Pagina on-Line dal 12/05/2012

L’anziano Berthelot fotografato nel suo laboratorio.

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Marcelin Berthelot
SULL’ALCHIMIA INDIANA
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Titolo originale Sur l’Alchimie Indienne, di Marcelin Berthelot apparso sul Journal des Savants, Aprile 1898 (pp. 227-236). Traduzione di Massimo Marra, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con quasiasi mezzo.

Il testo che presentiamo di seguito è dovuto alla penna di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in  momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali per la storia della scienza, come La chymie au Moyen Age, Les Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l’Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.
Buona lettura.
M. M.

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Nel corso dei miei studi sulla storia della chimica, sono stato spinto a ricercare le tracce dell’introduzione delle idee alchemiche presso i diversi popoli, a partire dall’Egitto e dai greco-egiziani, che sembrano esserne stati i promotori nel mondo. Ho ristabilito il carattere di questa filiazione per l’occidente nel medioevo, in quanto fenomeno derivante da una doppia radice: da un lato la tradizione artigianale diretta delle arti relative all’oreficeria, al lavoro dei metalli, del vetro, dei prodotti della ceramica e dei coloranti, dall’altra il ritorno indiretto, attraverso gli arabi di Spagna, di tradizioni orientali. Queste ultime, d’altra parte, provenivano comunque da una tradizione egizio-greca. Infatti, gli scritti greci degli alchimisti egiziani, erano stati tradotti al principio in lingua siriaca e trasmessi sotto questa forma agli arabi d’Asia, in comunicazione con quelli spagnoli. Ho pubblicato i testi greci, siriani, arabi, ed ho commentato i testi latini che stabiliscono le tappe di questa storia. Ciò nonostante l’alchimia, vale a dire la chimica sotto la sua forma originale, a metà tra scienza e chimera, si è diffusa nel mondo civilizzato, e specialmente nell’Asia intera. È così che troviamo testi persiani dell’epoca sassanide e forse anche più antichi, che hanno esercitato qualche influenza sullo sviluppo della scienza araba, parallelamente agli ascritti siriaco-greci. Ho riportato in un precedente articolo in questo giornale (ottobre 1897) quali tracce esistono di questi testi e quali tentativi, a tutt’oggi infruttuosi, io abbia fatto per rintracciarli, riferendomi soprattutto ai Parsis di Bombay. Questi tentativi mi hanno messo, tra gli altri, in relazione con un sapiente professore indiano del Presidency College a Calcutta, P. C. Ray, che mi ha inviato una memoria manoscritta sulle origini dell’alchimia indiana. È questa memoria che mi propongo di esaminare, riassumendone i risultati principali, ma senza condividerne tutte le opinioni. Questo studio storico e critico potrà d’altronde essere avvicinato a quello che ho compiuto sull’alchimia cinese nel presente giornale (ottobre 1896) in occasione della bella pubblicazione della signora De Mely sui Lapidari Cinesi: le origini dell’alchimia cinese e di quella indiana hanno probabilmente una certa connessione, analoga alla connessione che tra queste due culture esiste al riguardo delle origini dell’astronomia scientifica. Tutte queste scienze, sotto la loro forma razionale, sembrano ugualmente originarie dell’occidente e sembrano penetrate fino all’estremo oriente per vie e peripezie diverse, sotto le influenze successive della civilizzazione greca, persiana ed araba.
Per quanto riguarda l’India in particolare, il Kitab-al-fihrist contiene solo una vaga affermazione sull’invenzione dell’alchimia e l’indicazione di un preteso alchimista, Khatif, detto l’indiano o il sincero. I primi testi un poco più estesi in nostro possesso, a questo riguardo, sono contenuti in un capitolo dell’arabo Albiruni, astronomo, matematico e poligrafo celebre dell’XI secolo. La sua opera sull’India, conosciuta da molto tempo, è stata tradotta in inglese e pubblicata dal Dr. Sachau nel 1888. Le dottrine alchimistiche vi sono designate col nome di Rasayana (scienza del mercurio, relativa alla fabbricazione dell’oro ed all’elisir di lunga vita). Albiruni ne parla con poca stima ed aggiunge che gli indiani non vi prestano particolare attenzione, quantunque alcuna nazione sia completamente esente da questo genere di studi e di cultura. Egli vi consacra qualche pagina, ma senza fornirci chiarimenti positivi sulle dottrine proprie agli indiani. 
