1999, pag. 129.

(6) Cfr. Adorno-Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Venezia 1996 e Horkheimer, Eclisse della ragione¸ Einaudi, Torino 2000.

(7) W. H. Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, Boringhieri, Torino 1993, pgg. 3-4.

(8) Platone, Fedro, XXII, 244 in Tutte le opere cit, pgg.477-478.

(9) Platone, Ione, IV, 534, in Tutte le opere cit., pagg. 836-837.

(10) È tradizionalmente la musa ispiratrice della poesia epica e dell’eloquenza.

(11) Cfr. ad es, le pagine sintetiche ed illuminanti di La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975, e di Dopo Nietzsche¸ Adelphi, Milano 1974.

(12) Cfr. ad es. con le fonti citate in K Keréni, Gli dei e gli eroi della Grecia, vol 2, pgg. 292-298, Garzanti, Milano 1986.

(13) Apollodoro, I Miti greci (Biblioteca), I, 3, 14-15, pgg. 11-13, ed. a cura di Paolo Scarpi, traduzione di Mari Grazia Ciani, ed. Fond. Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori, Verona 1996.

(14) J.J. Bachofen, Il Matriarcato¸ Einaudi, Mappano 1988, vol II, pgg. 583-585, 592.

(15) Su questo, naturalmente, cfr. Marius Schneider, La Musica Primitiva, Adelphi, 1992, e, soprattutto, Il significato della musica, Rusconi, 2° ed. 1981. Si veda anche Anita Seppilli, Poesia e Magia, Einaudi, Torino 1971.

(16) Sinteticamente, su questo cfr. Marie Madeleine Davy, La Montagna e il suo simbolismo, ed. Servitium, Palazzago 2000, pp. 149-152.

(17) È un brano tratto dalla Amŗtanāda Upanişad nella traduzione francese curata da Jean Varenne (Upanişads du Yoga, Gallimard, Paris 1971). Il brano è riportato anche a pag. 140 del citato testo della Davy.

(18) Marius Schneider, Il Significato cit., pag. 19. Del resto, anche S. Tommaso non manca di assegnare all’udito, e dunque al suono, un posto di preminenza nella scala dei sensi che porta alla conoscenza salvifica, ad esempio, nel notissimo Adoro te devote: «Visus, tactus, gustus in te fallitur \ sed auditu solo tuto creditur \ credo quidquid dixit Dei Filius \ nil hoc verbo Veritatis verius» (Vista, tatto, gusto in te si ingannano, solo nel sicuro ascolto si ha fede; credo in tutto ciò che disse il figlio di Dio, niente di più vero di questa parola di verità).

(19) Pavel Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003, pag. 32.

(20) “…Poiché in sanscrito «suono» si dice svara e «luce» svar, suono e luce sono sostanzialmente uniti in base alla loro affinità fonetica (cioè essenziale). Così la radice verbale egizia mui significa insieme «ruggente» e «splendore». Anche i Chippewa parlano d’un suono che appare la mattina ad oriente. Resti di questa concezione affiorano anche nella mitologia nordica, nella quale il «rumore» dell’alba riplasma diuturnamente il mondo. Già Jacob Grimm sottolineò a questo proposito l’affinità delle radici verbali designanti «uscire» o «guardar fuori» e «risuonare», come anche il doppio senso della parola svegel che vuol dire «zufolo» e «luce»… In base a questa identità di luce e suono il cantore nel Rigveda è detto svabhânavah, cioè «colui che ha luce propria» o «che è luce lui stesso». Il cantore Vasishta è il «portatore di luce» (l’aurora) procreato da Mitra e Varuna (giorno e notte)….”. (Marius Schneider, Il significato della musica cit., pag. 35.).

(21) Pavel Florenskij, op.cit, pp. 32-33.

(22) Genesi 2, 19\20.

(23) Poemetti mitologici babilonesi e assiri, traduzione a cura di Giuseppe Furlani, Sansoni, Firenze 1991.

