Pagina on-line dal 27/04/2012

Il testo che presentiamo di seguito è un saggio breve di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali per la storia della scienza, come La chymie au Moyen AgeLes Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l’Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.

Le considerazioni sulle traduzioni latine degli autori arabi sono, all’interno della vasta produzione berthelotiana, ancora oggi in buon parte attuali. In modo particolare, quanto l’autore dice a proposito delle opere del cosiddetto Geber Latino, ha trovato una conferma nell’identificazione, da parte dello studioso americano William R. Newman, dello pseudo-Geber col francescano Paolo di Taranto, fiorito verso la fine del XIII secolo (cfr. W. R. Newman, The Summa Perfectionis of pseudo Geber. A critical edition, translation and study, Brill, Leiden 1991).

Alle note di Berthelot sono intercalate, per garantire una migliore comprensione del testo, alcune note del traduttore chiaramente identificabili dallìindicazione tra parentesi quadra [N.D.T.].

Buona lettura.

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Massimo Marra © – Tutti i diritti riservati, riproduzione e diffusione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine


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Marcelin Berthelot
Sulle traduzioni latine delle opere alchemiche attribuite agli arabi

Traduzione di Massimo Marra © – Tutti i diritti riservati, riproduzione e diffusione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

La trasmissione della scienza antica al medioevo latino, quella della chimica in particolare, si è realizzata attraverso due vie principali: la tradizione delle arti e mestieri, e la cultura araba. Ho avuto occasione di mettere la prima in evidenza, sotto il doppio aspetto pratico e teorico, nei miei studi sulle Compositiones, la Mappae Clavicula, ed altre opere analoghe anteriori alla tradizione araba, che fanno seguito a quelle degli alchimisti greci [1]. Mi propongo ora di esaminare le traduzioni latine, autentiche o pretese tali, delle opere arabe consacrate all’alchimia e di ricercarne la relativa data e l’autenticità. L’autorità di queste traduzioni, in genere provenienti dalla Spagna, in passato è stata considerevole: ed è ad esse che si riferiscono i più antichi alchimisti latini.

Ciò nonostante nessuno dei testi originali corrispondenti in arabo è stato identificato a tutt’oggi: essi sono andati persi, senza dubbio, all’epoca della distruzione delle biblioteche dei musulmani di Spagna, e le poche opere alchemiche arabe che esistono nelle biblioteche di Parigi, di Leida e di altre località, non corrispondono, per quanto possiamo saperne da coloro che le hanno esaminate fino ad oggi, ad alcuno dei trattati tradotti in latino. Darò più oltre più precisi dettagli a questo riguardo.

Conviene dunque ricorrere all’esame diretto di queste traduzioni.

Parliamo in primo luogo dei nomi degli autori ai quali le opere sono attribuite, come Hermès, Ostane, Platone, Aristotele, Morieno, Geber, Rases, Bubacar, Alpharabi, Avicenna etc.; si tratta di nomi conosciuti, gli uni attraverso le storie letterarie dell’antichità, gli altri attraverso compilatori e cronisti arabi. Ma ciò non è certo sufficiente ad attribuire a tali autori, come troppo spesso si è fatto, i trattati che riportano all’inizio i loro nomi.

La storia letteraria, e quella degli autori alchemici in particolare, contiene troppe attribuzioni pseudoepigrafiche, inconsapevoli o fraudolente, perché ci si possa permettere di accettare ciecamente queste attribuzioni. Non solamente alcune, quali quelle di Hermes ed Ostane, erano mitiche già nell’antichità, ma, a prima vista, si intuisce che i nomi di Platone ed Aristotele non sono stati scelti come intestatari di opere alchemiche arabe, che per porne in risalto l’autorevolezza, oppure perché queste opere facevano seguito o commentavano opere autentiche come i Metereologica. Simili annotazioni sono estensibili agli stessi autori arabi, a Geber in particolare, che non sembra essere autore di nessuno dei trattati latini a lui attribuiti, trattati la cui stessa origine araba sembra controversa, come ho già avuto modo di accennare [2] e come più oltre preciserò con ulteriori dettagli.

Dopo aver creduto, come quasi tutti, alla loro autenticità, mi sono sorti dei dubbi, il cui chiarimento costituisce una delle motivazioni del presente studio, e sono stato spinto a piazzare le opere latine di Geber nella lista, in alchimia tanto lunga, delle opere pseudonime, riportando al XIII secolo la data autentica della loro composizione.

Esponiamo il metodo seguito nel corso di questa ricerca.

Il primo dato certo sul quale possiamo basarci, è la data dei manoscritti che contengono le traduzioni latine, reali o supposte, degli alchimisti arabi. Le più antiche non sembrano risalire al di là del 1300: questo è almeno il caso di quelli della Biblioteca Nazionale di Parigi che io ho avuto occasione di esaminare[3], ed i cataloghi delle altre grandi biblioteche europee, non ne segnalano, credo, di più antichi. Si trovano, del resto, nei manoscritti latini della Biblioteca Nazionale, dei trattati che riportano i nomi della maggior parte degli autori segnalati sopra, ed il contenuto di questi trattati, a parte qualche variante, è – l’ho verificato – generalmente lo stesso di quello dei trattati che figurano nelle grandi collezioni alchemiche stampate tra il XVI ed il XVIII secolo ed intitolate: Theatrum ChemicumBibliotheca ChemicaArtis chemicae principesArtis Auriferae etc.. Si ha dunque un primo termine fisso in questa storia intricata.

Le traduzioni stesse, allorquando rispondono realmente a dei testi arabi risalgono ad un’epoca anteriore ai nostri manoscritti attuali. In effetti, quantunque siano tutte anonime, esse appartengono alla medesima famiglia di quelle degli altri scritti arabi di medicina, filosofia, matematica, le quali sono state eseguite, come si sa, tra il XII ed il XIII secolo: si può comunque rilevare la data precisa di una delle traduzioni alchemiche, fatta da Roberto Castrensis nel 1182[4]. La maggior parte di queste traduzioni sono state fatte in Spagna, su testi arabi o su testi ebrei, una parte dei quali era stata in precedenza tradotta dell’arabo.

Un altro limite per la datazione di questi scritti (o, piuttosto, di queste traduzioni) può essere stabilito dalle citazioni fatte da autori autentici, come Alberto Magno, morto nel 1280, e Vincenzo di Beauvais, la cui enciclopedia (Speculum majus), se non tutta almeno la parte relativa alle scienza naturali (Speculum Naturale ) è stata scritta verso il 1250, durante il regno di San Luigi: esaminerò tra poco da questo punto di vista le numerose citazioni d’autore e le dottrine alchemiche che si trovano nella prima parte dello Speculum naturale, le quali sono poi state testualmente riprodotte in un’altra parte dell’opera, lo Speculum Doctrinale.

Lo studio intrinseco dei testi latini che sono presentati come tradotti dall’arabo e la loro comparazione forniscono nuovi dati. Essi possono essere tratti, in effetti, dai nomi e dai testi conosciuti da altra fonte, degli autori citati, così come dai fatti segnalati dallo scrittore e dalle teorie che egli sviluppa: tutte indicazioni il cui confronto permette di stabilire sovente la filiazione e la relativa datazione delle opere.

Ho già mostrato, nella presente rivista [5], qualche applicazione di questo metodo, attraverso il quale si risale, segnatamente, all’antichità delle opere intitolate Turba philosophorum e Rosinus [6], opere – come ho dimostrato – piene di frasi e di intere pagine che sono tradotte letteralmente (attraverso l’intermediazione degli arabi) dagli alchimisti greci.

Ma la maggior parte degli scritti latini che sono reputati tradotti dall’arabo, non citano così precisamente dei testi precedenti; le reminiscenza vi sono attribuite agli “antichi filosofi”; inoltre esse sono di volta in volta sempre più vaghe, ossia lontane dall’archetipo. D’altra parte, in questi scritti, i procedimenti di esposizione divengono più sistematici, la composizione è meglio ordinata e più conforme a quei metodi messi in auge dalla scolastica verso il XII e XIII secolo.

Ciò denuncia evidentemente un’epoca più moderna, sia per gli autori di questi trattati, sovente pseudoepigrafi, sia per i traduttori latini, i quali hanno d’altro canto rimaneggiato più o meno profondamente le opere originarie.

Per spingere a fondo questo genere di comparazione, sarebbe necessario possedere le opere stesse degli autori arabi nella loro lingua originale, il che ci è oggi impossibile, o perlomeno non possediamo segnalazioni di alcuna opera in arabo che sia stata poi tradotta in latino. Possiamo però comparare le opere latine con opere orientali congeneri.

Proseguendo la mia investigazione in tal senso sono riuscito ad ottenere la traduzione di un manoscritto di alchimia siriano, conservato al British Museum, traduzione che il signor Rubens Duval ha cortesemente voluto eseguire su mia richiesta e che io do alle stampe in questo momento alla Stamperia Nazionale, insieme alla traduzione di due piccole opere arabe che riportano un’attribuzione a Geber, entrambe tratte dai manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi e tradotte ugualmente per me dal signor Houdas.

È con questo insieme di dati che ho potuto avvicinare i difficili problemi sollevati dalle traduzioni latine di alchimisti arabe fatte nel medioevo. Senza la pretesa di poterli risolvere integralmente, proverò a fissare una serie di punti precisi, destinati a servire da ancoraggio certo.

Esamineremo dal principio gli articoli alchimistici contenuti nelle opere di Vincenzo di Beauvais e di Albero Magno, e parleremo poi dei trattati attribuiti ad Avicenna, a Razi, a Bubacar ed in ultimo luogo a Geber.


II – L’ALCHIMIA IN VINCENZO DI BEAUVAIS

Vincenzo di Beauvais, nella sua enciclopedia dal titolo Speculm Majus ha consacrato allo studio dei metalli e materie minerali un certo numero di capitoli della parte titolata Speculum naturale, in particolare, è destinato pressoché interamente a questo studio. L’alchimia, considerata come scienza, vi si trova esposta in una serie di capitoli; ciascuno fa parte della storia di un metallo o di uno specifico prodotto chimico, o meglio ancora espone una determinata operazione, talvolta reale, come la calcinazione, talvolta chimerica, come la tintura dei metalli e la trasmutazione.

Dal punto di vista storico, che è quello che ci preme di più, conviene in primo luogo dare la lista degli autori alchemici citati da Vincenzo di Beauvais. Diversi sono anonimi, come l’Alchimista, cui si attribuisce il trattato La dottrina dell’Alchimia; l’autore chiamato Philosophus, probabilmente sinonimo dello pseudo-Aristotele; l’autore del Libro della natura delle cose, quello del Libro dei settanta (capitoli).

Altri scrittori sono designati invece da un nome, come l’Aristotele delle Meteore (Metereologica), Razi con il suo Dei Sali e degli Allumi, Averroé ed il suo libro Dei Vapori, Avicenna ed il suo trattato De Anima.

L’Alchimista, o La Dottrina dell’alchimia, sembra essere il titolo di un’opera generale, ben conosciuta ai tempi di Vincenzo di Beauvais se non a lui contemporanea, ma che è perduta, o almeno i cui manoscritti fino ad oggi non sono stati segnalati. La teoria fondamentale che vi è esposta è la seguente (Sp. Nat. I, VIII, cap. XL): « Nelle viscere della terra, in ragione della loro virtù mineralizzante, sono generati gli spiriti [7] ed i corpi (metallici). Vi sono quattro spiriti: il mercurio, lo zolfo, l’arsenico (solforato) ed il sale ammoniaco; e sei corpi; l’oro, l’argento, il rame, lo stagno, il piombo ed il ferro. I due primi corpi sono puri, gli altri impuri. il mercurio puro e bianco, fissato dalla virtù dello zolfo bianco, non corrosivo, genera nelle miniere una materia che la fusione cambia in argento. Unito a zolfo puro, chiaro, rosso, non corrosivo, esso produce l’oro….»

Segue la generazione degli altri metalli che l’autore considera come prodotti da un mercurio più o meno puro, ed aggiunge: «queste operazioni che la natura compie sui minerali, gli alchimisti si sforzano di riprodurre: è la materia della loro scienza [8]».

Una dottrina analoga, con alcune varianti, si ritrova nei diversi autori citati da Vincenzo di Beauvais. Essa deriva da quella degli alchimisti greci; ma la generazione dei metalli dal mercurio e dallo zolfo non era stata esposta da questi ultimi sotto una forma generale e metodica, e si ha motivo di dubitare che tale specifica formulazione teorica possa risalire al di là del XII secolo. Essa divenne allora classica ed universale, e fece da base alle esperienze di coloro che pretendevano di possedere l’arte di fabbricare artificialmente i metalli.

Ma pressoché subito la realtà di tale operazione, come di quella della trasmutazione metallica, solleva dei dubbi, sconosciuti agli alchimisti greci e siriani, ed il cui sviluppo appare legato ad una data storica determinata, poiché essi sono ripetuti e discussi dalla maggior parte degli autori del XIII secolo. Citiamo a questo riguardo il seguente passaggio di Vincenzo di Beauvois (Speculum Naturale, I, VIII, cap. LXXXVI): «…Sembra che attraverso la dissoluzione nell’acqua[9], poi la distillazione[10], infine attraverso la solidificazione[11], si riducano i corpi alla loro materia prima. Ciò nonostante non si riesce a portare i metalli artificiali all’identità con i metalli naturali ed a comunicargli la stessa resistenza all’analisi (examinatio) con il fuoco. Non si riesce, con l’argento mutato in oro con la proiezione dell’elisir rosso, a renderlo inalterabile agli agenti che bruciano l’argento e non l’oro, come i cementi e lo zolfo, impiegati per saggiare l’oro. Ugualmente, l’elixir proiettato sul rame per imbiancarlo, non lo difende dagli agenti che attaccano il rame e non l’argento, come il piombo…» etc.

Un poco più oltre, l’autore dello Speculum Naturale aggiunge:

«…Da ciò che precede, pare che l’alchimia, fino a un certo punto, sia falsa…». Tuttavia egli non osa pronunciarsi definitivamente, dicendo ancora : «…Ciò nonostante la sua verità è provata dagli antichi filosofi e dagli operatori dei nostri tempi…».