È in un’altro trattato che Albiruni ha esposto le teorie dei suoi tempi sull’origine e la formazione dei metalli, teorie che sono precisamente quelle degli arabi, secondo le quali i metalli risulterebbero dalla combinazione di zolfo e mercurio. Ho esposto in dettaglio la storia di queste teorie nel primo volume de La chimie au Moyen age; non è utile in questa sede ritornare sull’argomento, salvo che per insistere su ciò: Albiruni non segnala alcuna dottrina propriamente indiana più antica o comunque differente da quelle arabe. La memoria del signor Ray non  fornisce ulteriori notizie al riguardo. Tutto ciò che si constata da questo punto di vista, sono le concezioni alchemiche comuni relative alla trasmutazione dei metalli ed alla fabbricazione dell’elisir di lunga vita, destinato a restaurare le forze, a guarire tutte le malattie, a prolungare l’esistenza ed a ristabilire le capacità giovanili. Vi ritorneremo fra breve.
Le notizie biografiche relative agli alchimisti indiani non ci conducono che a  date relativamente moderne. In effetti, il nome più antico riportato da Albiruni è quello di Nâgârjuna, che avrebbe vissuto nel secolo precedente, vale a dire nel X secolo, data comunque dubbia come tutte le date che si ricollegano alla storia dell’alchimia, dove regnano incontrastati falsi ed attribuzioni pseudoepigrafe.  Comunque sia  Nâgârjuna è l’Hermes Trismegisto degli alchimisti indiani, e, come per Hermes, Geber e molti autori alchemici, a suo nome sono state tramandate molte opere più moderne. Il nome stesso di Nâgârjuna figura nella letteratura canonica buddista come quello dell’autore del sistema filosofico madhyamina, e lo si fa,in quel contesto, risalire ad un’epoca parecchio più antica, intorno al III secolo della nostra era, epoca nella quale non esiste alcuna traccia di alchimia indiana. La stessa cosa, del resto, avviene per l’Hermes egiziano (Thot) il cui nome e ruolo mitico hanno preceduto di secoli le sue attribuzioni alchemiche.
Nâgârjuna è citato con rispetto, secondo il Ray, nell’opera intitolata Rasenda chintamannis, vale a dire  I gioielli delle preparazioni mercuriali, scritto da Ram-Chandra verso il XII – XIII secolo. Egli è citato nell’opera come inventore dei processi di sublimazione, distillazione, calcinazione, e come autore di un trattato di magia, il Yogarat namala. Questo alchimista si ricollega alla tradizione dei Tantra, di cui si parlerà in seguito più diffusamente. Le sue opere sono state commentate da Gunakara, personaggio dai contorni abbastanza mitici, che dipinge sé stesso come un Budda e pretende di aver scritto nell’anno 1240, data che non deve essere accettata che sotto beneficio d’inventario, essendo gli alchimisti e maghi adusi ad retrodatare le loro opere, come attestano in occidente i casi dello pseudo-Lullo e dello pseudo-Geber.
La storia dei personaggi dell’alchimia indiana si confonde così sempre di più con quella di medici e maghi, fino a quando non arriviamo alle opere più sicuramente datate del XVI secolo, come il Bhavaprakasas, redatto intorno al 1550. Si vede bene, in ogni caso, che i personaggi dell’alchimia indiana risalgono a date relativamente moderne, ed assai posteriori non solo a quelli della tradizione greco-egizia, ma anche a quelli arabi.
Questo carattere di posterità, che ho già segnalato per i cinesi, almeno per ciò che concerne i documenti incontestabili della loro letteratura, è ancor più evidente per gli alchimisti indiani.
In effetti, si può stabilirlo in maniera ancor più netta attraverso l’esame tecnico dei fatti e delle teorie segnalate nelle loro opere. Ma prima di procedere ad un esame dei diversi trattati medici e chimici della tradizione indiana, è necessario completare il quadro caratteristico dell’origine dell’alchimia indiana, e ricordarne la relazione col  Tantrismo.
I Tantra rappresentano tutto un insieme di dottrine magiche e mistiche che ha giocato un ruolo importante nel buddismo indiano. Burnouf ha consacrato a questo soggetto una trentina di pagine del suo Introduction à l’histoire du Bouddisme indien (t. I, pgg. 522-554). Si tratta, secondo lui, di trattati dotati di una speciale fisionomia, in cui il culto di dei dal carattere bizzarro e terribile si lega  al sistema monoteista ed allo sviluppo del buddismo settentrionale. E’ una sorta di degenerescenza  mistica della pura dottrina buddista, infangata in qualche modo dalla mescolanza con pratiche superstiziose, occulte e magiche, derivate dalle antiche religioni indiane.