(24) Ivi, pag. 61. Il rito fondatore del dar nome a tutte le cose, non è estraneo neanche ai Rigveda: «O Signore della sacra parola! Quello fu il primo \ principio della Parola quando i Saggi cominciarono a dare un nome a ogni oggetto…» (cfr. Raimon Panikkar, I Veda mantramaňjarī. Testi fondamentali della rivelazione vedica¸ 2 voll, Rizzoli, Trebaseleghe 2001, vol. 1, pag. 127). Analogamente, il dio vedico Prajapati, accoppiatosi con sua figlia, l’Aurora, ne ottiene un figlio. Interrogato sul perché del suo pianto ininterrotto, il bambino risponde prontamente che egli, nonostante sia felicemente nato, sarà libero dal peccato solo quando gli sarà dato un nome (cfr. C. Malamoud, Cuocere il mondo, Adelphi, Azzate 1994, pag. 49, ma anche O’ Flaherty, Miti dell’Induismo, Garzanti, Cerlusco sul Naviglio 1999, pgg. 33-34).

(25) La percezione della materialità della parola non è estranea, ad esempio, a Lucrezio: “…In primo luogo suoni e voci si odono \ quando, insinuati nelle orecchie, \ colpiscono con i loro elementi \ l’organo dell’udito. \ Dobbiamo ammettere infatti che la voce \ e il suono di natura son corporea \ perché possono stimolare i sensi. \ … \ Non v’è alcun dubbio che voci e parole \ non sian formati di atomi corporei, \ sì da poter esercitare un urto. \ A te non è ugualmente ignoto \ quanta sostanza porti via \ e qual vigore sottragga dai nervi \ e dalle forze stesse dell’uomo \ un discorso continuo e prolungato \ … \ Dunque è necessario che la voce \ di sostanza corporea sia formata, \ poiché sempre colui che parla a lungo \ perde molte forze”. (Tito Lucrezio Caro, De Rerum Natura, Mursia, Varese 1988, 2 voll., vol II, libro IV, pag. 49-51).

(26) Raimon Panikkar, I Veda mantramaňjarī. cit. vol. 1, pgg. 119-121.

(27) Ci si è posti il problema, intorno alle origini della poesia, se essa fosse da considerarsi tout-court legata alla sfera del sacro o se piuttosto dovesse considerarsi una doppia origine, rituale e profana, e se dunque il carattere puramente ludico di parte della tradizione orale della poesia popolare fosse da considerarsi carattere degenerato oppure originario. In realtà, probabilmente, la risposta sta nel riconsiderare la possibilità stessa dell’esistenza del concetto di profano all’interno di una civiltà tradizionale integra, in cui il ciclo stesso del tempo, e l’intera vita collettiva ed individuale è regolata in base ad un impianto mitico ed ogni aspetto del vissuto interiore ha un risvolto magico-rituale. L’aspetto ludico considerato come profano, è probabilmente una invenzione del mondo occidentale, che, nel suo cammino verso la desacralizzazione, ha ristretto progressivamente il territorio di competenza del sacro, attribuendo, viceversa, ad un concetto di profano una valenza ed una estensione di ruolo e significato. Nelle società e nelle culture arcaiche manca una netta distinzione tra il canto sacro e quello profano. I canti di iniziazione degli uomini, ad esempio, vengono spesso cantati da questi ultimi in occasione extra-rituali e puramente ludiche. Inoltre, anche laddove è vissuta coscientemente l’esistenza di canti profani, è frequente l’attribuzione dell’ispirazione poetica al mondo dei morti, a spiriti divini o a spiriti di animali-totem. (cfr. Seppilli, op.cit, pp.181 – 206).