Questi dubbi si ritrovano nei migliori spiriti del XIII secolo, come Alberto Magno e Ruggiero Bacone.

Citiamo ancora la frase seguente (cap. XC) che ricorda la dottrina di Stahl sui metalli, considerati come una combinazione di calci metalliche con un principio combustibile: «…Il fuoco, quando calcina i metalli senza fonderli, ne brucia la parte più debole, vale a dire la sulfureità (parte solforosa o combustibile) e lascia intatta la parte più forte….».

La Dottrina dell’Alchimia e tutti gli autori citati da Vincenzo di Beauvais insistono su di un medesimo cerchio di dottrine e di fatti; pressappoco come fanno nei tempi moderni gli scrittori scientifici di un determinato periodo. Pertanto è facile, come sarà ribadito più oltre, tracciare la mappa di queste tracce, e, di conseguenza, riconoscere se un’opera di alchimia è posteriore al XIII secolo. Lo si può affermare, ad esempio, per quanto riguarda tutte le opere dove gli acidi azotico, cloridrico, solforico, acqua regia etc. sono chiaramente definiti e distinti: è un criterio complesso, ma assai solido.

Per quel che se ne sa, il libro La dottrina dell’Alchimia è scomparso; senza dubbio perché la sostanza ne è passata nei trattati e manuali che gli hanno succeduto nei laboratori, come il trattato attribuito ad Alberto Magno e le opere congeneri del XIV secolo.

Il trattato De Naturis Rerum, citato da Vincenzo di Beauvais, porta un titolo sovente riprodotto nel medioevo, a partire da Isidoro di Siviglia; ma l’opera originale che cita Vincenzo di Beauvais sembra perduta: essa conteneva dottrine alchemiche. Vi era detto, per esempio (Speculum Naturale libro VII, cap. LXXIX) che «il vetro racchiude del mercurio, perché riceve la tintura».

Il Libro dei Settanta merita una attenzione speciale. Esiste allo stato d’estratto nel ms. 6514 della Biblioteca Nazionale, e, sotto una forma più sviluppata, benché mutila, nel ms. 7156. Ne ho già parlato nella presente rivista[12]. Il Geber arabo aveva composto sotto il medesimo titolo un’opera che il Libro dei Settanta cita a più riprese nelle versioni di cui, tra breve, fornirò degli estratti; ma l’opuscolo che noi possediamo sembra essere differente da quello dell’autore arabo. Diamo soltanto, dal Libro dei settanta (libro VIII, cap. XCIVI una frase del testo latino che esprime una dottrina alchemica assai diffusa nel XIII secolo: «…Ogni cosa dotata di una qualità apparente possiede una qualità occulta opposta e reciproca. Ora, il fuoco rende apparente ciò che è nascosto, e all’inverso…».

Si leggono parallelamente nel ms. 7156, al capitolo XXXII del Libro dei Settanta (fol. 76 v°.), le parole ut ponas occultam manifestum, seguite da tutta una teoria della costituzione dei metalli fondata su queste idee e sulla loro composizione radicale (radix) per mezzo del freddo e del caldo, del secco e dell’umido.

Uguale dottrina è espressa in un passaggio del Philosophus (Speculum Naturale lib. VIII, cap. LIV).


Dopo aver esposto come il ferro si mescola all’oro e non ne può più esserne separato per fusione, il che è esatto, il testo afferma: «..Nelle sue qualità apparenti (Manifestum) il ferro è caldo, secco, duro; nella sua costituzione segreta (occultum), esso possiede qualità opposte, ad esempio la mollezza. Così ciò che è, quanto all’apparenza, mercurio, è ferro nella sua intimità, etc.. Dunque, modificando le qualità del mercurio nelle loro proporzioni relative, si può ottenere sia del ferro, sia dell’argento, sia dell’oro ». In un altro passaggio (cap. LXXXV) di Vincenzo di Beauvais, si legge: «Ciò che è esteriormente del rame è interiormente oro, come anima del metallo».

Lo pseudo-Aristotele, vale a dire l’autore che ha scritto il trattato De perfecto Magisterio sviluppa le stesse idee. Esse risalgono d’altronde, per quanto attiene ai principi generali, agli alchimisti greci. «Trasforma la loro natura, poiché la natura è nascosta all’interno» è un assioma attribuito a Democrito da Sinesio[13]. Ecco dunque come la gente del Medioevo non ha fatto che riassumere e sistematizzare le idee dei filosofi e dei sapienti dell’antichità. Tutto ciò merita molta attenzione, se si vuole comprendere questa vecchia filosofia chimica, che non potrebbe essere indifferente agli storici, poiché essa ha costantemente interagito con la filosofia in generale. In effetti le teorie filosofiche e magiche fondate sull’esistenza simultanea nelle cose di qualità apparenti e di qualità occulte opposte le une alle altre, hanno giocato un grande ruolo nel medioevo, e se ne trovano del resto anche ai nostri giorni.

Ricordiamo ancora che queste idee alchemiche si richiamano alle dottrine autentiche di Aristotele, esposte nei suoi Metereologica, dottrine per le quali «…vi sono quattro elementi: due attivi; il caldo ed il freddo: e due passivi; il secco e l’umido …». (IV, 1). – « …Il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra, nascono gli uni dagli altri, e ciascuno degli elementi esiste in ciascuno degli altri in potenza » (I, 3). – «…Vi sono due esalazioni: l’esalazione secca che fa i minerali e le pietre, come la sandracca, l’ocra , la rubrica [14], le ceneri tinte, il cinabro etc.; e l’esalazione vaporosa, che genera i metalli duttili e fondibili, come il ferro, il rame e l’oro» [15](III, 7) – «L’oro, l’argento, il rame, lo stagno, il piombo, il vetro e molte pietre senza nome appartengono alla classe dell’acqua, poiché si liquefanno al calore…» (IV, 10).

Leggendo questi passi, si comprende come gli alchimisti hanno creduto di seguire le tradizioni di Aristotele e come un commentario puramente alchemico del 4° libro dei Metereologica, scritto nel medioevo, sia stato riguardato come facente parte dell’opera autentica del maestro. Questo preteso seguito del 4° libro dei Metereologica è citato, in effetti, in diversi punti, alla stessa stregua dei passaggi autentici di Aristotele, da Vincenzo di Beauvais e da diversi autori alchemici.

Ciò nonostante l’attribuzione del seguito dei Metereologica ad Aristotele è messa in dubbio dallo stesso Vincenzo di Beauvais (cap. LXXXV): «… Qualcuno dice che l’ultimo capitolo dei Metereologica, dove si tratta della trasmutazione dei metalli, non è di Aristotele, ma piuttosto aggiunto da qualche altro autore». Alberto Magno l’attribuisce formalmente ad Avicenna, altri ai suoi discepoli, il che è assai verosimile, in ragione delle opinioni sulla costituzione dei metalli come formati da zolfo e da mercurio, opinione sviluppata estesamente da Avicenna.

Sottolineerò ancora, tra i testi riportati da Vincenzo di Beauvais (cap. XVII, e LXXXIV), la dottrina seguente, congenere a quella di San Tommaso d’Aquino, di Alberto Magno e degli altri autori latini del XIII secolo, che erano di potente spirito filosofico: «Ex libro Metheororum: che gli operatori in alchimia sappiano questo: le specie naturali non possono essere permutate, ma si può farne delle imitazioni, ad esempio tingere un metallo bianco in giallo, in modo da donargli l’apparenza dell’oro, purificare del piombo in tal modo che appaia come argento, ma ciò nonostante esso rimarrà sempre piombo. Tuttavia gli si daranno qualità tali che inganneranno gli uomini. Eppure, io non credo che esistano artifizi capaci di far sparire la differenza specifica, ma solo che si possa privare un corpo delle sue qualità o accidenti… Non si può cambiare una sostanza in un altra, a meno di non riportarla alla sua materia prima…».[16]

Segnaliamo ancora due nomi di filosofi antichi, citati nelle pagine dedicate all’alchimia da Vincenzo di Beauvais: Zenone, da un preteso De Naturalibus; Vincenzo di Beauvais gli attribuisce l’opinione che esiste una virtù occulta universale che crea le pietre per mezzo del fuoco (Speculum Naturale IX, cap. IV). Più oltre il nome Parmenide[17], al quale egli attribuisce un oscuro enunciato sul piombo e sullo stagno, enunciato che sembra rapportarsi, nei fatti, ad un passo della Turba Philosophorum (Sententia o Sermo XII), frase ripetuta con considerevoli varianti in entrambe le distinte versioni di quest’opera pubblicate dalla Bibliotheca Chemica Curiosa del Manget. In Vincenzo di Beauvais essa sembra significare che il piombo è oro in potenza.

Veniamo ora agli autori arabi citati da Vincenzo di Beauvais. I soli che io ho rilevato sono: Averroé, Razi, Avicenna e Geber, quest’ultimo incidentalmente e di seconda mano.

Averroé è considerato nello Speculum Naturale come autore di un libro De Vaporibus, libro inedito, credo, supponendo che ne esistano manoscritti. I passaggi riprodotti hanno un carattere pratico, mentre le teorie sono oscure e confuse. Inutile soffermarvisi.

Il nome di Geber appare due volte: la prima in una lista di nomi di alchimisti tratta dalla traduzione latina di Avicenna e sulla quale ritorneremo (Speculum Naturale VIII, cap. LXXXVII); la seconda in un’altra lista estratta dal libro di Razi Dei sali e degli allumi (cap. LXXV), come ho verificato espressamente [18] nel manoscritto 6514. Vincenzo di Beauvais non riproduce dunque alcun testo tratto direttamente da opere di Geber.

Alcuna citazione particolare delle opere latine che noi conosciamo oggi sotto il nome di Geber è data da Vincenzo di Beauvais, in luogo, viceversa, degli estratti assai estesi che egli ci fornisce da Razi, da Avicenna e da altri arabi. Alberto Magno, d’altra parte, non sembra citarle di più.

Queste pretese opere di Geber non avevano alcuna autorità alla metà del XIII secolo; può anche essere che esse non esistessero ancora. Ritorneremo su tale questione.

Vincenzo di Beauvais riproduce, al contrario un gran numero di passaggi di un’opera latina attribuita a Razi, sotto il titolo di De salibus et aluminibus, Ma, cosa singolare, queste citazioni, fatta eccezione di una sola, non si ritrovano poi nell’opera dal medesimo titolo contenuta nel ms. 6514 della Biblioteca Nazionale, né in alcuna di quelle che io ho visionato. Le dottrine stesse di questo ultimo scritto, così come quelle dello scritto citato da Vincenzo di Beauvais, sono sicuramente ben più moderne dell’epoca della vita dell’autentico Razi arabo; più oltre esaminerò questo problema.

L’autore alchemico più lungamente e più frequentemente citato nel libro VIII dello Speculum Naturale è Avicenna. Egli è citato da un trattato alchemico intitolato De Anima. Ora, qui, siamo su di un terreno più solido. In effetti, questa volta le citazioni si ritrovano, per la maggior parte, in un trattato latino manoscritto che porta il medesimo titolo e che è attribuito ad Avicenna nel ms. 6514 della Biblioteca Nazionale, scritto verso l’anno 1300. Questo trattato figura anche tra quelli stampati nell’opera Artis Chemicae principes (Basilea 1572), e questo testo a stampa è assai conforme (salvo varianti) al manoscritto, così come ho verificato dettagliatamente. Aggiungerò che Avicenna è vissuto nel XI secolo, in un’epoca che non è assai lontana da quella delle traduzioni latine e dei manoscritti tanto da ricusare l’autenticità di queste traduzioni. Consacrerò presto all’argomento uno studio specifico.

Ma conviene anzitutto ricordare brevemente la composizione del libro VIII dello Speculum Naturale di Vincenzo di Beauvais, al fine di precisare lo stato delle effettive conoscenze chimiche dei suoi tempi e di fornire gli esatti termini di paragone che noi utilizzeremo fra breve.

Il libro VIII dello Speculum Naturale parla in primo luogo delle materie minerali, divise in quattro generi, ossia: corpi fusibili o metalli, pietre, materie solforose, sali. Le pietre preziose ed i minerali propriamente detti non vi sono descritti, essendo riservati al libro IX.

La storia di ciascun metallo è presentata separatamente, e seguendo un percorso sistematico. Il compilatore riassume, per prima cosa, i testi antichi di Plinio, Isidoro di Siviglia ed altri; segue poi per ogni corpo un capitolo alchemico: De operatione auri in alchimiaDe operatione argenti, cupri, stani, plumbi, ferri etc., capitoli dove l’autore riproduce dei testi tratti da L’Alchimista, dai Metereologica di Aristotele e dal loro presunto seguito, da Razi, da Avicenna etc., conformemente a quanto si è detto in precedenza.

Ai capitoli LX e seguenti comincia lo studio dei quattro spiriti minerali e del trattamento (operatio) di ciascuno di essi in alchimia.

Fatto ciò, l’autore tratta, dal cap. LXXIII, degli altri minerali intermedi tra i corpi e gli spiriti, ed in primo luogo degli allumi, dei vetrioli (atramenta) etc..

In seguito, egli discute la generazione dei minerali, dapprima nella natura, esponendo un miscuglio di osservazioni reali e chimeriche tratte in larga parte dagli scritti di Avicenna, poi in via artificiale, vale a dire per mezzo della pietra filosofale o elixir-tintura, sotto la sua doppia forma: bianco per l’argento, giallo (o rosso) per l’oro. Inizia poi una dissertazione sulla realtà dell’alchimia, anch’essa improntata al medesimo autore arabo. L’indicazione dei nomi dei principali alchimisti (LXXXVII) è presa analogamente dalla traduzione latina dell’opera attribuita ad Avicenna.