Il sistema dei Tantra si è incorporato allo Scivaismo nell’ultimo periodo del Buddismo indiano, ed è sopravvissuto in Bengala dopo il declino e l’espulsione di questa forma di culto. È per questo che alcuni libri medici sapienti contengono capitoli separati sull’alchimia, capitoli che cominciano con un’invocazione al dio Sciva ed alla sua sposa Parvati, a cui si attribuisce l’origine delle arti destinate alla cura delle malattie.
In ogni caso il Rasayana, ha ricevuto un forte impulso dal sistema tantrico, il quale è divenuto in India il punto di partenza di scienze reali o immaginarie come l’astronomia, l’alchimia, alla magia e le nuove dottrine mediche  fondate sull’impiego del mercurio, opposto all’antica conoscenza dei semplici e delle erbe.
Una simile alleanza tra scienze positive e scienze occulte ha caratterizzato, verso la medesima epoca, in Cina, il Taoismo. Tale fenomeno si era già prodotto, in precedenza, in Occidente nel quadro del misticismo gnostico, con le antiche pratiche di magia ed astrologia  e le più recenti pratiche alchemiche. Vi era una sorta di affinità spontanea tra questi diversi gruppi di conoscenze in parte reali, in parte chimeriche, come ho avuto modo  di sottolineare nel mio Origines de l’alchimie. È senz’altro curioso ritrovare una simile correlazione in Cina ed in India, ma la data posteriore dei documenti indiani e cinesi tende a far ammettere una provenienza occidentale delle dottrine alchemiche, che avrebbero poi assunto una fisionomia propria alle civiltà orientali, presso le quali si sono poi propagate alla stregua di insegnamenti misteriosi.
Le applicazioni mediche del Rasayana rivestono, da questo punto di vista, un’importanza tutta particolare. In effetti, è proprio dal punto di vista delle dottrine mediche che gli alchimisti hanno assunto autorità presso i popoli. I medici siriani ed arabi erano nel medesimo tempo alchimisti, come dimostra la loro storia autentica, quella di Avicenna, per limitarci ad un solo esempio.
È stata la stessa cosa per Arnaldo da Villanova e molti altri medici occidentali del medioevo. L’alleanza tra medicina e alchimia è stata cementata attraverso l’impiego di rimedi metallici e di altre preparazioni alchemiche. Così è pure per i medici indiani, a partire da XII – XIII secolo, che dividevano i medicamenti in due grandi classi: le droghe antiche, tratte dalle erbe e dette vediche, e le droghe più recenti, tratte dai metalli ed in special modo dal mercurio, che erano chiamate tantriche. «Colui che conosce le proprietà del mercurio è simile ad un dio; colui che non conosce che le ricette delle erbe e delle radici è pari ad un uomo…» è detto nel Rasendra chintamannis.
Il sogno della trasmutazione del mercurio dei filosofi e dell’elixir di lunga vita sono strettamente associati. Si tratta di tradizioni congiunte che Paracelso ha perpetrato in occidente, in modo indipendente, nel XVI secolo.
La relazione tra chimica e medicina non ha cessato di proseguire anche ai nostri tempi, in cui il progresso nel campo della chimica organica, ha fornito a tale relazione uno splendore straordinario. A questo riguardo, sembra incontestabile che gli indiani siano stati in rapporto con la civilizzazione araba, ed in particolar modo con i califfati. Si è verificato all’epoca dei califfati uno scambio continuo delle conoscenze mediche dei due paesi: i medici indiani andavano a studiare a Bagdad, mentre gli studenti arabi andavano in India per iniziarsi ai segreti della medicina e della farmacologia indigene. Ma, al riguardo delle conoscenze oggetto di questo scambio, non abbiamo che notizie vaghe. Se è vero che i più vecchi scritti medici indiani non contengono indicazione di prestiti dalla medicina araba, è pur vero che essi non contengono indicazioni alchemiche propriamente dette. Ciò nonostante si deve segnalare nelle opere indiane l’apparizione del nome di Ippocrate, che gioca un ruolo importantissimo negli scritti siriani (1). Il Giornale della Società orientale tedesca contiene a questo riguardo diverse memorie interessanti, segnalate al principio di quest’articolo.