(28) In tale chiave la legge, ad esempio, Nietzsche, che stabilisce la tendenza all’evocazione delle immagini come nettamente distinta dalla essenza musicale del componimento poetico, che egli considera senz’altro centrale: “Nella poesia del canto popolare vediamo dunque il linguaggio teso fino al massimo nella imitazione della musica: perciò con Archiloco comincia un nuovo mondo della poesia, che nelle sue radici più profonde contraddice quello omerico, Con questo abbiamo designato l’unico rapporto possibile tra poesia e musica, parola e suono: la parola, l’immagine, il concetto cercano un’espressione analoga a quella della musica e soffrono poi in sé la violenza della stessa musica. In questo senso è possibile distinguere nella storia linguistica del popolo greco due correnti principali, a seconda che il linguaggio imiti il mondo dei fenomeni e delle immagini o il mondo della musica… Tutta questa discussione si attiene al principio che la lirica dipende tanto dallo spirito della musica quanto invece la musica stessa, nella sua piena illimitatezza, non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma li tollera soltanto accanto a sé. La poesia del lirico non può dire nulla che nella sua più portentosa universalità e infinita validità non sia già nella musica, che costringe il lirico a esprimersi per immagini. Appunto per ciò il simbolismo cosmico della musica non può essere esaurientemente afferrato attraverso il linguaggio, poiché si riferisce simbolicamente alla contraddizione e al dolore originari nel cuore dell’uno primordiale, e quindi simboleggia una sfera che è al di sopra e prima di ogni apparenza. Nei confronti di tale sfera, ogni apparenza è piuttosto soltanto un simbolo: perciò il linguaggio, come organo e simbolo delle apparenze, non potrà mai e in nessun luogo proiettare all’esterno la più profonda intimità della musica, ma rimane sempre, appena si accinga ad imitare la musica, solo in contatto esteriore con essa, mentre neppure con tutta l’eloquenza lirica, possiamo avvicinarci di un solo passo al senso più profondo di essa” (Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di Furio Jesi, Newton Compton, Roma 1988, pgg. 54-56). È ovvio che Nietzsche ha qui davanti il linguaggio nella sua accezione moderna, e dunque nella sua dimensione puramente dialettica, deprivato della componente sacrale che proprio dalle sue sonore radici magico-religiose traeva la possibilità di un rapporto funzionale con la musica rituale.

(29) Pavel Florenskij, op.cit, pag. 53.

(30) Cfr. Panikkar, I veda cit. vol I, pag. 139.

(31) In Upanişad Vediche, a cura di Carlo Della Casa, TEA, Sancasciano 1988, pag. 115.

(32) Cfr. Filone d’Alessandria, L’erede delle cose divine, Rusconi, Varese 1981.

(33) Filone d’Alessandria, La filosofia Mosaica. La creazione del mondo secondo Mosé, Le allegorie delle leggi, a cura di Roberto Radice, Rusconi, Varese 1987, pag.49.

(34) Marius Schneider, Il significato cit., pag. 61.

(35) Ed è il medesimo il motivo per cui si suonano le campane a morto. Il morto si accompagna nell’aldilà sgombrando la strada dai demoni. Nel contempo, si argina la presenza e l’incombenza del mondo potenziale, della morte, che irrompe nel tempo dei vivi a reclamare la sua vittima.

(36) E’ anzi la filosofia stessa ad essere una qualche forma di poesia: «Il poema dell’intelletto è filosofia. È il massimo slancio che l’intelletto imprime a se stesso per superarsi. Unità dell’intelletto e della fantasia. Senza filosofia l’uomo rimane discorde nelle sue più essenziali energie. Ci sono due uomini: uno intellettuale e uno poetico. Senza filosofia poeta imperfetto, senza filosofia imperfetto pensatore e critico.» (Novalis, Frammenti, trad. di Ervino Pocar, Rizzoli, Ariccia 2001, pag 41).

(37) Novalis, I discepoli di Sais, a cura di Alberto Reale, Rusconi, Varese 1998, pp. 128-129.

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