Seguono i capitoli di ordine pratico sui procedimenti (claves) e sulla strumentazione, sulla varietà dei fuochi impiegati durante la preparazione, sulla calcinazione ed altre operazioni, sulla saldatura dei metalli, sulla preparazione del vermiglio, del cinabro, dell’oricalco (laiton). Il libro VIII termina con la descrizione della materie coloranti, tanto naturali che sintetiche: sinopis [19], rubrica, siricum [20], cerussa, minio, crisocolla [21], blu e porpora etc., (fino al cap. CVI) tratti da Plinio ed dagli altri autori antichi [22]. Insomma, in rapporto a questi ultimi, il libro VIII non contiene che due ordini di conoscenze originali: quelle che concernono i vetrioli e i sali e la trasmutazione metallica. Per il resto rientriamo in quel genere di conoscenze tecniche la cui tradizione era stata trasmessa per mezzo delle pratiche delle arti e mestieri, e che venne a confondersi nel XIII secolo con le conoscenze scientifiche reimportate in occidente dagli arabi. Ho già insistito su questa doppia corrente, e ne ho mostrato l’associazione nei manoscritti latini del XIII secolo [23]: la ritroviamo in Vincenzo di Beauvais.

Per quanto ne sappiamo, si vede da questi dettagli e questa analisi che l’alchimia, mescolata alla chimica, era guardata al XIII secolo come materia di conoscenze positive, legate tra loro da una certa dottrina scientifica, e trattata seriamente tanto dagli sperimentatori quanto dai filosofi. Se la vanità della trasmutazione appariva già agli spiriti più sagaci, ciò nonostante questa operazione era ancora ammessa da molti come possibile a priori: non sapremmo, tutt’oggi, dimostrarne l’impossibilità. Si aggiunga che essa è stata realizzabile nei fatti, con l’aiuto di certe pratiche illusorie, di cui si comprendeva male la portata e l’autentico significato.

Riassumendo, noi possediamo nell’opera di Vincenzo di Beauvais una base solida per la comparazione e la critica delle opere latine che sono state date nel XIII e XIV secolo come tradotte da alchimisti arabi.


III – L’alchimia in Alberto Magno.

Un criterio analogo può essere tratto dagli scritti di Albero Magno, altro enciclopedista e filosofo del XIII secolo: io non parlo qui dell’Alchimia che porta il nome di questo autore, opera seria e metodica, ma che appartiene ad un’epoca di poco posteriore e che è dovuto o ad un omonimo o ad uno scrittore che ha voluto intestare la propria opera all’autorità del nome di Alberto Magno[24]. Parlo piuttosto del De Mineralibus, a tutt’oggi considerato come facente parte dell’opera autentica di Alberto Magno: esso figura già sotto il suo nome nel ms. 6514 della Biblioteca Nazionale, scritto verso l’anno 1300, vale a dire pressoché contemporaneo. Questo trattato discute lungamente le opinioni e le teorie alchemiche.

Gli autori alchemici citati sono: o antichi, come Hermes, Aristotele, Democrito, Empedocle, Callistene; o recenti, come Gilgil di Siviglia ed Avicenna.

Non c’è bisogno di insistere né su Hermes, la creatura mitica dell’alchimia, né su Aristotele, se non per ricordare che Alberto Magno lo distingue formalmente dal suo continuatore Avicenna. Il nome di Democrito sembra un ricordo degli alchimisti greci, ma la tradizione diretta di questi ultimi era perduta, e le opinioni che sono attribuite a Democrito non hanno nulla in comune con quelle dell’autore del “Fisica e Mistica”, non più che con quelle del vero filosofo greco. Ad esempio, l’idea della generazione e della vita delle pietre nella natura, conduceva gli uomini del medioevo a supporre in loro un principio di vita, vale a dire un’anima, e tale è l’opinione attribuita a Democrito da Alberto Magno (De Mineralibus, I, 3) . L’opinione per la quale la calce e la liscivia sarebbero le materie prime dei metalli (De Mineralibus, III, 4) nemmeno è contenuta nell’opuscolo dell’alchimista greco.

Quanto ad Empedocle ed a Callistene [25], essi appaiono citati come il Parmenide ed il Zenone di Vincenzo di Beauvais, tratti da qualche apocrifo che noi non conosciamo e che non è entrato nella tradizione collettiva. Gligil di Siviglia[26], di cui Alberto Magno discute in dettaglio le idee, sembra un personaggio reale; egli è nominato anche dallo pseudo-Razi, almeno nella sua traduzione latina. [27]

Il nome di Geber compare una sola volta in Alberto Magno (II, 3) a proposito della storia delle pietre preziose con un epiteto che merita attenzione “di Siviglia”. Si tratta dunque di un omonimo spagnolo? In ogni caso Alberto magno non ha conosciuto il nostro pseudo-Geber latino né le sue opere.

Al contrario Avicenna è citato a più riprese, e si tratta proprio dell’autore del trattato di cui possediamo la tradizione latina, ed al quale Vincenzo di Beauvais si riferisce tanto spesso. Quantunque le indicazioni di Alberto Magno siano meno precise, non si potrebbero negare le concordanze con quelle dell’opera alchemica di Avicenna.[28]

Non svilupperò ulteriormente l’analisi del trattato De Mineralibus che termina con una storia dei metalli, sali, minerali, vetrioli, tuzie, marcassiti ed altri composti, storia analoga, quanto all’ordine ed ai contenuti, a quella di -_Vincenzo di Beauvais. Ricorderò solamente che Alberto Magno espone anche la dottrina dell’occultum e del manifestum, applicata all’oro ed al piombo, così come la dottrina dei metalli più o meno perfetti, in cui l’oro è la sola specie metallica perfetta.

Citiamo solo il passaggio in cui egli contesta la realtà dell’alchimia: «…Essa non può cambiare le specie, ma solo imitarle: ad esempio, tingere un metallo di giallo, per dargli l’apparenza dell’oro, o di bianco, per farlo rassomigliare all’argento etc… . ho fatto provare l’oro alchemico; dopo sei o sette fuochi, esso si è bruciato e ridotto ad feces» (III, 9). Esaminiamo ora più da vicino le opere che sono conosciute come traduzioni latine degli alchimisti arabi.


IV – L’ALCHIMIA DI AVICENNA


Comincerò da Avicenna, l’autore per il quale le concordanze sono più complete tra lo Speculum Naturale, i manoscritti ed i testi stampati.

Avicenna è vissuto, stando agli storici, tra il 980 ed 1036. Le sue opere mediche sono celebri e sono state tradotte rapidamente in latino. Anche diversi trattati alchemici in latino sono attribuiti a suo nome.

Quantunque i testi arabi corrispondenti non siano stati fino a d oggi segnalati, non si vede, dallo studio di queste traduzioni latine, alcuna ragione valida per contestare né l’esistenza di testi arabi né l’attribuzione di questi trattati ad Avicenna.

Parlerò soprattutto dell’opera intitolata Liber Abuali Abicine de Anima in arte Alchimia. È quello che cita Vincenzo di Beauvais in un gran numero di Articoli. Ne esiste una copia nel ms. 6514 di Parigi, (da fol. 144 a 171), ed è stato stampato da un altro manoscritto a Basilea, nel 1572 (Artis Chemicae principes, da pag. 1 a 471). Ho verificato che vi è una concordanza generale tra il testo stampato ed il manoscritto, salvo varianti. Il manoscritto è incompiuto, e diversi fogli restano bianchi alla fine; termina con le parole invenies latonem, che si trovano a pag. 448 della versione a stampa. Manca dunque solo qualche pagina.

Le citazioni di Vincenzo di Beauvais si ricollegano soprattutto ai metalli; esse sono estese e numerose, e si ritrovano fedelmente, per la maggior parte, nei testi suddetti. Il che prova che il trattato De Anima esisteva già, nella versione latina, alla metà del XIII secolo.

Alcuni articoli sono riassunti nello Speculum, mentre altri, al contrario, ed in piccolo numero per la verità, si leggono nello Speculum e mancano nel testo del trattato di Avicenna così come ci è pervenuto. Questo ultimo sembra, del resto, tronco o abbreviato nelle ultime parti della versione che possediamo. Aggiungerò che le citazioni alchemiche di Avicenna non si incontrano spesso nei manoscritti al di là del XIII secolo. I trattati di Arnaldo da Villanova e dello pseudo-Raimondo Lullo non hanno tardato, infatti, a sostituire la loro autorità a quella degli Arabi; l’autorità della Turba è invece sopravvissuta per lungo tempo durante il corso del XIV secolo. Sono, queste, circostanze essenziali da annotare per la critica dei testi alchemici.

Il Theatrum Chemicum (t. IV, pgg. da 875 a 882) e la Bibliotheca Chemica non danno che estratti abbastanza brevi tratti dal trattato di Avicenna.

Si legge anche in queste collezioni, sotto il nome di Avicenna, una lettera al re Hasen, de re recta (Theatrum Chemicum, t. IV, pag 863) che comprende testi congeneri, ma la cui redazione sembra essere stata manomessa e rimaneggiata. Vi si trova soprattutto (pag. 883) un opuscolo sulla formazione delle pietre e delle montagne, il quale racchiude delle vedute rimarchevoli sulla doppia produzione di queste per sollevamento o per azione dell’acqua, così come sull’origine dei fossili. Vi si racconta di una pietra caduta dal cielo di cui un re volle farsi fabbricare delle spade. Questo racconto figura uguale di un’opera araba autentica, che si attribuisce ad Avicenna e che è intitolata La guarigione. L’autore vi parla di un aerolite caduto nel Giordano, da cui il sultano Mahmoud Ghizni vole farsi fabbricare una spada, attribuendogli senza dubbio virtù meravigliose. È quasi il solo esempio certo che io conosca di un testo arabo attualmente esistente e che figura nelle traduzioni alchemiche latine del medioevo. La concordanza pertanto merita di essere annotata.

Esaminiamo più da vicino la versione latina del trattato di Avicenna che possediamo. È facile vedere che essa ha dovuto essere fatta in Spagna, poiché contiene un certo numero di parole spagnole, e, segnatamente, la parola plata per argento, la quale si trova ripetuta a più riprese. L’opera è divisa in dieci libri, chiamati ciascuno Dictio, con prologo, tavola dei capitoli ed introduzione. È un’esposizione che si suppone fatta da Avicenna per suo figlio, vale a dire il suo discepolo Abusalem, talvolta in forma dogmatica, talvolta presentata come una discussione. Il dialogo è interrotto da momenti umoristici, in cui il discepolo rifiuta di credere al suo maestro e di obbedirgli. Citiamo degli esempi:


Dictio I cap. V: «Padre mio, io non comprendo queste inutili sottigliezze».

Dictio V cap. V: «- Prendi dell’acqua fredda, mescolala con dell’acqua calda e bevi, e conoscerai il magistero.

– Io non berrò

– Allora io non ti dirò il magistero.

– Poco importa, lo conosco. Prenderò del sangue umano [29], lo preparerò e lo proietterò sul rame.

– Bevi di questa acqua e ti mostrerò come si preparano i capelli, il sangue e le uova [30]…etc.»


Dictio VI cap. XVI: «Padre mio, io non comprendo.

– Abuali risponde: Non posso agire altrimenti….io nascondo la ricetta della pietra filosofale, come hanno fatto i filosofi… etc.».


Dictio I cap. XII: « Sto per dirti una grande menzogna e tu non crederai. Prendi del mercurio….etc. ».

Dictio VI, cap. XVII: «Dimmi dove hai acquisito questa scienza e visto con i tuoi occhi queste cose.

– Io le ho apprese leggendo molto e dormendo poco, mangiando poco e bevendo di meno. Ciò che i miei compagni spendevano in luce, la notte, per bere vino, io l’ho speso per vegliare e leggere, bruciando dell’olio».


Ciascun capitolo forma come una piccola lezione su di un determinato soggetto. Un gran numero cominciano con queste parole caratteristiche: «In nome di Dio!, o anche: «Nel nome di Dio clemente (pii) e misericordioso[31]», la quale è una ben conosciuta formula musulmana. Analogamente troviamo: «Lode a Dio! Non ve n’è d’altri al mondo…Egli solo è potente nella sua grandezza….» (prologo). Sono certificati d’origine utili da rilevare.

Percorreremo rapidamente l’opera di Avicenna, al fine di cercare dei termini di comparazione storica, sia per le dottrine, sia per le persone.

Al prologo, vi si legge: «Questo libro è chiamato Dell’Anima, perché l’anima è superiore al corpo; essa non può essere percepita che dallo spirito e non dagli occhi, perché l’occhio non vede che l’accidentale, mentre lo spirito percepisce le qualità proprie (Proprietatem). L’anima fa parte del cerchio di gloria, e il suo cerchio è superiore agli altri, quello del corpo e quello degli spiriti[32]».

La prima frase è filosofica, ma la seconda sconfina nell’astronomia ideale, quella che ha presieduto alla costruzione dei cerchi di Dante.

Negli altri capitoli appaiono anche considerazioni astrologiche (Dictio VI, cap. XV), aritmetiche, geometriche (cap.II, XIX etc.), stranamente associate all’alchimia.

Nell’introduzione l’autore espone la dottrina aristotelica, con gli sviluppi che la caratterizzano nel medioevo. «Vi sono quattro elementi: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra; e quattro modi o qualità: il caldo, il freddo, il secco, l’umido. Gli elementi sono costituiti dalla materia prima (Yle, dal greco υλη). Tutto ciò che esiste nel mondo è formato dagli elementi. Ciascuno di essi si trasforma negli altri e può essere così cambiato dall’azione dell’uomo, che porta all’atto (factum) la natura occulta.». Sono poi esposti dei sottili sviluppi relativi al linguaggio simbolico dei filosofi (alchimisti), soggetto sul quale l’autore ritorna ad ogni piè sospinto e con lungaggini fastidiose, che degenerano spesso in sproloqui indecifrabili.

L’opera è divisa metodicamente in dieci libri o Dizioni, ordinati in apparenza secondo le leggi della logica, in modo da rispondere a questa domanda: l’alchimia esiste? Qual’è? Come? Perché? Poi vengono i nomi dei metalli e materie impiegati in alchimia, così come la descrizione delle operazioni chimiche. Queste due ultime parti corrispondono ad una scienza positiva; sono ricche di fatti, accumulati talvolta senza molto ordine; racchiudono, d’ìaltra parte, la maggior parte delle citazioni di Vincenzo di Beauvais. L’autore termina esponendo le regole della presunta trasmutazione, la fabbricazione dell’elisir, del fermento, del magistero etc., capitoli il cui oggetto chimerico contrasta con i dettagli realistici presenti nelle pagine precedenti.