Ma quali sono le conoscenze positive di carattere chimico attestate dagli scritti sanscriti che sono pervenuti fino a noi? È una questione tanto più importante in quanto permette di precisare un certo numero di dati cronologici relativi alla scienza indiana ed ai prestiti successivi che essa ha fatto alle scienze occidentali.   Ecco le notizie fornite a questo riguardo dalle indicazioni del prof. Ray.
Egli cita, tra gli altri, i seguenti trattati, relativi principalmente alle preparazioni mercuriali; ricordiamo che la parola sanscrita rasas significa, appunto, mercurio.
Rasendra sâra sangraha, di Gopal Krishna: “Raccolta delle principali preparazioni mercuriali”, opera probabilmente scritta nel XIII o XIV secolo.
Rasenda chintammanis, (XIV sec.), “Gioiello delle preparazioni mercuriali”.
Sarngadhara sanhita;
Chakra datta sangraha, trattato di patologia e di terapeutica scritto, si dice, verso il 1040;
Rasaratna samuchya, “tesoro delle preparazioni mercuriali”, con illustrazioni di apparecchi di distillazione, sublimazione e calcinazione;
Bhavaprakasas, scritto verso il 1550.
Tutte queste opere sono allo stato manoscritto. Il prof. Ray fa riferimento alla loro analisi, pubblicata, pubblicata nei cataloghi dell’India Office, di Oxford, del palazzo di Janjore etc., e ne riproduce degli estratti. Si noteranno le datazioni relativamente moderne di queste opere, di cui le più antiche sono dell’XI secolo, vale a dire assai posteriori non solo agli scritti greci e siriaci, ma anche ai vecchi maestri arabi. In questi estratti non figura alcuna dottrina alchemica propriamente detta, ma unicamente indicazioni tecniche, specialmente in riferimento alle preparazioni farmaceutiche e medicali; la chimica vi interviene solo a titolo di ausiliaria della medicina.
Ecco la traduzione letterale di qualche frammento del più antico di questi trattati, il Rasendra sara sanghraha:
«Il mio nome è Gopal Krishna. Ho composto questo trattato dopo aver consultato molti trattati di diversi autori che conoscevano i rimedi mercuriali.
I medici prescrivono altri rimedi per le malattie facili da trattare: ma le malattie reputate incurabili comportano il solo trattamento con medicamenti mercuriali; da ciò la superiorità del mercurio su tutti gli altri medicamenti…».
Si vede che si tratta di un’epoca in cui si attribuivano al mercurio proprietà meravigliose, fino ad associarlo all’elisir di lunga vita.  L’autore descrive in seguito la purificazione del mercurio, sia per lavaggio sia per sublimazione. Sono procedure pratiche, senza traccia di misticismo.
«…Per purificare il mercurio lo si lava con una poltiglia contenente aceto diluito , perché quest’ultimo dissolve il piombo e gli altri metalli che alterano frequentemente il mercurio.
Il mercurio deve essere mescolato con del succo di aloe indiana e della povere di curcuma, poi sottoposto a sublimazione.
Processo generale di sublimazione:
Prendete 3 parti di rame in polvere ed una parte di mercurio. Mescolate, imbevete di succo di limone, mettete la mistura in un vaso sferico, piazzate questo in un vaso di terra e piazzate al di sopra un altro vaso di terra, la cui concavità sia rivolta in alto. Lutate le giunture con argilla, e riempite il vaso superiore con dell’acqua. Mantenete caldo il vaso inferiore: si troverà il mercurio depositato sulla superficie del vaso superiore. I medici esperti danno la preferenza al mercurio purificato con questo procedimento.
Un altro metodo procede distillando per descensum e condensando il mercurio nell’acqua del vaso inferiore.
In un altro metodo, il collo inclinato del vaso, raccoglie il mercurio da purificare (mescolato con zolfo, succo di limone etc.), ed è inclinato e congiunto all’orifizio di un altro vaso contenente dell’acqua.
Mercurio estratto dal cinabro- – Si mescola il cinabro col succo di limone e lo si sottopone a sublimazione …».
Ritengo superfluo dare le ricette per preparare i solfuri nero e rosso di mercurio ed i cloruri di mercurio sublimato. Tutte queste descrizioni sono nette e precise. L’apparecchiatura indicata in primo luogo per il mercurio è evidentemente quella di Dioscoride, trasmessa senza dubbio attraverso l’intermediazione araba. In effetti i diversi miscugli impiegati in questa preparazione sono del tutto simili a quelli messi in essere dagli alchimisti arabi e latini. Erano ricette complicate, utilizzate nei laboratori del XIII secolo e trasmesse di sperimentatore in sperimentatore in Europa e fin nell’estrema Asia.
La stessa composizione generale dei Rasendra sara sangraha somiglia singolarmente, per struttura, a quella dei trattati arabi o dei trattati latini tradotti dall’arabo nel XIII secolo, di cui ho pubblicato le traduzioni francesi e le annotazioni critiche nel volume I e II della mia La chimie au moyen âge. In effetti, in queste opere, si vedono figurare dei paragrafi:
1° Sulle preparazioni mercuriali;
2° Sui sali di diversa origine: sali estratti dall’acqua di mare, salgemma etc.
3° Un paragrafo sulle urine di diversi animali: elefante, cammello, asino, cavallo, capra, pecora. Ricordo che le urine giocavano nelle preparazioni del XIII secolo il ruolo che è oggi del nostro alcali volatile, in ragione della formazione di questo nel corso della loro decomposizione;
4° Un altro paragrafo è relativo ai Dravakas, fondenti o dissolventi, riuniti in un unico gruppo che comprendeva le bacche rosse e nere dell’Abrus precatorius, il miele, la melassa, il burro chiaro ed il  “borace”. Quest’ultima espressione non indicava il borace comunemente inteso nella chimica attuale, ma si applicava, in realtà, ad ogni liquido alcalino, che fosse derivato dal natron o da liscivazione di ceneri vegetali;
5° Il Sarngadhara fornisce i  dettagli più circostanziati su queste liscivazioni, le quali ricoprono il ruolo, nella chimica antica, oggi rivestito dagli alcali fissi;
6° Allo stesso modo gli acidi erano allora rappresentati dall’aceto e da diversi succhi vegetali: succo di limone, di oxalis e di rumex, etc.. Insistiamo su di un fatto che reputiamo, dal punto di vista storico, fondamentale: alcun acido minerale propriamente detto figura in queste opere, così come in quelle del XVI secolo;
7°  Infine, vengono descritte diverse materie minerali: zolfo, talco, bitume, realgar, orpimento, piriti di ferro e di rame e solfati (vetrioli) impuri che risultano dalla loro decomposizione spontanea, solfuro d’antimonio, ocra rossa etc.. Insomma, non  abbiamo grandi novità e progressi rispetto alla materia medica di Dioscoride, fedelmente riprodotta dagli arabi; ciò nonostante questi ultimi vi hanno aggiunto,  nello stesso tempo o dopo gli alchimisti greci, diversi composti mercuriali e specialmente i cloruri sublimati (calomel e sublimato corrosivo): i pratici indiani ne riproducono fedelmente le ricette.
Il capitolo II dei Rasendra sara sangraha è, a questo riguardo, caratteristico: è consacrato alla descrizione dei processi necessari a portare i diversi metalli in una forma solubile adatta alla loro somministrazione come rimedi interni per le infermità umane. I sette metalli vi sono studiati successivamente: oro, argento, rame, piombo, stagno, ferro e bronzo, (considerato qui come metallo vero e proprio, senza dubbio per una memoria dell’antico electrum (2)) seguiti dalle preparazioni che derivano dai metalli stessi, tanto per arrostimento, ossidazione, sulfurazione, tanto per via umida. Ciò ricorda la composizione dei trattati arabo-latini, e, segnatamente, il libro VI dell’opera di Avicenna, ed i libri III e IV di Bubacar (pseudo-Razi (3)), etc..
I capitoli seguenti dell’opera indiana sono consacrati al trattamento delle malattie con l’associazione di preparazioni metalliche con droghe vegetali.
Riassumendo, gli insegnamenti positivi contenuti nei testi al riguardo delle effettive conoscenze chimiche degli indiani, non ci riportano più lontano del XI o XII secolo, e la loro stessa tradizione non si spinge al di là del X secolo. Queste conoscenze, comunque, non vanno oltre quelle degli arabi e dei latini dello stesso periodo e rientrano nel medesimo quadro di saperi ed applicazioni mediche. Aggiungiamo che i procedimenti e le apparecchiature sono gli stessi, senza sostanziali aggiunte.  Per completare questo studio, sarebbe utile conoscere i procedimenti tecnici degli orefici e dei ceramisti, sui quali gli scritti presi in considerazione non sembrano offrire alcuna notizia.