Nel primo libro, l’autore precisa il suo metodo, dicendo che egli sta insegnando anzitutto per la ragione filosofica, poi per la visone effettiva delle cose. Egli afferma che vi sono sei cose malleabili al forno, e quattro spiriti creati sulla terra: il mercurio, chiamato a volte argento vivo, a volte oro vivo, l’orpimento, lo zolfo ed il sale ammoniacale. Gli spiriti sono generati dai quattro elementi e dalle loro quattro qualità, associate in proporzioni ineguali. Lo zolfo ed il mercurio, secondo la loro proporzione relativa, la loro purità e colore, generano i sei metalli: questa teoria è stata qui già ricordata [33]. Vincenzo di Beauvais (Speculum Naturale VIII, IV) la ha riprodotta testualmente da Avicenna. Quest’ultimo autore la attribuisce agli uomini naturali, vale a dire ai filosofi della natura, come si direbbe oggi.

Parlando del mercurio, egli afferma che questo corpo scaldato in vaso chiuso «perde la sua umidità (vale a dire il suo stato liquido), si cambia in natura di fuoco, e diviene vermiglio». Questa è forse la più antica menzione precisa dell’ossido di mercurio detto, precipitato da sé, che ha dato luogo a tante discussioni fino ai tempi di Lavoisier.

Più oltre l’autore spiega perché ogni metallo è formato da mercurio e da zolfo: è perché il metallo può essere reso fluido dal calore, in modo da prendere l’apparenza di mercurio ed affinché possa produrre dell’azenzar, che possiede il colore dello zolfo. Con quest’ultima parola, l’azenzar, l’autore intende di volta in volta il cinabro e l’ossido di mercurio, il minio, il protossido di rame, il perossido di ferro, così come il solfuro d’antimonio, e, in una parola, tutti i solforati ed ossidi metallici di colore rosso: essi erano del resto già confusi dagli autori antichi e dagli alchimisti greci, con delle denominazioni comuni. Si vede qui questa confusione invocata come origine e prova di una teoria. La parola azenzar stessa ha dato luogo ad una confusione di una tutt’altra natura. Essa è anche scritta aceiçar, e sovente anche açur e azur in tal modo che qualche volta la si è presa, in seguito alla confusione nata dall’assonanza delle parole, per una preparazione di cinabro rosso atta alla preparazione del nostro azzurro blu. Hoefer, segnatamente (Histoire de la Chimie, 2° ediz. t. I, pag. 387) è stato vittima di questa confusione citando una ricetta alchemica attribuita ad Alberto Magno.

Per quanto riguarda gli altri capitoli, mi limiterò a ciò che riguarda la storia dell’alchimia. Pertanto, troviamo in seguito la Discussione contro Geber Abinhaen, maestro dei maestri nella conoscenza del magistero. «Ecco le sue testuali parole. Egli dice: pietra che non è pietra, pietra leggera, quella che non piace al volgo. La pietra si trova ovunque, e ciò nonostante i re non la possiedono. La si trova nelle sabbie. Colui che l’ottiene e la divide nei suoi quattro elementi, e che opera come è detto, possiede un buon elisir». E più oltre: «la si trova nel letame….». Poi si arriva ad un simbolismo strano: la pietra filosofale viene opposta o comparata ad un albero, ad un’erba, ad un animale. Avicenna aggiunge che Geber ha detto tutto ciò per sconcertare lo spirito dei sapienti. «Egli ha detto ancora che il suo elisir, dato ad una donna incinta, cambierà in maschio un feto di sesso femminile….Ed ha detto: se qualcuno interrerà il suo elisir ai quattro angoli di una città, non vi entrerà neque rata, neque raton, ne altra cosa sudicia«. «I suoi libri – aggiunge Avicenna – sono pieni di parole di questo genere, che non devono essere presi in senso letterale, ma in modo simbolico: egli parla così per ciarlataneria, essendo il suo lavoro d’altronde, identico a quello degli altri».

Ho riprodotto tutto questo passaggio perché le asserzioni attribuite a Geber da Avicenna non si trovano nello Pseudo-Geber latino e non hanno niente in comune, neanche lontanamente, con le opere che gli sono oggi attribuite. Si vede da ciò che il nostro Avicenna, come Vincenzo di Beauvais o Alberto Magno, non ha conosciuto le pretese opere latine di Geber divenute così celebri un mezzo secolo dopo Vincenzo di Beauvais ed Alberto Magno. Ma ritorniamo all’alchimia di Avicenna.

Il capitolo IV del libro I è consacrato a discutere un autore designato sotto il nome di Jahie Abindinon, ed il capitolo V ad Abimazer Alpharabi, suo maestro, di cui parla con gran rispetto: «Egli ha rischiarato molti ciechi, rivelato molte oscurità, aperto molte cose sigillate. Come potremmo dirne male? È il nostro maestro nella scienza naturale…Leggete i suoi libri, noi non ne conosciamo di migliori». Per questo autore [34] vi sono dei filosofi che dicono che la pietra è vegetale (herbalis); per altri è invece naturale (noi diremmo oggi minerale); per altri ancora vivente o animale. La pietra vegetale, egli dice ancora (secondo Avicenna), si chiama anche capelli; la pietra naturale uova; la pietra animale sangue umano: denominazioni strane sulle quali ritorneremo, in ragione del ruolo che hanno giocato nella letteratura alchemica.

Il capitolo VI è consacrato a Morienus, autore di cui possediamo alcuni scritti. Nel capitolo VII è esaminata la dottrina di Abubechar Mahomet Arazi, vale a dire Razi, autore che sembra essere lo stesso di quel certo Bubacar di cui possediamo un trattato tradotto in latino in alcuni manoscritti, ma mai stampato. Questi fu, dice Avicenna, «un uomo saggio, filosofo sottile; ha prodotto numerose opere in filosofia ed in alchimia. Ha detto la verità senza oscurità né ciarlataneria,… etc.».

Questi passaggi mostrano quali erano gli autori classici, se così ci si può esprimere, dell’Avicenna alchimista. Egli cita ancora Platone, Pitagora, Galeno, Aristotele, cui attribuisce (Dictio I, cap. II) un trattato De Lapidibus dove si trovavano le seguenti parole: «Due pietre si trovano nel letame: l’una fetida, l’altra profumata. Il loro valore non è conosciuto, ed è per questo che vengono disprezzate. Colui che le riunirà otterrà il magistero. Ma Aristotele ha esposto tutto ciò oscuramente…perché nessuno può comprenderlo…». Evidentemente si tratta di un trattato alchemico oggi perduto.

Nella Dictio VI, cap. XVI, sono esposti una serie di nomi deformati di autori arabi o antichi, come Haum, Cuzahir, Lubeit, Faraffar, Xeheir etc., seguiti ciascuno dall’esposizione degli assiomi dell’autore, il che ricorda la Turba: nessuno dei nomi qui esposti si trova altrove.

Ma c’è un’altra lista che figura sia nel trattato di Avicenna nel manoscritto 6514 (fol. 149 r°, 1), che nel testo stampato dell’Artis Chemicae princeps (p. 66), la quale esige un’attenzione tutta particolare. La merita tanto più dal momento che è stata riprodotta in forma abbreviata anche da Vincenzo di Beauvais (Speculum Naturale, VIII, cap. LXXXVII). Vincenzo di Beauvais non ne aveva indicata l’origine, così a lui si era abitualmente attribuita. Ma essa è più antica, come sottolineeremo tra poco. Questa lista, d’altro canto, nel presunto testo latino tradotto da Avicenna, costituisce un’interpolazione evidente; non solo perché contiene dei nomi cristiani, ed anche nomi di cardinali e vescovi, ma soprattutto perché rompe il tono generale dell’esposizione, essendo piazzata abbastanza singolarmente tra la discussione delle opinioni di Morieno e quella dedicata a Abubechar.

Ciò nonostante questa interpolazione deve essere esaminata più da vicino, poiché essa sembra fornire un’indicazione della data, se non dell’opera araba, almeno della traduzione latina che stiamo studiando.

In effetti, la lista ci cui si tratta mostra un carattere composito che attesta una serie di addizioni ed interpolazioni, di cui alcune risalgono probabilmente ai testi arabi, altre sono state fatte dai traduttori latini, ebrei o cristiani. Questi ultimi vi hanno inserito, seguendo un uso comune preso gli alchimisti, dei personaggi famosi ai loro tempi, come cardinali, papi e vescovi, per ammantare lo scritto della loro autorità. I nomi di questi personaggi ci permettono di fissare, con una certa approssimazione, la data di traduzione verso la fine del XII secolo.

Entriamo nel dettaglio, riferendoci di preferenza al manoscritto più antico, il 6514, e proviamo a mostrare come la lista può essere stata composta.

Una prima lista parziale comincia con nomi trattati dall’Antico Testamento e dall’antichità, sotto la cui autorità solevano ripararsi gli antichi alchimisti : Adamo, Noè, Idriz, Mosé etc.: poi vengono dei nomi arabi, come il re Galud[35] di Babilonia, Bubachar…., Isaac Giudeo, i demoni, poi qualche nome deformato.

Su di una seconda lista parziale, distinta dalle parole: «Avanti questi i pagani», abbiamo i nomi seguenti, per la maggior parte deformati: Ostane (?), Zoroastro (?), Ippocrate (?), Platone (?), Catone (?), Virgilio (?), Aristotele (?), Alessandro (?), Teofrasto (?).

C’è poi una terza lista di nomi arabi, tutti citati nel corso dello stesso trattato di Avicenna: «Geber Abenhaen, Alpharabi, Jahie Abendinon, Razi, Maurienus, il grande Geber (ripetuto) e molti altri che non ho potuto dirti».

Queste tre liste sono probabilmente esistite nel manoscritto arabo, diversamente disposte, ed esse sono state riprodotte più o meno correttamente dal traduttore. Ma la lista parziale, la seconda presa in esame, (salvo il primo nome) non potrebbe essere attribuita ad Avicenna né ad alcun altro musulmano; vi è incontestabilmente un’addizione del traduttore cristiano. Comincia così: «Tra i cristiani, Giovanni Evangelista, priore di Alessandria…». Questo nome è rimarchevole, anzitutto perché si accorda con la tradizione della prosa di Adamo di San Vittore[36] cantata nelle chiese proprio i quest’epoca e che faceva di S. Giovanni un alchimista. Ma l’indicazione che segue, «priore di Alessandria», mostra, nello stesso tempo, l’origine probabile di questa tradizione; si tratta, senza dubbio, di una confusione fatta tra l’evangelista ed un antico alchimista greco, «Giovanni il gran sacerdote, nella divina Evagia».[37]

Il manoscritto prosegue col con questi nomi: «Garcia il cardinale, Gilberto il Cardinale» (Vincenzo di Beauvais riproduce questi due nomi) e poi «il papa (nome illeggibile, Silvestro?); Pietro il monaco, Durante il monaco, Virgilio,….Domenico, Egidio, il Maestro Ospitaliero di Gerusalemme, che ha tradotto il Il Libro delle CXXV pietre; il vescovo Antroicus, dominus de ponderibus: è questo vescovo che mi ha insegnato la pietra filosofale in Africa…». Segue l’esposizione delle ricette e dei precetti del vescovo (vero o preteso) e del papa (dominus apostolicus). Poi vengono queste parole: «Anche Giacobbe il Giudeo, uomo di spirito penetrante, mi ha insegnato molte cose, ed io ti riferisco ciò che mi ha insegnato: se vuoi essere un filosofo della natura, a qualunque legge (religione) tu appartenga, ascolta l’uomo istruito, qualunque sia la sua religione, perché la legge del filosofo dice: non uccidere, non rubare, non fornicare, fai agli altri ciò che faresti a te stesso, non profferire blasfemie».

Questo passaggio, che si trova uguale nel testo stampato e nel manoscritto, è assai curioso per il suo accento di sincerità. Esso rivela l’individualità del traduttore, così come la tolleranza e la comunanza di sentimenti che si stabiliscono tra gli adepti della scienza alchemica, indipendentemente dalla confessione religiosa, comunanza eccezionale nel XII e XIII secolo.

Le parole «la legge dei filosofi» indicano anche qualche cosa di più, vale a dire l’affermazione di una morale puramente filosofica: il che doveva essere visto, in quest’epoca, come cosa eretica ed empia.

Tra i personaggi cristiani citati nel passaggio precedente, si trovano tre nomi che danno luogo ad accostamenti storici. Anzitutto Egidio: è esistito nel XII secolo un personaggio con questo nome, detto di Corbeil, allievo della scuola di Salerno, che fu medico di Filippo Augusto e che ha lasciato un poema sulle virtù dei medicamenti composti, soggetto congenere a quello dell’alchimia.

Il nome dei cardinali Gilberto e Carcia ci riportano ugualmente a personaggi storici: il primo si ritrova, in effetti, nella lista dei cardinali, ed anche il secondo, come vedremo di seguito, se ammettiamo che si possa rimpiazzare con Graziano il nome spagnolo Garcia, che non appartiene a nessun cardinale del tempo. Osserviamo innanzitutto che la menzione di un Maestro degli Ospedalieri ci riporta almeno al XII secolo, poiché quest’ordine non è esistito che a partire dalla prima crociata. Ora, in questo periodo, sotto Innocenzo II, è vissuto un Gilberto, promosso cardinale nel 1142, morto nel 1154, così come un Graziano, cardinale; un altro Graziano fu promosso cardinale del 1178, sotto Alessandro III. Non ritroviamo alcun cardinale con questi nomi nel XIII secolo. È dunque al XII secolo che sembra datare il nostro testo latino; il traduttore, come si è detto, ha cercato di appoggiarsi all’autorità di contemporanei noti.

Nel capitolo VIII (Dictio I, pag. 76) si trova un’altra digressione non meno interessante. Si tratta della nomenclatura degli adepti: «Sto per dirti una cosa segreta: l’occhio dell’uomo, l’occhio del toro, della vacca, della gallina, del cervo, significano il mercurio; l’escremento umano e gli altri significano… (lacuna); la lingua dell’uomo e degli altri animali significa… (lacuna); la cera nera, bianca, rossa… e queste cere sono i capelli, le uova, il sangue; l’aquila ed il grifone sono le nostre pietre, vale a dire l’orpimento, il fuoco [38] ed il sale. Serve, per comprendere ciò, molta sagacia. Quanto alle piante…le lattughe, gli spinaci, il coriandolo…sono delle pietre».

Tutto questo linguaggio simbolico ricorda palesemente la vecchia nomenclatura profetica degli egizi, riportata nel Papiro di Leida ed in Dioscoride [39], nomenclatura alla quale si ricollega il lessico alchemico greco [40], il simbolismo dell’uovo filosofico, e più in generale quello dell’uovo, dei capelli e del sangue, di cui si serviva – secondo Avicenna – il Geber arabo così come altri antichi alchimisti.

Quantunque Avicenna abbia cura di tradurre costantemente questo simbolismo, ciò nonostante non si può dubitare, a partire dalla documentazione storica, che più volte è prevalsa l’interpretazione letterale, con il reale impiego, nelle operazioni alchemiche e magiche, del sangue umano e di tutto il resto. Da questo punto di vista, un tal linguaggio era più pericoloso di quello che consisteva nel raffigurare i metalli come uomini d’oro, argento o piombo (Zosimo), o designarli attraverso nomi d’animali, come leone per l’oro e scorpione per il ferro[41], oppure quello di leone verde, che figura già alla fine di un trattato di Morieno, nel manoscritto 6514, scritto intorno al 1300.

Questi emblemi hanno reso, da sempre, singolarmente difficile l’intelligenza degli scritti alchemici.

Il libro V dell’opera di Avicenna forma un autentico trattato di chimica, dove si trovano in extenso e con qualche variante, le citazioni fatte da Vincenzo di Beauvais. Le informazioni e le ricette, sovente più d’una per ogni operazione, in questo libro abbondano. L’autore, segnatamente, vi tratta del rame, delle sue varietà della sua fusione – che è descritta in dettaglio – del piombo, dello stagno, del lattone (de latone), del ferro etc.. Vi si ritrova il nome dell’asem egizio, sotto la grafia ascem, e chiamato anche metallum, lega di formulazione varia che fungeva da prodotto intermedio della trasmutazione.[42] Quanto all’oro, dopo aver affermato che il migliore è quello fatto con la pietra filosofale, l’autore aggiunge: «Alcuni fanno oro ed argento falsi. Essi rafforzano ed induriscono lo stagno, lo sbiancano e lo chiamano argento. Ancora, essi prendono dell’orpimento sublimato, lo fanno digerire nel letame, vi mescolano del sale ammoniacale e l’incorporano con il rame, trattandolo (in forno) per descensum, con addizione di mercurio rosso (ossido), e dicono che il prodotto ottenuto è oro. Ma vi sono sette metodi per riconoscere l’oro: la fusione, la pietra di paragone, la densità, il gusto, l’azione del fuoco etc….». Tutto questo passaggio è riprodotto fedelmente in Vincenzo di Beauvais (libro VIII, cap. XIII). Segue il capitolo sull’argento, la descrizione delle marcassiti o solfuri metallici, quella dei sali, dei sali di sodio (natrum), dei vetrioli, allumi, fondenti (chiamati borax) etc..

Alla fine del libro I si trova un’addizione o interpolazione relativa ai metalli, su cui conviene spendere due parole. Si tratta di un procedimento per fabbricare degli stampi a cera perduta, al fine di foggiarvi i vasi o coniarvi le monete (morabentinos, moneta spagnola) d’oro e d’argento. L’autore aggiunge che si opera così con l’argento artificiale, fatto di mercurio e rame, e preparato a mezzo della polvere di proiezione (elixir); vale a dire che l’arte della falsa moneta è associata, in questo testo, a quella della fabbricazione dell’oro vero. Segue il procedimento per coniare le monete al martello, con lamine d’oro ritagliate compresse negli stampi di ferro, sui quali sia scritto, nel mezzo, il nome di Dio, di sotto quello del re, intorno la data. Questa descrizione sembra realmente tradotta da un testo arabo, posto che le monete sono descritte come incise con nomi anziché con figure: si sa che l’Islam interdiceva queste ultime.

Il libro VI di Avicenna si occupa dei trattamenti generali che si possono applicare ai metalli: lavaggi, calcinazioni, indurimenti, rammollimenti, sublimazioni, dissoluzioni o fusioni, con una trattazione separata per ciascun metallo. I vasi necessari per queste operazioni sono descritti in un apposito capitolo.

I libri seguenti, puramente alchemici, non meritano attenzione particolare. Rilevo solo qualche riga relativa all’amalgamazione del rame, dove si nota una reminiscenza degli alchimisti greci: «metti pace tra i nemici, vale a dire tra Venere e Mercurio [43]: reminiscenza ugualmente riprodotta nella Turba, ma con maggiori sviluppi. Citiamo anche queste parole (fol. 171, R° I): «Non occuparti dei libri di Geber, se non di quello che ha per titolo Lumen Luminum». Ritroveremo lo stesso titolo d’opera in Razi.


V – L’ALCHIMIA DI RAZI.


Razi, medico illustre vissuto al X secolo (800-940) è conosciuto come autore di diversi trattati alchemici tradotti in latino, trattati che sembrano in realtà scritti in un’epoca più moderna e contemporanea degli scritti di Avicenna. Forse Razi aveva realmente composto un’opera chimica e medica, che potrebbe essere servita come nucleo originale ai trattati arrivati in nostro possesso, che presentano, vedremo, redazioni diverse.

Vincenzo di Beauvais cita frequentemente un’opera attribuita a Razi, recante il titolo di De salibus et Aluminibus, ed esiste in effetti un trattato di questo titolo in diversi manoscritti, e, segnatamente, nel 6514 della Biblioteca Nazionale di Parigi (fol. 125 – 129). Esso è preceduto da due altre opere, entrambe intitolate Liber Razi qui dicitur Lumen Luminum (fol. 113 – 120).

Ma, circostanza singolare, le citazioni di Vincenzo di Beauvais, ad eccezione di una sola che ho sopra ricordato, non si ritrovano testualmente in alcuno di questi trattati, benché la dottrina generale ed i dettagli tecnici siano pressappoco i medesimi. Al contrario, i trattati contenuti nel manoscritto, sono identici all’opera intitolata De perfecto Magistero, attribuita ad Aristotele nel Teatrum chemicum.

Lo stesso titolo, Lumen Luminum, è stato assegnato all’opera di diversi autori, come per Geber, in Avicenna (vedi più sopra) e, in seguito, in Arnaldo da Villanova ed altri alchimisti latini. I titoli dei libri si trasmettevano così da un autore all’altro, il che ha dato luogo a molte confusioni.

Entriamo in qualche dettaglio sui trattati attribuiti a Razi.

Un primo trattato intitolato Lumen Luminum, occupa i fogli da 113 a 120 del ms. 6514; è pieno di discussioni accademiche e non dà luogo ad alcuna particolare comparazione, salvo la citazione del libro delle XII acque (fol. 119 r°, I), termina con queste singolari parole: Explicit liber autoris invidiosi.

Il trattato che segue nel medesimo manoscritto [44] sotto il titolo di Lumen Luminum et perfecti magisteri, attribuito a Razi (fol. 120 v°) è, come vedremo, identico al trattato De perfecto magisterio attribuito ad Aristotele (Theatrum Chemicum, t. III, pgg. 76-127).

Riassumiamone le dottrine, che gettano grande luce sull’alchimia del medioevo.

«Questa arte – dice l’autore – parla della filosofia occulta: per riuscirvi bisogna conoscere le nature interne e nascoste[45]. Vi si parla dell’elevazione e della precipitazione degli elementi e dei loro composti: è un gran segreto». L’ultima espressione ricorre continuamente come un ritornello. L’arte chimica è, secondo l’autore, un’astronomia inferiore, essendo i metalli ed i corpi fissi assimilati agli astri. Le pietre chiamate stelle [46] (cioè i corpi fissi) sono: oro, argento, piombo, stagno, ferro, rame, vetro, carbonchio, e smeraldo, etc.; il nome di pianeti (corpi erranti) è riservato ai sette corpi volatili: il mercurio, lo zolfo, l’arsenico (solforato) il sale ammoniacale, la magnesia, la tuzia, la marcassite. Si noterà che il vetro e le pietre preziose sono qui inclusi nella lista dei metalli, secondo la vecchia tradizione egiziana [47] ed assira [48], tradizione conservata d’altronde nella lista planetaria degli alchimisti greci [49]. Osserviamo ancora che l’autore arabo, volendo distinguere i metalli ed i corpi fissi dagli spiriti o corpi volatili, ha modificato l’antica nomenclatura astrologica, che non parlava che di spiriti ed assimilava ciascun metallo ad un pianeta determinato. Qui i metalli sono comparati alle stelle e gli spiriti ai pianeti, secondo una classificazione facile da comprendere: questa modificazione di linguaggio non è stata adottata da nessun altro scrittore; avrebbe distrutto tutta la sinonimia astrologica dei metalli. Ma ritorniamo al nostro autore.


Le materie che resistono ai corpi, sono definiti nello scritto, corpi ed esseri dotati di anima; quelle che rifuggono il fuoco sono spiriti o accidenti. «Colui – aggiunge l’autore – che ha rifiutato di applicarsi alla teoria, non può riuscire nella pratica manuale».

Segue il sistema delle qualità occulte, presentato nel suo rigore logico: «Una cosa che è esteriormente (in manifesto, in altitudine) calda, umida, molle, è nel suo intimo (in occulto, in profunditate) fredda, secca e dura, perché l’apparenza di ogni cosa è il contrario del suo interno nascosto. Così, in ogni cosa esiste in potenza ogni altra, anche se non la vediamo; ma la distinguiamo soprattutto nelle cose fuse. Le parti interne dell’oro sono argentee e quelle dell’argento sono, reciprocamente, dorate. Nel rame, vi sono, ugualmente, oro e argento in potenza, quantunque non li si possa vedere. In questi ultimi metalli vi sono del piombo e dello stagno in potenza; e, reciprocamente, questi contengono oro ed argento in potenza…».

Con simili teorie la trasmutazione alchemica sembrava del tutto naturale agli adepti.

Un poco più oltre, l’autore cita (anche nel manoscritto) il Lumen Luminum, vale a dire un’opera il cui titolo è precisamente quello del trattato stesso che va scrivendo.

Terminata questa esposizione teorica, egli enumera i metalli e le loro caratteristiche alchemiche.[50]

«Il piombo, nella sua apparenza, è freddo e secco, fetido e femminile, etc.; nella sua profondità, esso ha qualità contrarie», lo stesso lo stagno, il ferro, il rame, l’argento e l’oro.

La generazione dei metalli attraverso lo zolfo ed il mercurio viene esposta secondo le teorie già descritte sopra.

Viene poi un capitolo sulle specie, metalli, spiriti etc. che espone un serie di preparazioni relative ai due allumi, ai due piombi, all’arsenico, all’oro, all’argento, al ferro, al sale ammoniacale, alla marcassite, alla tuzia (ossido di zinco impuro) etc.. Seguono dei procedimenti concernenti l’elisir e la pietra filosofale, designati col nome di acquavite semplice, sostanza che nulla ha in comune col nostro alcool, e che, da questo punto di vista, ha dato luogo ad un errore singolare di Hoefer nella sua Storia della chimica.

I nomi ed i dettagli di queste diverse descrizioni e preparazioni sono gli stessi in tutti i trattati alchemici del XIII secolo e dell’inizio del XIV: per riportarci al caso specifico del nostro trattato, la descrizione è conforme, in generale, sia nella stampa che nel manoscritto. Ma è interessante, per lo studio critico del nostro testo e, più in generale, per la stessa storia della scienza, dire che il testo del trattato De perfecto Magisterio stampato nel Theatrum Chemicum, contiene delle addizioni considerevoli, che vi sono d’altra parte evidenziate come tali. Esse formano almeno due serie di data differente: l’ultima e la più recente porta solo il titolo di Additiones. Diverse sono indicate come tratte dal Libro di Emmanuel, opera araba oggi perduta. Si ritrova anche, tra queste addizioni, una trascrizione del Libro delle XII acque, dato come estratto della versione originale. Quest’ultimo titolo è frequentemente citato dagli alchimisti, e lo si incontra anche attribuito ad un testo del ms. 7158 (fol. 112). Ma bisogna stare attenti al fatto che tale titolo è stato applicato a diverse opere distinte secondo l’uso invalso in simili trattati.

Un’altra addizione nel testo stampato del Theatrum Chemicum (pag. 97) si dice estratto ex liber de artibus Romanorum. Si sa che questo titolo è quello dell’opera del monaco Eraclius, opera più volte stampata nel nostro secolo, ma io non vi ho ritrovato nulla del trattato manoscritto. A pagina 99 del Theatrum Chemicum vi si legge una preparazione del cloruro di mercurio sublimato che manca nella versione manoscritta.

Questa serie di addizioni costituiscono un uso generalizzato, già evidente Papiro di Leyda e facile da distinguere nelle stesse ricette del ms. 6514. E non potrebbe essere altrimenti, se si riflette alla destinazione delle opere che stiamo esaminando. In effetti gli alchimisti pratici che si servivano di queste opere le aggiornavano costantemente, scrivendo al margine dei loro esemplari, o nei fogli bianchi, i fatti e le ricette nuove di cui avevano notizia ed aggiungendovi i propri commenti. Il tutto passava poi nelle copie ulteriori, riprodotte più tardi nelle versioni a stampa. Questo lavoro di addizione ed alterazione progressiva del testo iniziale, compiuto a date differenti, è assai evidente nel De perfecto magisterio; io l’ho segnalato ugualmente nell’opera alchemica attribuita ad Alberto Magno [51], e conviene tenere questo fenomeno in gran conto in tutti gli studi relativi alla storia della chimica medievale. Non si potrebbe proseguire in questa opera storiografica con qualche esattezza senza lo studio ravvicinato dei manoscritti di ciascuna opera e senza identificarne la data di copiatura.