In effetti l’India era già sede di una civiltà avanzata al tempo del suo contatto coni greci; vi esisteva sicuramente una lunga tradizione di pratiche relative alla fabbricazione di armi ed utensili metallici, così come di monili, con l’impiego di metalli brillanti e pietre preziose, e di differenti arti ceramiche. Ma alcuna traccia scritta di queste manifatture figura tra le opere portate a mia conoscenza. Totalmente assenti sono anche le tracce di una scienza teorica.
Ma ritorniamo ai trattati alchemici medievali che stiamo esaminando.
Per quanto riguarda gli apparecchi, i disegni che mi ha trasmesso il professor Ray, riproducono l’aludel degli arabi, tal quale presentai io stesso nella mia Introduction à l’étude de la Chimie des Anciens (pag. 172), e diverse  figure di apparecchi di distillazione diretta o per descensum, pre bagno di sabbia etc.. Si tratta di figure di cui gli analoghi sono reperibili nella Bibliotheca Chemica del Manget. Le raffigurazioni rassomigliano soprattutto alle figure dei manoscritti siriaci riprodotti nel secondo vol. (Alchimie siriaque) del mio La chimie au moyen âge;  più precisametne, si tratta di un alambicco, descritto a pag. 108 della mia opera, un vaso da digestione e sublimazione (pag. 109), un apparecchio per la digestione con astuccio o custodia (pag. 118) etc.. Questi apparecchi siriani sono d’altronde i più antichi tra quelli arabi. 
È solo nelle opere indiane del XVII e XVIII secolo che si incontrano, secondo il prof. Ray, preparazioni più moderne, come quelle degli acidi cloridrico, solforico, nitrico, o del salnitro e dell’acqua regia. Per maggior precisione, ricordiamo che i medici di “Tamil” preparavano l’acido solforico (gundakka attar, spirito di zolfo) bruciando lo zolfo con del nitro in vasi di terracotta. Essi ottenevano l’acido cloridrico facendo reagire l’allume sul sale marino, l’acido nitrico per mezzo di allume e salnitro, l’acqua regia facendo distillare in una storta di vetro un miscuglio di salnitro, sale ammoniacale, allume e vetriolo verde. Il nostro salnitro stesso non è stato descritto in India che ad un’epoca relativamente moderna: non vi sono nomi sanscriti per questa sostanza. Ciò nonostante vi erano depositi salini naturali nel suolo del Bengala, che divennero fonte di un’estrazione e di una esportazione considerevoli. È probabile che la fabbricazione propriamente detta del salnitro non sia stata introdotta in India che dopo l’adozione della polvere da sparo per uso bellico, verso il XV o XVI secolo. 
Osserviamo che i processi che abbiamo appena segnalato, come la fabbricazione  degli acidi, sono precisamente i procedimenti impiegati dai chimici europei del XVI e XVII secolo, processi che saranno poi trasformati nel corso del XVIII secolo e più profondamente ancora ai giorni nostri. Tali processi non hanno potuto pervenire all’India che ai tempi dell’impero Mogol e delle conquiste dei navigatori europei, portoghesi, olandesi ed inglesi.
Riassumendo, la scienza chimica degli indiani sembra trarre la sua origine da una doppia importazione: l’una fatta dal XI al XIII secolo, che mostra una analogia profonda con la scienza araba dell’epoca, ed è stata introdotta senza dubbio attraverso gli scambi culturali che ebbero luogo ai tempi dei califfi di Bagdad; l’altra compiuta tra il XVI secolo e i giorni nostri, che consiste nell’acquisizione della scienza europea moderna. Quanto abbiamo segnalato nel presente lavoro concorre a stabilire che, attraverso questa doppia importazione, la chimica indiana trova la sua origine, diretta o indiretta, nella scienza occidentale.
Tali sono le conclusioni che mi paiono suscettibili di essere tratte dall’interessante comunicazione del professor Ray. Questa opinione non è conforme, in verità, alla sua; egli crede all’originalità dell’alchimia indiana, ma più per un sentimento di gloria nazionale che per prove positive. Comunque sia, il suo studio ci ha fornito l’occasione di stabilire nuovi punti di riferimento di grande importanza nelle ricerche relative all’origine delle scienze ed alla loro propagazione nella storia dell’umanità.

NOTE:

(1) La chimie au moyen age, tomo II : Alchimie syriaque, pag. 314 e seguenti.

(2) La chimie au moyen âge, t. I pag 305.

(3) Ibidem, pag. 308-309