Ma ritorniamo ai trattati latini attribuiti a Razi o ad Aristotele.

Il testo a stampa del Teatrum Chemicum finisce (pag. 127) con le parole tradizionali explicit liber perfectionis. Ora, l’ultimo articolo stampato nella versione del Teatrum Chemicum figura al foglio 123 v°, 1, del ms. 6514, e termina con le seguenti parole: «Tu sarai elevato al di sopra di tutti i cerchi lunari di questo mondo. Visita i poveri, i minori, le vedove e la gente sfortunata, aiutali nelle loro tribolazioni, affinché tu possa, nel giorno del giudizio, intendere il Signore dire: Venite, voi benedetti di mio Padre».

Questo epilogo non è, evidentemente, dovuto all’autore arabo; esso rivela piuttosto la penna di un traduttore cristiano o del suo copista. Inoltre, esso mostra il carattere mistico che si accompagna sempre alle opere alchemiche e di cui si trova tanta traccia in Zosimo, in Olimpiodoro e nei loro epigoni. Queste parole non formano, del resto, nel manoscritto, la vera fine del trattato, che prosegue nell’esposizione delle sue ricette per altri due fogli e mezzo: le stesse ricette esistono nella versione a stampa, ma esposte in precedenza e mescolate con altre. Tutto ciò evidenzia bene il modo di composizione, o piuttosto di compilazione, di questo genere d’opere: e fa ben comprendere come sarebbe poco avveduto accettarne con cieca fiducia l’attribuzione unicamente sulla base delle notizie riportate nel titolo.

Abbiamo terminato l’analisi di questo importante trattato, presentato tanto sotto il nome di Razi che sotto quello di Aristotele, e che non appartiene, probabilmente, al primo più che al secondo. Arriviamo infine, nel manoscritto che stiamo esaminando, ad un’opera che porta un titolo citato anche da Vincenzo di Beauvais: Incipit liber Rasis de aluminibus et salibus quae in hac arte sunt necessaria (6514, fol. 128).

Si tratta di un’opera eminentemente pratica, dove si trovano ricette che trattano frequentemente il medesimo soggetto degli opuscoli precedenti. Esso inizia descrivendo le differenti specie d’atramenta (vetrioli), ossia: l’alcolcotar, l’asurin o alsurin [52], il calcadis, il calcantum…. «Il migliore è da noi, in Spagna, e viene da Elebla. Geber, nel suo libro De metatorum ha detto: Lo si tratta con l’aquila [53]…. Esso racchiude degli zolfi sottili che si fanno risalire e che si tingono, e forse tingono essi stessi» etc.. Il testo del manoscritto è più esteso, ma Vincenzo di Beauvais ha riprodotto le frasi che ho citato e che racchiudono precisamente una delle citazioni che egli fa di Geber.

Il passaggio precedente era d’altronde del tipo di quelli che si trasmettono di autore in autore. In effetti, l’enumerazione delle diverse specie di vetrioli che sto per riprodurre è la medesima in Ibn-al-Behitar [54], che la riporta come tratta da Avicenna. L’asurin, secondo il traduttore di al-Behitar, non sarebbe altro che il sory [55] dei greci, il calcantum essendo invece identico al misy ed il chalcadis al greco chalcitis. Le due prime attribuzioni di significato mi sembrano dubbie: l’asurin è piuttosto la rubrica [56], altrimenti detta syricum o sericum. Il Oory, d’altronde, ha potuto pure essere identificato, in certi casi, con la rubrica. Il testo di Avicenna cui si riferisce Ibn-al-Beithar sembra essere lo stesso di quello che possediamo nel manoscritto 5458 di Parigi (fol. 75-76) che contiene la traduzione latina di Gerardo da Cremona delle opere mediche di Avicenna; manoscritto che il vecchio catalogo fa risalire all’inizio del XIII secolo. Tutta la filiazione di queste ricette, dagli scrittori arabi fino ai nostri latini, diviene così manifesta.

Il preteso Razi del manoscritto 6514 espone in seguito la storia delle differenti specie di sale, il loro uso, il loro trattamento, il loro impiego in alchimia. Ma l’articolo relativo ai vetrioli è il solo che abbia potuto identificare con una citazione di Vincenzo di Beauvais: quest’ultimo aveva tra le mani, evidentemente un testo assai differente dal nostro, quantunque di soggetto simile. La differenza di redazione è soprattutto evidente nell’articolo dedicato ai metalli, attribuito a Razi da Vincenzo di Beauvais: essa merita tanto più attenzione in quanto la teoria è, in fondo, del tutto simile a quella di Avicena.

Riassumendo, tutti questi testi riportano una medesima dottrina, dottrina di origine araba, ma, ad eccezione delle opere di Avicenna, le attribuzioni dei testi nei manoscritti e nelle opere a stampa variano; il che mostra chiaramente che non bisogna prestare fede a queste attribuzioni senza un più ampio esame. La sola attribuzione che possiamo considerare almeno probabile, dopo averla analizzata, è quella di Avicenna.


VI – GEBER E LE SUE OPERE ALCHEMICHE


È venuto il momento di occuparci dei trattati alchemici attribuiti a Geber. Cerchiamo, in primo luogo, se è possibile, di stabilire il carattere delle sue opere autentiche, o almeno quello degli scritti arabi che portano il suo nome, prima di procedere all’esame delle opere latine a lui attribuite.

Il personaggio in sé è poco conosciuto; sembra essere vissuto intorno al IX secolo, ma la sua storia, tale quale è rapportata dagli storici arabi, è piena di oscurità e contraddizioni. Comunque sia, il personaggio ha goduto di una grande reputazione, e gli autori arabi gli attribuiscono 500 opere o opuscoli alchemici. Essi sono tutti inediti: diverse di queste opere si trovano alla Biblioteca Nazionale di Parigi ed alla Biblioteca di Leyda, ma coloro che ne hanno avuto visione dichiarano che esse sono notevolmente differenti dai trattati latini fino ad oggi pubblicati come pretese traduzioni di Geber.

Grazie alla gentilezza del sig. Houdas, professore all’Ecole des langues Orientale, che ha voluto cortesemente tradurre per mio conto due delle opere arabe manoscritte che esistono a Parigi sotto il nome di Geber, sono in grado di precisare i termini di questa comparazione. Inizierò con un’analisi di queste opere, che gli arabi attribuiscono, a torto o a ragione, a Geber; poi ricorderò le citazioni dello stesso autore fatte da Avicenna e Vncenzo di Beauvais; infine comparerò il tutto alle opere latine attribuite a Geber.

Il manoscritto arabo 972 di Parigi racchiude (fol. 52-56) un’opera intitolata: Il libro della regalità, sottotitolato con queste parole: «L’ottavo dei cinquecento trattati composti dallo cheick Abou Mousa Djaber ben Hayyân Eç-Coufy: Dio gli faccia misericordia!». L’opera occupa solo qualche foglio, il che suggerisce probabilmente che i cinquecento trattati attribuiti a Geber non rappresentano un volume di scritti smisurato.

Ecco l’analisi dell’opera in questione: «Nel nome di Dio clemente e misericordioso…Nella presente opera ho indicato due categorie d’operazioni: la prima è di un’esecuzione pronta e facile – non amando, i principi, le operazioni complicate -… Da ciò il nome di Libro della Regalità…. Questo procedimento deve essere tenuto segreto, senza essere rivelato né ai vostri parenti né a vostra moglie, né a vostro figlio etc.. Se divulgassimo quest’opera, dicevano gli antichi, il mondo sarebbe corrotto, perché si fabbricherebbe l’oro come oggi fabbrichiamo il vetro». Poi viene la definizione di pietra filosofale: «Sappiate, cari fratelli, che l’acqua [57], se la si mescola con della tintura e dell’olio [58] in modo da farne un tutto omogeneo, poiché il liquido fermenta, si solidifica e diviene pari ad un grano di corallo, l’acqua dà una sorta di prodotto fusibile come la cera, che penetra sottilmente tutti i corpi: è l’imam.[59]”.

«… Ho menzionato la via nel Libro dei Settanta[60]. La via più veloce è quella della bilancia. L’operazione può durare, più o meno, da settanta a quindici giorni, come ho detto nel libro dei Settanta. La via della bilancia, più corta, dura da nove giorni ad un momento, salvo il tempo necessario per raccogliere le droghe, pestarle, mescolarle, fonderle etc. … Ho sperimentato io stesso tutto ciò che riferisco, ma voi non dovrete mettere a parte del processo nessuno…. L’elixir fonde come la cera e penetra subito il corpo per il quale è stato preparato e che prende il suo fulgore (metallico) in un batter d’occhio».

Poi l’autore parla di coloro che non hanno ottenuto il risultato cercato che per puro caso, e che non sono riusciti a riprodurlo. «Voglio spiegarvi il processo e la sua bilancia». Questo termine è dato in un senso vago ed emblematico. «Le bilance sono i numero di tre… due semplici: quella dell’acqua e quella del fuoco. La terza, composta delle prime due». L’autore si abbandona continuamente ad enunciati vaghi annunciando che egli vuol parlare senza misteri, ma non precisando mai nulla e rinviando continuamente ad altri scritti di cui riporta il titolo.

Tale è il carattere generale di questo primo trattato di Geber.

Il medesimo manoscritto (fol. 58) ne racchiude un secondo, intitolato Il piccolo libro della clemenza di Djaber. «Nel nome del Dio clemente e misericordioso. Djaber ben Hayyan si esprime con queste parole: il mio maestro (che Dio sia soddisfatto di lui!)….mi disse: Tra tutti i libri nei quali ha trattato l’Opera, libri divisi in capitoli dove tu descrivi le diverse opinioni e dottrine, e divisi in sezioni in cui si enumerano le diverse operazioni, ve ne sono di quelli che hanno forma allegorica ed il cui senso apparente non offre alcuna verità. Altri hanno l’apparenza di trattati sulla guarigione delle malattie e non potrebbero essere compresi che da un sapiente abile. Alcuni sono redatti sotto forma di trattati astronomici [61]….altri hanno l’apparenza di opere letterarie, in cui le parole sono impiegate tanto nel loro vero senso, quanto in un altro senso nascosto…. Ora, la dottrina che dà l’intelligenza di queste parole è scomparsa. Nessuno, dopo di te, potrà dunque più conoscerne il senso esatto…. Infine, hai composto numerose opere sui minerali e le droghe, e questi libri hanno confuso lo spirito dei ricercatori che hanno consumato i loro beni, sono divenuti poveri e sono stati spinti dal bisogno a coniare monete false e pietre false….essi hanno anche impiegato l’inganno per imbrogliare i ricchi e tutti gli altri, e la colpa di tutto ciò è tua e dei tuoi scritti. Adesso, Djaber, domanda perdono a Dio Altissimo, e dirigi i cercatori verso un’opera facile e raggiungibile.

Maestro – risposi – specifica quale capitolo io debba trattare in questo modo.

– Non vedo nelle tue opera alcun capitolo che sia completo ed indipendente: tutti sono oscuri e confusi, al punto che ci si perde.

– Ciò nonostante, ho menzionato l’opera nel mio Libro dei Settanta…nel Libro della Regalità, uno dei miei cinquecento opuscoli, nel Libro della natura dell’Essere, etc.. Ciò è pure detto nelle Venti proposizioni[62]. …

– Componi su questo soggetto un libro semplice, chiaro, senza enigmi, riassumi le lungaggini e non viziare il tuo discorso con delle digressioni, secondo il tuo costume abituale… Si troverà qui la produzione delle tinture senza putrefazione, senza lavaggi, senza purificazione, senza imbiancamento dei corpi né combustioni al fuoco…».

Viene poi la descrizione di un sogno simbolico: «Mi vidi in sogno, in piedi, in mezzo a parchi ed aiuole. Alla mia destra scorreva un fiume di miele mescolato a latte; alla mia sinistra un fiume di vino. Io sentivo una voce che diceva: O Djaber, invita i tuoi amici a bere dal fiume di destra, ma vieta loro il fiume di sinistra…». In seguito, l’autore annuncia nuovamente che sarà chiaro: «io sto per indicare la via del solo fuoco, senza alcun altro agente; questa operazione è quella del mercurio fissato, fondata sulla bilancia. L’opera è esterna ed interna». Egli raccomanda nuovamente il segreto: poi comincia, come sempre, ad esprimersi in termini vaghi e simbolici: «Togliete ciò che è straneo… Eliminate la sua forma corporale e materiale, perché non potrà mescolarsi alle parti sottili se non sarà sottile esso stesso. Combinate gli elementi freddi ed umidi con gli elementi caldi ed umidi prima, poi con gli elementi caldi e secchi, ed avrete l’Imam». Poi compara la fabbricazione dell’oro e dell’argento alla creazione, da parte di Dio, del sole, in cui predomina il calore e la secchezza, e della luna, in cui domina il freddo e l’umidità. Bisogna ottenere un elixir di due colori che corrispondono a questi due astri (e metalli). «…Fate fondere a i tre gradi del fuoco: il fuoco del principio, il fuoco intermedio ed il fuoco estremo, che fonde l’elixir… Il solido fonderà come cera e in seguito indurirà all’aria; penetrerà e s’introdurrà come veleno[63]… una sola parte sarà sufficiente per un milione. Conservate l’elixir in un vaso di cristallo di rocca, d’oro o d’argento, il vetro essendo troppo facile a spezzarsi….Non vi ho nascosto nulla, ho appianato tutte le difficoltà come alcun antico o moderno avrebbe potuto fare. Ricompensatemi con le vostre preghiere. Distribuite una parte dell’elixir a mio nome, gratuitamente, ai poveri ed agli sventurati [64]. Dio ve ne renderà merito per me: lui mi è sufficiente, ed è il migliore dei protettori…».


Questa analisi riproduce i tratti fondamentali dei due opuscoli arabi che portano il nome di Geber. La loro comparazione con le opere menzionate nel presente lavoro dà luogo a diverse annotazioni.

La prima e più essenziale, è che il testo arabo non contiene alcuna delle dottrine sulla costituzione dei metalli che troviamo nei trattati latini che passano per tradotti dall’arabo, attribuiti sia ad Avicenna che a Razi, nelle opere di Vincenzo di Beauvais e di Alberto Magno, o dello pseudo Aristotele, o anche nelle opere del preteso Geber latino. In particolare si può osservare che nessuna allusione è fatta nei testi arabi precedenti, alla teoria della generazione dei metalli attraverso l’azione di zolfo e mercurio. Né troviamo, nelle opere arabe, ricette precise sulla preparazione di sali, metalli o altre sostanze.

In questi trattati arabi, il linguaggio è vago ed allegorico, e richiama, per stile simbolismo, carattere declamatorio, le sue esortazioni, la sua pietà affettata, quello degli alchimisti bizantini come Stefano o Comario [65]. Nulla impedisce dunque di ammettere che gli scritti arabi che abbiamo analizzato siano stati scritti sullo stile di questi alchimisti, vale a dire intorno al periodo in cui gli storici collocano la fioritura di Geber. A mano che i testi arabi stessi non siano stati scritti in un’epoca posteriore sotto l’egida di questo nome venerato.

Non si potrebbe trarre alcuna ipotesi valida dalle raccomandazioni relative al segreto, o dall’uso del simbolismo, elementi comuni agli alchimisti di tutti i tempi. Ritroviamo i medesimi elementi tanto nelle opere di Olimpiodoro e Zosimo che in quelle di Avicenna e negli scritti degli alchimisti del XVI secolo. Non possiamo desumere da ciò nessun preciso termine storico di comparazione; dovremo perciò rivolgerci soprattutto alle indicazioni di nomi di personaggi, autori ed opere conosciute, oppure alla filiazione di dottrine ed esposizioni scientifiche. Ora, nelle citazioni precedenti, non è enunciata alcuna precisa dottrina scientifica, né alcun personaggio. La sola opera che suscita la nostra attenzione è il Libro dei Settanta, la cui versione latina manoscritta meriterebbe di essere studiata, a questo riguardo, in modo più approfondito. Anche i sottotitoli sono del medesimo stile oscuro e pretenzioso tanto nelle opere latine che negli opuscoli arabi di Geber [66]: ma questo non ci aiuta, essendo un carattere già presente nella traduzione alchemica dell’epoca di Zosimo. [67]

Compariamo ora i testi che abbiamo testé analizzato con le citazioni attribuite a Geber negli scritti latini del XII e XIII secolo. Ciò che colpisce subito, è che – circostanza singolare – Geber non è mai citato direttamente dagli autori latini sicuramente autentici di quest’epoca. Non lo è da Alberto Magno, non lo è da Vincenzo di Beauvais. Quest’ultimo solo ne riproduce semplicemente due volte il nome, come abbiamo detto, ma lo fa all’interno di citazioni tratte da Razi e da Avicenna: o meglio, tratte dalle traduzioni latine di opere attribuite a questi ultimi. Possiamo dunque concludere che né Alberto Magno, né Vincenzo di Beauvais, hanno conosciuto le opere latine che sono oggi attribuite a Geber, opere di cui troviamo numerose copie manoscritte a partire dal 1300. Tali copie, se non le opere stesse, non esistevano dunque ancora, o almeno non erano diffuse e guardate con reverenza, intorno all’anno 1250.


Si leggono citazioni diverse ed estese di frasi e dottrine attribuite e Geber nel trattato di Avicenna De Anima, trattato che offre tutte le caratteristiche d’un’opera tradotta realmente dall’arabo e che, se si scartano certe interpolazioni, può essere attribuita ad Avicenna stesso con buona verosimiglianza.

Non parleremo della doppia menzione del nome di Geber fatta nella lista dei nomi di alchimisti, essendo questa lista, evidentemente, un’interpolazione del traduttore. Si trovano testi più significativi nel capitolo III del libro I del trattato De Anima. Avicenna vi critica Geber, dopo averlo chiamato “maestro dei maestri”, lo accusa di ciarlatanismo, accusa sulla quale ritorna a più riprese, e gli rimprovera il suo vago simbolismo. Rimprovero, d’altro canto, in accordo con le citazioni precedenti del testo arabo. Le frasi stesse ce Avicenna attribuisce a Geber sulla pietra che non è pietra, sulla pietra comparata ad un albero, a un’erba, a un animale non si ritrovano nelle piccole opere arabe che ho citato, ma potrebbero provenire da altri trattati. In ogni caso, esse sono in armonia col carattere generale simbolico degli opuscoli che abbiamo esaminato, mentre differiscono notevolmente dal carattere essenzialmente razionale delle opere latine di cui ci stiamo per occupare.

Queste, meritano infatti un’attenzione tutta particolare, perché è ad esse che è dovuta la reputazione di cui Geber ha goduto nel mondo latino: reputazione usurpata, se i dubbi relativi alla loro autenticità sono fondati. Per permettere al lettore di giudicare al meglio la questione, credo sia necessario dare qualche indicazione generale sulle pretese opere latine di Geber.


Le principali hanno per titolo:


Summa collectionis complementi secretorum naturae, altrimenti detta Summa perfectionis magisterij; opera capitale, che si presenta sotto differenti titoli nei manoscritti e negli stampati;

De investigatione perfectionis, De inventione Veritatis, e Liber fornacum; tutti trattati contenuti nel volume Artis Chemicae principes (Basilea 1572): infine Testamentum Geberi regis Indiae ed Alchemia Geberi.

Tra le opere attribuite a Geber dobbiamo anzitutto scartare le ultime due, opere pseudopigrafe i cui manoscritti sono molto più moderni. Le preparazioni descritte nell’Alchemia, e, segnatamente, quelle che concernono l’acido nitrico, l’acqua regale, il nitrato d’argento, sono sconosciute agli autori del XIII secolo e non figurano neanche nella Summa. Si tratta evidentemente di scritti apocrifi e più moderni, composti nel corso del XIV secolo e posti sotto l’autorità del nome di Geber.

Gli opuscoli De investigatione perfectionisDe inventione veritatis ed il Liber fornacum non sono che estratti e riassunti della Summa, che, d’altronde, vi è citata a più riprese. Essi riproducono le stesse preparazioni ed operazioni, con l’addizione di definizioni più moderne, come quella del salnitro, del sale di tartaro, dell’allume di rocca e di piuma, la menzione delle acque dissolventi ottenute dalla distillazione di un miscuglio di vetriolo di Cipro, salnitro ed allume – il che fornisce, in effetti, dell’acido nitrico – o aggiungendo ad questi sali del sale ammoniacale – il che rende il prodotto atto a dissolvere oro, zolfo ed argento (acqua regia). Tutto ciò manca nella Summa, Ora, queste preparazioni, per quanto ne so, non figurano in alcun manoscritto del XIII secolo o dell’inizio del XIV, rappresentando in effetti, pressappoco, il medesimo livello di conoscenze desumibili dagli scritti di un Giovanni da Rupescissa. Esse non somigliano per niente agli scritti arabi autentici, né agli scritti latini che si reputano tradotti da Avicenna.

Concentriamo di preferenza sulla Summa, che è l’opera fondamentale attribuita a Geber. Il testo è riportato nei più vecchi manoscritti alchemici latini: il 6514 della Biblioteca Nazionale, scritto intorno al 1300, ne contiene due copie, copie complete e conformi ai testi stampati, salvo varianti. Ho verificato in dettaglio questa conformità, specialmente per la prima copia.

La Summa è un’opera metodica, assai ben composta. E’ divisa in due libri. Il primo tratta dei problemi generali della scienza chimica; si divide in quattro parti, precedute da una prefazione: «Abbiamo appreso la nostra scienza dai libri degli antichi e ne abbiamo fatto una Summa, o riassunto, integrandola al bisogno… Per trarre profitto da questo libro, bisogna che l’adepto conosca i principi naturali che sono il fondamento della nostra arte; attraverso tali principi egli non comprenderà questa arte nascosta, ma vi si avvicinerà più facilmente…. L’arte non può riprodurre la natura in tutte le sue opere, ma può imitarla, quando è sottoposta a regole corrette… ». Si veda subito come questa breve esposizione differisce dalle promesse eccessive e vaghe del Geber Arabo. Non incontriamo più nessuna delle classiche formule musulmane: «Nel nome di Dio clemente e misericordioso…» di cui questo autore è prodigo, così come l’Avicenna tradotto in latino. Lo Pseudo-Geber latino parla tutt’altro linguaggio.

La prima parte del 1° libro della Summa, parla degli impedimenti dell’arte e delle caratteristiche necessarie all’operatore. Gli impedimenti riguardano il corpo e lo spirito: «… Ancora non si riuscirà che con il concorso e la potenza si Dio, che dona e toglie a chi vuole….».

La seconda parte del 1° libro espone i ragionamenti di coloro che negano l’esistenza dell’alchimia e li confuta. Si tratta di idee sconosciute dagli alchimisti greci e siriaci, di cui posseggo una traduzione. Si tratta di idee del tutto assenti dagli opuscoli arabi di Geber che abbiamo analizzato. In verità, Avicenna accenna a questi dubbi, ma si tratta di un autore ben più recente del Geber storico, ed espone comunque le su obiezioni in modo ben più sommario e confuso dello Pseudo-Geber latino[68]. Nella Summa l’argomentazione è sviscerata a fondo e seguendo le due tesi contrarie, in modo conforme alle regole della logica scolastica. Riporterò, di queste parti, solo l’obiezione terribile che ha finito per uccidere l’alchimia: «E ormai molto tempo che questa scienza è perseguita dai sapienti; se fosse stato possibile pervenire al fine attraverso qualche via, vi si sarebbe già pervenuti migliaia di volte. Nei libri dei filosofi che hanno preteso trasmettere il segreto noi non troviamo la verità. Molti re e principi del mondo, avendo a loro disposizione grandi ricchezze, e numerosi filosofi hanno desiderato realizzare quest’arte senza mai riuscire ad ottenere i suoi frutti preziosi; è dunque un’arte frivola…». Tra gli argomenti contrari, trascrivo il seguente, che è sopravvissuto poi come principio di filosofia sperimentale: «…Non siamo noi a produrre questi effetti, ma la natura; noi disponiamo i materiali e le condizioni, ed essa agisce da sola: noi siamo i suoi ministri (administratore illius sumus) .


L’autore prosegue sempre con metodo; egli espone, non senza calore, i pro e i contro delle opinioni di coloro che fanno consistere l’arte nell’azione degli spiriti, vale a dire che traggono la pietra filosofale dal mercurio, dallo zolfo, dall’arsenico, dal sale ammoniacale, oppure dai corpi – come il piombo bianco e nero (piombo ordinario e stagno), gli altri metalli, il vetro, le pietre preziose, i sali, gli allumi, il natron, il borace (fondente) o tutte le materie vegetali. Questa lunga discussione scolastica mostra proprio tutte le caratteristiche stilistiche degli argomentatori del XIII secolo, ma rassomiglia assai poco a quello che leggiamo abitualmente nei testi arabi propriamente detti.


Ho citato questa esposizione soprattutto perché mostra bene la traccia dello spirito e dei tempi dell’autore. Ma le ultime parti del 1à libro hanno un autentico carattere scientifico e manifestano lo stato delle conoscenze e delle teorie chimiche, non al IX secolo, in cui nessuno era in possesso di un simile linguaggio, ma piuttosto verso la fine del XIII secolo. L’autore attribuisce agli antichi l’opinione che i principi naturali sui quali la natura opera sono lo spirito fetido e l’acqua di vita (zolfo e mercurio); opinione sviluppata nel IX secolo da Avicenna e che non sembra risalire ad epoche più antiche. Secondo lo Pseudo-Geber, latino, ciascuno di questi principi, deve, in primo luogo, essere cambiato in una terra corrispondente; poi, da queste due terre, il calore sviluppato nelle viscere della terra estrae un duplice vapore sottile che è la materia immediata dei metalli.

L’autore dice in seguito che, secondo lui, esistono in realtà tre principi naturali dei metalli: lo zolfo, l’arsenico, che gli è congenere, ed il mercurio. Si tratta, in realtà di teorie in parte nuove e posteriori a quelle di Avicenna.

A ciascuno di questi principi naturali il nostro autore consacra un capitolo in cui espone una serie di fatti positivi, talvolta deformati dalle sue interpretazioni: «Lo zolfo perde la maggior parte della sua sostanza con la calcinazione… Ogni metallo calcinato con lui aumenta di peso … Unito al mercurio esso produce il cinabro…».

«Il mercurio cola su di una superficie piana senza aderirvi. Si unisce facilmente col piombo, con lo stagno e l’oro; più difficilmente all’argento ed al rame; al ferro, solo per artificio. L’oro è il solo metallo che cade infondo al mercurio…È grazie al mercurio che si indorano tutti i metalli…»

Poi vengono i sei metalli: L’autore li enumera e definisce con gran chiarezza: «un metallo è un corpo minerale fondibile, malleabile…»; tratta ciascuno di essi in un capitolo apposito e distinto, presentandone dal principio l’esatta definizione: «L’oro è un corpo metallico, giallo, pesante, non sonoro, brillante… malleabile, fondibile, resistente alla prova di coppellazione e di cementazione. Con questa definizione tu puoi stabilire che un corpo non è oro, se non soddisfa le condizioni positive della definizione e delle sue differenziazioni…».

Tutto ciò rappresenta una solidità di pensiero e di espressione sconosciuta agli autori anteriori, e, segnatamente, a quelli arabi.

Ciò nonostante l’autore crede, come tutti gli alchimisti, che il rame può essere cambiato in oro attraverso la natura e l’arte, e cita come prova delle osservazioni secondo le quali certi minerali di rame, decomposti per l’azione prolungata delle acque in natura, lasciano nella sabbia delle pagliuzze d’oro. Queste osservazioni sono esatte, in effetti, ma mal interpretate, poiché l’oro preesiste nei minerali in questione, come oggi sappiamo.

Comunque sia, l’autore definisce con il medesimo rigore l’argento, il piombo e gli altri metalli, e rintraccia i tratti caratteristici della loro storia chimica, tale quale era conosciuta ai suoi tempi.

Se si eccettuano certi dettagli erronei ed illusori relativi alla trasmutazione, tutti questi capitoli recano il segno di una scientificità solida e positiva, ben più chiara, netta, metodica di quella degli alchimisti greci, siriaci o dello stesso Avicenna. Essa è comparabile se non superiore, a quella di Alberto Magno o di Vincenzo di Beauvais, e sembra esposta da un loro contemporaneo.

Infine, la quarta parte del libro I della Summa è consacrata all’esposizione delle operazioni di manipolazione chimica, ossi: la sublimazione in generale – con numerosi dettagli tecnici sugli aludel, le fornaci – la sublimazione del mercurio, quella dei sulfuri (marcassite e magnesia) – la quale si risolveva, in realtà, in un arrostimento – quella della tuzia (ossido di Zinco impuro).

Poi viene la descensio, o fusione dei corpi, eseguita in modo da far colare i metalli sul fondo della fornace; ancora, segue la distillazione per alambicco e la filtrazione, calcinazione o o arrostimento; abbiamo poi la soluzione, definizione che comprende sia la fusione che la dissoluzione propriamente detta, la coagulazione, la fissazione, l’incerazione o rammollimento. Tutte queste descrizioni sono accompagnate da numerosi dettagli tecnici e da disegni e figure precise[69].

Sappiamo così assai dettagliatamente quali erano le operazioni eseguite dagli alchimisti nel XIII secolo, ed abbiamo una base solida per apprezzare i fatti sperimentali su cui essi appoggiavano le loro opinioni, reali o chimeriche che fossero. In ogni caso, questa parte dell’opera dello Pseudo-Geber, è chiara e positiva: essa non cita, d’altronde, alcun autore e vi si ritrovano a mala pena due o tre nomi arabi di sostanze, nomi d’uso allora correnti in occidente. Non vi è alcuna rassomiglianza con i testi arabi che abbiamo analizzato in precedenza. Inoltre il modo generale di esposizione è differente da quello del trattato di Avicenna, quantunque lo stile delle idee non sia privo di una qualche analogia. Si deve soprattutto notare che il testo attribuito a Geber è redatto con un metodo tutto occidentale, contemporaneo a quello in uso negli scritti di Tommaso D’Aquino.

Il secondo libro dello Pseudo-Geber latino è essenzialmente alchemico, ma sempre esposto secondo le regole della logica scolastica : «…Per conoscere le trasmutazioni dei metalli e quella del mercurio, bisogna che l’operatore abbia nello spirito la conoscenza vera della loro natura interna. Esporremo dunque dapprima i principi dei corpi, ciò che essi sono secondo le loro cause proprie, ciò che contengono di buono o cattivo. Poi mostreremo le nature dei corpi e le loro proprietà, le quali sono causa della loro corruzione…». L’autore indica di seguito come bisogna correggere la natura dei metalli imperfetti, descrivendo poi nella seconda parte i rimedi o medicine che conviene loro somministrare. La terza ed ultima parte del secondo libro riprende un carattere più chiaro e realistico per l’occhio moderno: si tratta di un’esposizione dell’analisi e prova dei metalli per coppellazione (cineritium), cementazione, ignizione, fusione, esposizione ai vapori acidi, mescolamento e riscaldamento con zolfo, calcinazione, riduzione, amalgamazione. Tutto ciò rappresenta, reputo una scienza autentica, che persegue fini reali con dei procedimenti seri, senza mescolare l’illusione mistica o il ciarlatanismo.

Tale è quest’opera, rimarchevole per lo spirito metodico e razionale che ha improntato la sua composizione e per la chiarezza con la quale sono esposti i fatti chimici relativi alla storia dei metalli e degli altri composti. Ma questo stesso metodo, questi ragionamenti netti, queste coordinazioni logiche di fatti ed idee tradiscono il luogo e l’epoca in cui il libro è stato effettivamente composto. Si tratta, a mio avviso, di un’opera del XIII secolo e non si potrebbe, in alcun modo, attribuirla ad un autore arabo dell’VIII o IX scolo: non potremmo avallare simili attribuzioni né considerando ciò che sappiamo degli alchimisti bizantini e siriani – spiriti deboli e mistici, privi di originalità – né dalla traduzione citata dei testi arabi attribuiti a Geber, né tantomeno dall’esame dell’opera che sembra realmente frutto di una traduzione dal latino, ed attribuita ad Avicenna.

La Summa non contiene alcuna prova categorica di una simile origine orientale, né nel metodo, né nei fatti, né nelle parole o nei personaggi citati, né nelle allusioni all’islamismo che vi sono completamente assenti.

Non solo la Summa, non risale al IX secolo, ma sembra estremamente dubbio che sia mai esistito un testo arabo di cui quest’opera possa essere la traduzione, per quanto modificata e interpolata; è troppo dissimile dagli opuscoli arabi di Geber e dal De Anima avicenniano, perché si possa ammettere una simile ipotesi. Senza arrivare a negare che qualche frase o qualche brano possano essere tratti dal Geber arabo, da scritti ignorati fino ad oggi, ciò nonostante la paternità dell’opera non potrebbe essere attribuita ad un autore arabo. L’ipotesi più verosimile, da mio punto di vista, è che un autore latino, rimasto sconosciuto, abbia scritto questo libro nella seconda metà del XIII secolo, seguendo fatti e documentazioni in suo possesso, e che ha giudicato opportuno di mettere sotto il patrocinio del nome venerato di Geber, così come gli alchimisti greco-egiziani avevano usato il nome di Democrito per le loro elucubrazioni: un testo siriano di alchimia in mio possesso porta proprio il nome di Dottrina di Democrito.

In ragione della sua chiarezza e del suo metodo, superiore a quello dei trattati tradotti realmente dall’arabo che figurano nei nostri manoscritti, l’opera latina dello Pseudo-Geber ha assunto ben presto una autorità considerevole ed ha ricevuto una diffusione universale nel mondo degli alchimisti, costituendo la base degli studi del XIV secolo. Ma la sua attribuzione agli arabi ha falsato tutta la storia della scienza, conducendo ad attribuire a questi tutto un insieme di conoscenze positive che essi non hanno mai posseduto.

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[1] Annales de Chimie et de phisique, VI serie, tomo XXII, pag. 145 (1891); Revue Scientifique (7 Febbraio 1891) ; Journal des Savants (marzo 1891) pag. 182

[2] Journal des Savants agosto 1890, pag. 515.

[3] Journal des Savants giugno 1891 pag. 371 e, soprattutto pgg. 375-376; sui manoscritti di Parigi che riportano la numerazione 6514 e 7156.

[4] Vedi le indicazioni della nota precedente

[5] Journal des Savants agosto 1890, pag. 514, e settembre 1890, pag, 573

[6] Secondo un’indicazione del sig. Zotemberg tratta da un manoscritto arabo, questo nome, probabilmente, è lo stesso di quello di Zosimo deformato.

[7] Questa parola è applicata ad ogni sostanza volatile che sfugge il fuoco: il che comprende, oltre i quattro spiriti minerali, i prodotti tratti da piante ed animai per distillazione, come l’autore dice formalmente più oltre.

[8] Vedere Journal des Savants, febbraio 1891, pgg. 130-132

[9] Questa comprende, nell’idea dell’autore, le nostre dissoluzioni chimiche con gli acidi, gli alcali, e anche la formazione degli amalgami fusibili, la dissoluzione per mezzo del mercurio e quella dei solforosi o solfoarseniosi fusibili per mezzo dello zolfo o dei solfuri di arsenico, etc..

[10] La parola distillazione nella lingua alchemica significa lo scorrimento goccia a goccia che questo risulti da un’evaporazione, una filtrazione e anche da una semplice fusione.

[11] Bisogna intendere, con questa parola, ogni operazione che cambia un corpo volatile in un corpo fisso, o un corpo fondibile in uno non fondibile: ad esempio la calcinazione, il cambiamento dei metalli in ossidi o in solfuri etc.

[12] Journal des Savants, giugno 1891, pag. 372

[13] Collection des Alchimistes grecs, trad. pag. 64. Vedere anche pag. 138.

[14] Si tratta di un vocabolo desueto. Cito dal Testi: «ocra ferruginosa rossa, anche pietra o silicato rosso in genere, gemme rosse». (G. Testi, Dizionario di alchimia e chimica antiquaria � Paracelso, ed. Mediterranee, Roma 1985 (N.D.T.)

[15] Questo passaggio è citato in Vincenzo di Beauvais, (Speculum Naturale VIII, cap. IV)

[16] Vedere Journal des Savants, febbraio 1891, pag. 129.

[17] Libro VIII, cap. LXII, dove si legge armenides, la P maiuscola essendo senza dubbio stata omessa nel manoscritto originale, come avviene sovente. Cf. Bibliotheca Chemica Curiosa del Manget. t. I, pag. 482. – Zenone figura anche nella Turba.

[18] Si tratta del vetriolo (atramentum). Razi dice: «Il suo trattamento, come dice Geber, si opera a mezzo dell’aquila (vale a dire del sale ammoniacale). Nel vetriolo vi sono degli zolfi sottili che sono sublimati, tinti e forse tingenti».

[19] Come la rubrica, si tratta di un pigmento rosso a base di ematite. (N.D.T.)

[20] Ancora un altro rosso, per quanto ne sappiamo, a base di minio di piombo. Citato da Plinio. (N.D.T.)

[21] Verde, silicato o carbonato di rame. (N.D.T.)

[22] Vedere la mia Introduction à la chimie des anciens pag. 228

[23] Journal des Savants, giugno 1891, pag. 370[24] Vedere, a questo soggetto, la mia Introduction a la chimie des anciens, p. 207. Vedere anche ciò che ho detto sulla Practica Jacobi Theotonici (Annales de Chimie et de Physique 6° serie, t. XXIII, pag. 458)

[25] De Mineralibus, libro III, 7 ed 8 – Ricordiamo il ruolo giocato nei romanzi del medioevo dai racconti dello pseudo- Callistene su Alessandro.

[26] De Mineralibus, III, 4 ed 8.

[27] Ms. 6514, fol. 125 r°, 1: «I figli di Gilgil di Cordova dicono che aveva una miniera a nord di Cordova…etc.».

[28] Vedere segnatamente De Mineralibus, libro III, 4, 6, 9 etc..

[29] Espressione simbolica. Vedere più oltre.

[30] Vedi nota precedente.

[31] Dictio I, II e passim.

[32] Le ultime parole sono solo nella versione manoscritta.

[33] Journal des Savants, febbraio 1891, pag. 131.

[34] Vincenzo di Beauvais riproduce una parte di questo passaggio.

[35] Si tratta di Calid, interlocutore di Morieno, cui è attribuito il Liber trium verborum.

[36] Questi versi cominciano così: «Inexhaustum fert thesaurum\ Qui de Virgis fecit aurum\ Gemmas de Lapidibus….».

[37] Vedere Les Origines de l’alchimie, pag. 118 – la Collection des anciens Alchimistes Grecs, trad. pag. 252 e soprattutto la nota 3 a pag. 406.

[38] Ossido rosso di mercurio ?

[39] Introduction à la chimie des anciens, pag. 10 e sgg.

[40] Collection des anciens alchimistes grecs, trad. pag. 4

[41] Razi, ms. 6514, fol. 114 v° 2.

[42] Introduction à la chimie des anciens, pag. 56.

[43] Collection des alchimistes grecs, trad. pag. 132 – Journal des savants, settembre 1890, pag. 582.

[44] Questo trattato si trova anche nel ms. 7162; ma comincia con la generazione dei metalli.

[45] Vedi più sopra.

[46] Cito dal manoscritto, il cui testo è più corretto di quello del Theatrum Chemicum.

[47] Origines de l’alchimie, pag. 213, 219, 221 e 234, etc.

[48] Introduction cit. , pag. 81

[49] Collection cit., trad. pag. 25 ; testo greco, nota, pag. 24.- Introduction cit. pag. 79

[50] Ms. 6415 fol. 122 ° 1; Theatrum Chemicum, t. III, pag. 86.

[51] Introduction cit. pag. 208

[52] Vedi sopra.

[53] Vale a dire con il sale ammoniacale, come dice Vincenzo di Beauvais.

[54] Trattato dei semplici trad. dall’arabo di Leclerc, nelle Notices et extraits des manuscrits t. XXV, pag. 193, n° 1080

[55] Introduction cit. pag. 242

[56] Idem, pag. 262.

[57] Mercurio

[58] Zolfo, o piuttosto solfuro d’arsenico fuso.

[59] Non ci è data visione del lemma alla base di questa traslitterazione. Assumendola per esatta – non vi è motivo di fare altrimenti – non può tuttavia che essere interessante l’assonanza del prodotto delle manipolazioni alchemiche prescritte con l’imam musulmano, ovvero la guida rituale della preghiera. (NDT)

[60] Liber de Septuaginta. Esiste una traduzione latina di un’opera che porta questo titolo nel ms. 7158. Vedere Journal des Savants, giugno 1891, pag. 372, nota.

[61] Trattato d’Avicenna, dictio VI, cap. II; Geometria alchemica, pag. 198. Cfr. Journal des Savants marzo 1892, pag. 191: l’arte chimica, nello pseudo-Aristotele, è un’astronomia inferiore.

[62] Questo titolo ricorda quello del Libro delle trenta parole.

[63] Ios in greco; vedere Introduction à la Chimie des anciens…, pag. 14 e 254

[64] Cfr. Collection des Alchimistes Grecs, trad. Hierothée, pag. 423. Vedi anche Olimpiodoro, pag, 86

[65] Collection des Alchimistes Grecs, trad. pag. 278

[66] Cfr. Journal des Savants giugno 1891, pag. 372, nota

[67] Vedi Origines de l’alchimie, pag. 183. Libro della virtù; Sulla virtù e l’interpretazione; libro del Conto finale; libro della Verità, etc.

[68] Vedi, segnatamente, Dictio I, cap. 2

[69] Ho riprodotto queste figure in Annales de physique et de chimie, serie 6, t. XXIII, pag,. 433.